Grandi imprese

William Magnuson: Le grandi aziende come motore per il bene comune

10 Maggio 2024

Tra luci e ombre, intenti filantropici e spietato desiderio di guadagno, Magnuson ci racconta le sorti delle grandi aziende nel solco ambiguo che esiste tra interessi personali e benessere comune, mostrando come, nonostante successi e insuccessi, errori e scelte vincenti, il profitto sia da sempre collegato alle maggiori conquiste dell’umanità; e come, proprio per questo, sia anche il protagonista dei suoi abissi.
Pubblichiamo un estratto da “Profitto. Storia delle grandi aziende dall’antica Roma a Meta” (Il Saggiatore) di William Magnuson.

È inevitabile che le grandi aziende ricadano sempre nel vizio e nell’avidità? La storia di queste istituzioni è fatta solo di grandi aspettative e risultati deludenti? La società pecca semplicemente di ingenuità riguardo al ruolo che interpretano le grandi aziende sul palcoscenico mondiale? A mio parere la risposta è no, a tutte queste domande.  Nel corso dei secoli le grandi aziende hanno dimostrato una straordinaria capacità di incanalare gli sforzi umani verso imprese produttive: c’è qualcosa di maestoso nella storia di Henry Ford che riesce a costruire un’automobile e mette insieme, nell’arco di appena vent’anni, una squadra capace di fabbricarne diecimila in un giorno; c’è qualcosa di sbalorditivo negli ingegneri della Exxon che girano per il mondo a caccia di riserve di petrolio nascoste e poi inventano modi per estrarle dal fondo dell’oceano e dalle terre ghiacciate dell’Artico; c’è qualcosa di grandioso nel team di programmatori di Mark Zuckerberg che costruisce Facebook trasformandolo in una piattaforma che abbraccia miliardi di personein tutto il mondo. C’è spregiudicatezza in tutto questo, certo, ma c’è anche qualcosa di mistico.

La grande azienda, nella sua essenza, è una dimostrazione del potere della cooperazione, della forza di tanti individui che operano insieme verso uno scopo comune. Le grandi aziende fanno miracoli economici perché le persone, quando agiscono insieme, sono capaci di fare cose più grandi che quando agiscono ognuna per conto proprio. È una cosa da celebrare ed è un motivo per essere ottimisti, sia riguardo alla natura umana sia riguardo al nostro sistema capitalistico. È sempre difficile stabilire con precisione quali siano le misure che promuovono al meglio il bene comune, ma il fatto stesso di porsi la domanda è un passo nella direzione giusta: Henry Ford si chiese come poteva usare la sua azienda per portare beneficio ai cittadini e al tempo stesso ai suoi dipendenti, e il risultato furono automobili a buon mercato e salari alti; Grenville Dodge era convinto che l’America avesse bisogno di una ferrovia transcontinentale e per questo contrastò senza posa i tentativi di altri dirigenti di lesinare sulle spese e pagare dividendi eccessivi agli azionisti, sottraendo fondi alla compagnia stessa.

È altrettanto importante sottolineare che sì, in alcuni casi è difficile capire che cosa sia nell’interesse del bene comune e che cosa no, ma in altri casi è facile: un’azienda che fa profitti sfruttando investitori sprovveduti sta agendo in modo sbagliato; un’azienda che paga milioni di dollari amministratori che la mandano in bancarotta sta agendo in modo sbagliato; un’azienda che tiene nascoste informazioni sugli effetti dannosi che causa all’ambiente sta agendo in modo sbagliato; un’azienda che guarda dall’altra parte quando qualcuno ruba i dati dei suoi clienti sta agendo in modo sbagliato. Incoraggiare i manager a riflettere su come le loro azioni e le azioni della loro impresa influenzano altri è perfettamente coerente con lo scopo originario della corporation. Tenere a mente questo valore non risolverà tutte le questioni etiche che un’azienda si trova ad affrontare, ma molte sì.

Per altro verso, la cieca convinzione che il perseguimento del profitto andrà sempre a beneficio della società nel suo insieme è errata e pericolosa al tempo stesso. È errata perché, in tutti i campi, ci sono strategie redditizie che possono arrecare danno alla collettività: Facebook, per attirare gli inserzionisti, ha costruito la sua piattaforma in modo che per chi la usa sia difficile farne a meno, ma la società ne ha subito un danno, con la proliferazione di post falsi e divisivi; la Exxon, per aumentare i suoi profitti, ha fatto opera di lobbying contro le normative per contrastare i cambiamenti climatici, ma la società ne ha pagato il prezzo sotto forma di danni a lungo termine per l’ambiente; la Kohlberg Kravis & Roberts (kkr) ha scatenato un’ondata di acquisizioni con capitali di prestito che ha avuto un enorme successo, ma grazie soprattutto a operazioni di ingegneria finanziaria finalizzate a ridurre l’ammontare delle tasse versate all’erario e a piani di riduzione dei costi finalizzati a sforbiciare il numero dei dipendenti.

Glorificare la ricerca del profitto non è solo sbagliato: è anche pericoloso. È pericoloso perché spinge dirigenti di alto e medio livello a adottare un modo di pensare che privilegia i numeri rispetto alle idee. Focalizzarsi sul profitto a esclusione di tutto il resto rischia di non farci vedere il danno che stiamo procurando. Rischia di eliminare quello spazio mentale che altrimenti avremmo dedicato a interrogarci più in generale sul ruolo che dovrebbero svolgere le nostre aziende per migliorare la società. E conduce anche a un certo compiacimento: un conto è rallegrarsi che la propria azienda abbia realizzato degli utili l’anno precedente; un altro discorso è pensare che la cosa migliore che si possa fare per il mondo sia darsi da fare affinché la propria azienda realizzi tutti i profitti che è umanamente possibile realizzare.

Perseguire il profitto come un fine in sé, e non come un mezzo per qualcosa di più grande, è pura e semplice avidità. Eppure la visione del capitalismo così in voga oggi ha fatto di questo approccio una virtù. Ragionare in questo modo arreca un danno concreto al tessuto sociale, oltre che al progetto del capitalismo. I lavoratori che vedono i loro dirigenti incassare salari dieci, venti, cento volte superiori a quello che guadagnano loro sono naturalmente portati a ritenere che l’azienda abbia poca considerazione per quello che fanno. E se i lavoratori sono scoraggiati, l’azienda ne risente. E anche se non ne risente, l’alienazione e la divisione sono mali che vale la pena combattere. Al di là dell’interminabile dibattito odierno su quale dovrebbe essere lo scopo di una grande azienda, se sia opportuno che tenga conto anche di finalità sociali o se debba invece concentrarsi unicamente sulla massimizzazione del profitto, quando esaminiamo la corporation come fenomeno storico emerge un quadro chiaro della sua vera ragion d’essere, del suo autentico scopo fondativo, che è promuovere l’interesse più alto della nazione.

Le grandi aziende furono create per perseguire obiettivi nazionali, che includevano, certo, l’espansione dei commerci, ma anche l’esplorazione, la colonizzazione e obiettivi religiosi. Se aveste detto a un parlamentare dell’Inghilterra del Seicento che lo scopo di una corporation, come disse Milton Friedman nel 1970, era «fare più soldi possibile», sarebbe rimasto interdetto: tutti sapevano che le joint stock companies erano strettamente connesse all’interesse nazionale; c’era un motivo se il sovrano accordava loro la patente reale, e non era semplicemente arricchire qualche decina di mercanti di Philpot Lane.

Ma in qualche momento, fra Adam Smith e i nostri giorni, questo legame fra la grande azienda e il bene pubblico è diventato invisibile. Oggi, non soltanto non è evidente che le grandi aziende dovrebbero tenere in considerazione il bene comune, ma è addirittura giudicato discutibile. Nell’antica Roma, l’imperatore Augusto rimpiazzò il difettoso sistema di riscossione delle tasse in appalto che faceva perno sulle societates con una nuova tassazione amministrata a livello centrale; negli Stati Uniti di fine Ottocento, il Congresso approvò la legge Sherman per mettere un freno agli abusi dei monopoli ferroviari; con il New Deal, Franklin Delano Roosevelt promulgò leggi che proteggevano i lavoratori dalle conseguenze disumanizzanti della produzione in serie e della catena di montaggio. Questa dinamica – innovazione, sfruttamento, riforma – si è ripetuta più volte nella storia delle grandi aziende.

Quando guardiamo alla sua evoluzione nell’arco di centinaia di anni di storia, vediamo con chiarezza che l’infrastruttura del mondo delle imprese che abbiamo oggi poggia sullo scheletro di questi momenti storici di intuizione e catastrofe.
Oggi le grandi aziende hanno un potere immenso. Le loro decisioni condizionano la nostra vita in innumerevoli modi, da come trascorriamo le giornate alle cose a cui teniamo e che consideriamo preziose. Ma se non sono più vincolate dal loro principio guida, le grandi aziende hanno la capacità di produrre grandi danni. Ci vuole tempo prima che la legge si sviluppi, e intanto la società può pagare un caro prezzo. La mia speranza, per dirne una, è che si possa riscoprire la visione della grande azienda come motore per il bene comune.

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