Grandi imprese
Vaccino, un affare anche per la logistica
Sono in arrivo i vaccini per il coronavirus e quello della Pfizer, a giudicare dalla quantità di spazio riservatagli dall’informazione, sembra già in pole position. Un affare non solo per le case farmaceutiche, ma per uno dei settori più dinamici e aggressivi del capitalismo del terzo millennio: la logistica. Con quale impatto per i lavoratori del settore?
MARCO VERUGGIO, 16 novembre 2020
Nel 2020 l’alleanza tra americani e tedeschi di Pfizer-BioNTech prevede di produrre 50 milioni di dosi del suo ormai famoso vaccino contro il Covid-19, quello di cui la Pfizer pochi giorni fa ha annunciato urbi et orbi che avrebbe un’efficacia del 90%. Ma nel 2021 la produzione dovrebbe salire alla cifra astronomica di 1,3 miliardi di dosi, equivalente a 650 milioni di vaccinazioni, poiché a ogni persona ne dovranno essere somministrate due. Attualmente sono 10 i vaccini in fase finale di sperimentazione, di cui 4 cinesi e uno russo. La sfida industriale sottesa a quella sanitaria (e geopolitica) non consiste solo nella produzione del vaccino, ma anche nella sua distribuzione, tanto più che le caratteristiche del prodotto imporrano misure particolarmente attente per la sua conservazione durante il viaggio. In attesa dell’approvazione da parte della Food and Drugs Administration americana e degli altri enti certificatori nel mondo, tra cui l’europea EMA (che a questo punto, possiamo dire, appare scontata) Pfizer e BioNTech prevedono che ogni giorno 12 camion carichi di vaccino lasceranno l’impianto di produzione di Kalamazoo, nel Michigan, e 20 aerei partirano dagli USA diretti in tutto il mondo. Per quanto riguarda la distribuzione interna Pfizer ha deciso di avvalersi dei suoi tradizionali partner, i colossi della logistica DHL, FedEx e UPS, che dovrebbero garantirle di recapitare le dosi nei punti di somministrazione entro 1-2 giorni dalla produzione.
Il consorzio americano-tedesco pare orientato a distribuire il vaccino direttamente, dunque senza affidarsi a intermediari, a causa delle difficoltà tecniche legate alla conservazioni delle dosi, che per conservare le loro preziose proprietà dovranno rimanere ad almeno 80 gradi sotto zero, temperatura che può essere mantenuta soltanto attraverso l’utilizzo di ghiaccio secco. Dal punto di vista economico è una condizione che, secondo l’Advisory Committee on Immunization Practices americano, potrebbe costituire un limite per l’utilizzo di questo vaccino e secondo gli esperti potrebbe ridurne la competitività rispetto ai potenziali concorrenti, prima tra tutte l’altra grande azienda biotech americana Moderna, il cui vaccino avrebbe (anche qui il condizionale è d’obbligo) un’efficacia superiore a quello di Pfizer-BionTech, il 94%, e si conserverebbe a -20 gradi.
Secondo un portavoce di Pfizer la soluzione del problema consisterebbe nell’ “utilizzare i partner strategici di Pfizer per inviare le dosi per via aerea ai principali hub in ogni paese/regione e da lì effettuare il trasporto via terra verso i luoghi di confezionamento delle dosi”. I contenitori usati per il trasporto saranno dotati di dispositivi per il tracciamento GPS che permetteranno alla società di monitorare in tempo reale le spedizioni da una torre di controllo che verificherà che il vaccino non sia sottoposto a variazioni di temperatura in grado di danneggiarlo. I contenitori poi saranno riforniti di ghiaccio secco nei luoghi di confezionamento per mantenere il vaccino alla corretta temperatura durante lo stoccaggio. I tassi di deterioramento dei vaccini normalmente oscillano tra il 5% e il 20%.
In Italia dei 10 miliardi di dosi, pari a 220.000 pallet e 15 milioni di contenitori complessivi, secondo alcune stime dovrebbe arrivare un numero di vaccini pari alla popolazione, quindi circa 60 milioni, anche se si tratta di stime da prendere con le pinze. Tuttavia il nostro paese, vista la collocazione geografica, potrebbe giocare un ruolo più ampio. Come spiegava a fine ottobre Pierluigi Petrone, presidente di Assoram, Associazione Nazionale della Distribuzione Farma e Salute, “anche se verosimilmente il principio attivo alla base dei preparati sarà realizzato in gran parte all’estero, la Penisola ‘fungerà non solo da hub’ – cioè da centro di stoccaggio del preparato – ‘ma anche da bridge’– ovvero da ponte per la distribuzione anche in altri paesi vicini” (SupplyChainItaly301020). Il 22 ottobre Assoram ha scritto alla ministra dei trasporti Paola De Micheli, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e al direttore dell’Agenzia delle Dogane, chiedendo al governo di intervenire per favorire una “sinergia pubblico-privato” nella programmazione della distribuzione e ha lanciato Farma Talks, iniziativa centrata sulla pandemia come occasione per la digitalizzazione della filiera farmaceutica.
“Durante la prima ondata di emergenza sanitaria abbiamo assistito alla nascita delle cosidette “hastily-generated partnership” [collaborazioni generate alla svelta], forme di collaborazione tra istituzioni pubbliche e operatori di mercato per trovare risposte rapide alla pandemia dilagante. Questa seconda fase, per certi versi, presenta complessità maggiori”, ha scritto il Sole24Ore111120, ma la soluzione, secondo il quotidiano di Confindustria, potrebbe venire dai fondi europei, purché il Governo dedica di giovare un ruolo attivo per promuovere “più collaborazione pubblico-privato, non più in modo paternalistico ed estemporaneo, ma con un approccio strutturato e di medio-lungo termine. Si tratta di un disegno ambizioso, per cui potrebbero essere impiegate le risorse di Next Generation EU [il cosiddetto Recovery Fund]. Condizione essenziale è, però, una leadership politica che sappiamobilitare le migliori competenze, per trovare soluzioni e stimolare l’imprenditorialità privata, garantendo una riprea economica stabile e resiliente”. Insomma le imprese della filiera farmaceutica chiedono, legittimamente, al Governo una regia per evitare dinamiche di tipo “calabrese”, ma allo stesso tempo ragionano su come utilizzare la crisi sanitaria per creare un ambiente più favorevole ai propri interessi.
In tutto questo fervor di preparativi c’è un convitato di pietra, cioè i lavoratori della logistica, un settore sempre più strategico dell’attuale capitalismo fondato sulla digitalizzazione e su catene di fornitura globali capaci di movimentare rapidamente materie prime e prodotti. A proposito delle Big Three della logistica, a cui Pfizer intende affidare la distribuzione dei vaccini Joe Allen già cinque anni fa sottolineava che: “FedEx, UPS e DHL, tutte e tre queste imprese operano globalmente utilizzando una forza-lavoro sterminata che compete (e in qualche caso è superiore) alla dimensione dei principali eserciti permanenti del mondo. UPS, per esempio, nel mondo ha una forza-lavoro di 395.000 addetti, quasi la stessa dimensione dell’esercito americano, forte di 400.000 uomini. FedEx la segue, con una forza-lavoro globale di 300.000 e DHL di 275.000 uomini. Si tenga presente che l’insieme degli effettivi e delle riserve dell’esercito inglese è di 80.000 unità” (Jacobin021215).
In che modo la combinazione tra questa improvvisa accelerazione determinata dalla pandemia e i piani di riorganizzazione delle imprese inciderà sulle condizioni di lavoro? “E’ un tema interessante, che non abbiamo ancora affrontato, perché in questo momento come sindacato la nostra principale urgenza sono i focolai nei magazzini della logistica in tutta Italia, su cui abbiamo avuto da poco un incontro col Governo”, ci spiega Peppe D’Alesio, dirigente nazionale del Si Cobas, il sindacato che in questi anni ha portato le condizioni di lavoro di facchini sulle prime pagine dei giornali grazie ad alcune lotte ostinate ed efficaci. “Quello che posso pensare, conoscendo bene il settore, è che aldilà degli annunci di questi giorni non è scontato che i tempi siano realmente quelli annunciati e che nei primi di mesi dell’anno il vaccino sia disponibile nel nostro paese. Non escluderei che alla fine ci siano dei ritardi”. E per quanto riguarda l’impatto sui lavoratori “Se effettivamente verrà saltato il passaggio intermedio della distribuzione immagino che a essere coinvolto non sarà il personale a terra impiegato nei magazzini, ma gli autisti, che si troveranno a lavorare con la pressione di svolgere un ‘servizio essenziale’. L’altro aspetto, peraltro già presente da tempo, è che potrebbe esserci un massiccio impiego di lavoro a tempo determinato, in particolare, come stiamo già denunciando, attraverso il ricorso ad agenzie di lavoro interinale, per coprire i picchi di lavoro”. La sfida, insomma, oltre che essere sanitaria e industriale, potrebbe essere anche sindacale.
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