Grandi imprese

Sentenza ILVA, e ora? Intervista a F. Pirro

8 Giugno 2021

Intervista a Federico Pirro

Nei giorni scorsi una sentenza della Corte d’Assise di Taranto ha inflitto pene pesantissime a Nicola e Fabio Riva, dirigenti del gruppo ILVA e altri protagonisti della vicenda dell’acciaieria pugliese (tra i politici spicca la condanna a 3 anni e sei mesi di reclusione per l’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola). Accanto alle responsabilità penali per la devastazione ambientale e le sue conseguenze sanitarie in questa vicenda c’è però anche un altro aspetto di fondo da non dimenticare: le conseguenze della sentenza in termini industriali. Nei giorni scorsi il sito Formiche.net ha pubblicato alcune riflessioni di Federico Pirro (Formiche310521), docente di Storia dell’Industria all’Università di Bari, già editorialista Del Corriere del Mezzogiorno e membro del CdA di SVIMEZ, attualmente  nell’ufficio studi della Confindustria Bari e recentemente promotore del CESDIM, Centro Studi e Documentazione sull’Industria nel Mezzogiorno. Riflessioni che ci hanno colpito perché mettono in luce il carattere paradossale di una sentenza con cui lo Stato confisca a se stesso una proprietà pubblica, uno dei tanti paradossi di una vicenda complessivamente paradossale nel suo complesso. Siamo partiti da qui per poi allargare la prospettiva al futuro di Taranto (e degli altri stabilimenti ILVA), al ruolo della siderurgia in un paese come l’Italia e a una breve ricapitolazione di come si è arrivati all’attuale situazione.

Il suo intervento su Formiche evidenzia un paradosso: la magistratura, cioè il potere giudiziario dello Stato, confisca un bene che non solo è attualmente di proprietà dello Stato, ma di cui lo Stato è anche il gestore al 50% e pronto a salire al 60%. Le motivazioni della sentenza ci daranno più elementi di giudizio, ma, intanto, possiamo dire che la sentenza riflette un inedito scontro tra poteri e articolazioni nazionali e locali dello Stato? Senza voler attribuire intenzioni di alcun tipo ai giudici mi pare che in tutta la vicenda ILVA vediamo pezzi dello Stato che mettono in discussione la giurisdizione di altri pezzi dello Stato. Sembra anche a lei? E, se sì, perché?

Indubbiamente quanto accade da anni a Taranto configura un rapporto intensamente dialettico fra poteri dello Stato. Basti pensare a ciò che avvenne alla fine del 2012 – l’anno in cui dal 26 luglio era stata posta sotto sequestro senza facoltà d’uso l’area a caldo – che, invece, una legge approvata dal Parlamento convertendo un decreto del Governo Monti, restituì alla facoltà d’uso, classificando il Siderurgico come ‘sito di interesse strategico nazionale’. Una parte della Magistratura tarantina sollevò una motivata (dal suo punto di vista) eccezione di costituzionalità su quella disposizione normativa che la Consulta, però, ritenne rispondente alla necessità di un necessario bilanciamento fra il diritto alla salute e quello al lavoro.  Ma anche in circostanze successive vi sono stati momenti di attrito, anche all’interno della stessa Magistratura locale per la verità, fra richieste di PM o di GIP che – a seguito di incidenti in qualche caso purtroppo anche mortali – volevano fermare l’esercizio di un altoforno non ritenuto sufficientemente sicuro per chi vi è addetto, e interventi del Tribunale del riesame che, accogliendo i ricorsi dei gestori i quali li motivavano documentando gli investimenti compiuti per ridurre i fattori di rischio su quegli impianti, ne autorizzavano l’esercizio. Si potrebbero raccogliere interi volumi di ordinanze, sentenze e ricorsi con le relative motivazioni sull’uso dell’area a caldo che, lo voglio ricordare, ancora oggi è sotto sequestro con facoltà di esercizio e con i relativi custodi giudiziari. Perché è accaduto tutto questo? Perché sembrerebbe che da lungo tempo sia venuta maturando in alcuni settori – alcuni, non tutti, si badi bene – del Potere giudiziario penale e amministrativo tarantino e di Lecce la convinzione (in buona fede, s’intende) che non si debbano solo perseguire i presunti reati consumati nella gestione dell’area a caldo, ma che possa essere rimossa de jure la stessa causa strutturale dell’inquinamento e delle emissioni nocive, e cioè proprio l’area fusoria, il vero cuore della grande acciaieria, che è a ciclo integrale ed è tuttora, con i suoi 8.200 addetti diretti, non solo la più grande d’Italia e la seconda d’Europa, ma anche la maggiore fabbrica manifatturiera del Paese che, si badi bene, non si trova al Nord, bensì al Sud. E ai suoi 8.200 addetti diretti (con famiglie a carico) ne vanno aggiunti almeno altri 5.000 (anch’essi con famiglie) – ma è una stima molto prudenziale – nelle attività indotte di primo, secondo e terzo livello che vanno dalle manutenzioni ordinarie e straordinarie sugli impianti ai trasporti via mare, su gomma e su ferro di coils (1) e lamiere, sino ai servizi di ristorazione aziendale ora gestiti da una grande società del Nord. Non si dimentichi inoltre l’indotto bancario costituito dalle movimentazioni creditizie legate a saldi di fatture delle aziende di subfornitura e ai bonifici dei salari corrisposti ai dipendenti del Siderurgico: salari che non sono in nero, ma quelli contrattualmente definiti a livello nazionale e dal contratto integrativo fra Azienda e sindacati, e che poi vengono spesi nell’economia territoriale, generandovi effetti indotti moltiplicativi. Quando il Sindaco di Taranto afferma, come ha fatto nei giorni scorsi, che la città può anche fare a meno di quei posti di lavoro, mostra di non conoscere affatto, o almeno di sottovalutare, l’impatto socioeconomico dello stabilimento sull’economia del capoluogo e su quella provinciale, regionale e nazionale.

Un aspetto che passa un po’ in sordina è quello delle aree. Aldilà dei cittadini che chiedono, comprensibilmente, di chiudere l’acciaieria per ragioni sanitarie, negli anni passati sono venuti a galla progetti di vario genere, commerciali e persino militari, su Taranto e sulle aree portuali prospicienti l’area siderurgica. Poi ci sono settori d’impresa che puntano molto sull’idea di Taranto città turistica, in alternativa alla città industriale. Anche a Genova, nei momenti più delicati, si discusse molto sul valore commerciale delle aree portuali attrezzate in concessione all’ILVA, si parlò di creare  un distripark o addirittura una Disneyland italiana su quelle aree. Senza fare complottismi mi chiedo: se l’Italia sembra essere l’unico paese europeo in cui non si riesce a tenere standard ambientali dignitosi, a Taranto in particolare, è solo un problema di inefficienza? O ci sono anche interessi economici che pesano?

Rendere ecosostenibile il Siderurgico è possibile e necessario e al Ministero dello sviluppo economico e in quello della transizione ecologica si sta lavorando per conseguire questo obiettivo, con il supporto tecnico di società impiantistiche e competenze ingegneristiche di standing elevato, ma le risorse necessarie sono ingentissime e i tempi – lo vedremo fra breve  – non sarebbero brevi, anche se bisognerebbe partire subito con scelte precise e investimenti elevati, avviando una fase di transizione dall’attuale ad un nuovo assetto impiantistico, in una fabbrica in cui sono in corso gli interventi previsti dall’AIA, l’autorizzazione integrata ambientale, e che comunque, è bene saperlo, dovrebbe restare in esercizio, e nella quale, in ogni caso, vi è un urgente bisogno di manutenzioni qualificate su impianti ormai stressati da tempo. Se uscisse dal mercato per il tempo necessario alla riconversione, non sarebbe certo facile poi ritornarvi: la concorrenza infatti rimpiazzerebbe subito l’acciaio di Taranto, e per giunta con costi aggiuntivi per gli utilizzatori italiani. Già oggi, con tutte le pesanti incertezze derivanti da sentenze processuali, sia pure di primo grado, e dall’attesa di una pronuncia del Consiglio di Stato, vi sarebbe da chiedersi chi stia ancora ordinando coils e lamiere al Siderurgico tarantino. Circa poi l’uso dei suoli su cui insistono gli impianti dello stabilimento, se (malauguratamente almeno per me e per migliaia dei suoi addetti) venisse dismesso, intanto bisognerebbe bonificarli con lavori che si prolungherebbero per anni, con un impiego di risorse imponente che si dovrebbe comprendere bene da chi dovrebbero essere assicurate, secondo il principio del ‘chi inquina paga’. Sicuramente dallo Stato che dal 9 luglio del 1960 – posa della prima pietra della fabbrica – sino al 28 aprile del 1995, giorno di girata delle azioni dell’Ilva laminati piani al Gruppo Riva, ha posseduto il sito. E poi dalle attuali società già del Gruppo Riva, da quella stessa data e sino al momento in cui lo Stato, tramite l’Amministrazione straordinaria, è tornato a possedere e gestire la fabbrica che successivamente dal 1° novembre del 2018 è stata gestita da AmInvestco Italy, controllata da Arcelor Mittal.

Un altro aspetto di fondo mi pare siano i potenziali effetti di questa sentenza sulla pronuncia del Consiglio di Stato e sulle scelte di ArcelorMittal, che in una situazione di stallo potrebbe considerare lo Stato inadempiente rispetto agli impegni presi e ritirarsi senza penali. Qual è il suo giudizio?

Sì, la sentenza di primo grado del processo ‘Ambiente svenduto’ potrebbe incidere su quella del Consiglio di Stato che, com’è noto, è chiamato ad esprimersi sulla precedente del Tar di Lecce che – respingendo il ricorso di Arcelor contro un’ordinanza ‘urgente e contingibile’ del Sindaco di Taranto finalizzata alla chiusura dell’area a caldo, se non fossero state rimosse le cause dell’inquinamento – aveva disposto la dismissione della stessa area, costringendo così il gestore e l’attuale proprietario degli impianti, ovvero l’Amministrazione straordinaria, a ricorrere al Consiglio di Stato che, a sua volta, aveva accordato la sospensiva con motivazioni che in realtà, lette in filigrana, sembrerebbero anticipare per molti osservatori il rigetto della sentenza del Tar salentino. Perché? Perché lo spegnimento dell’area a caldo avrebbe comportato, e causerebbe, un danno strutturale e probabilmente irreversibile al ciclo integrale su cui è imperniato il Siderurgico. Senza area a caldo, non vi sarebbe convenienza alcuna (e per nessuno) a trasformare quella fabbrica in un semplice laminatoio, per cui sarebbe meglio chiuderla con gli intuibili effetti (devastanti) per l’occupazione e l’economia non solo di Taranto, ma dell’intero Mezzogiorno.  Vorrei peraltro riproporre ora la domanda che mi sono già posto in altra circostanza che è la seguente: se il Consiglio di Stato statuisse comunque la dismissione dell’area a caldo di un compendio impiantistico ancora di proprietà pubblica – e gestito per giunta da una società partecipata al 50% dei diritti di voto da Invitalia, pronta a salire al 60% anche prima del 2022 – decretandone così di fatto la chiusura, a quel punto non potrebbe intervenire ad opponendum contro quella sentenza (presso la Consulta ?) la Corte dei Conti perché, trattandosi appunto di un bene tuttora pubblico, si rischierebbe di infliggere un danno esiziale al valore del Gruppo ex Ilva – che include anche i siti di Genova e Novi Ligure – e la cui vendita peraltro servirebbe a ristorare sia pure molto parzialmente i creditori che si sono insinuati nello stato passivo dell’Amministrazione straordinaria ? E ove mai ciò accadesse, non saremmo veramente dinanzi ad un caso forse unico al mondo con diversi organi dello Stato in conflitto fra loro? E in tale aggrovigliata querelle, ovviamente Arcelor potrebbe tacciare di inadempienza lo Stato italiano e recedere dall’acquisto senza penali; ed oltretutto avrebbe anche il vantaggio di vedersi togliere dal mercato (da un’Autorità italiana) un temibile concorrente come lo stabilimento tarantino.

Una considerazione più generale. Nei giorni scorsi ho ascoltato autorevoli opinionisti, ad esempio il direttore del Domani Stefano Feltri, affermare che l’Italia non ha bisogno di produrre acciaio perché si può tranquillamente comprare sul mercato. Poi però leggiamo sui giornali che con la ripresa del mercato dell’acciaio non c’è più latta per i barattoli dei pelati e che i produttori paventano il rischio di veder marcire i pomodori. Pandemia, blocco di Suez e, di recente, anche la crisi dei microchip non dovrebbero averci insegnato che dipendere da altri paesi, in epoca di guerre commerciali, è un rischio?

Estremizzando il ragionamento del direttore del Domani Stefano Feltri, allora potremmo acquistare tutto il necessario al Paese e ai suoi cittadini sui mercati mondiali. Non solo acciaio, ma anche cibo, vestiario, e tanti altri beni strumentali e di consumo immediato e durevole a prezzi competitivi, e magari vivere solo di turismo, agricoltura, artigianato e pubblica amministrazione. Insomma l’Italia si autodeclasserebbe da grande potenza industriale mondiale (e seconda in Europa dopo la Germania) a Italietta tutta sole, pizza e mandolino. Estremizzo, è del tutto evidente, ma tornando all’acciaio il nostro Paese – che fra l’altro può vantare un’elettrosiderurgia privata fra le più avanzate tecnologicamente d’Europa – non può rinunciare a produrre (a costi competitivi, s’intende) l’acciaio a Taranto, di cui ha bisogno e quello che potrebbe anche esportare.

Nel suo intervento conclude invitando lo Stato a prendere risolutamente la strada della transizione tecnologica. Però sappiamo che la transizione tecnologica può percorrere varie strade e con esiti diversi sia in termini di occupazione, di costi e di qualità dell’acciaio e che ci sono diverse proposte sul tavolo, l’accordo con AM, il piano di Federmanager, qualcuno parlato di idrogeno. Qual è secondo lei la soluzione tecnologicamente migliore e più praticabile?

Dipende dalle risorse che si ritiene di poter mettere in campo con un business plan molto rigoroso. In ogni caso, una soluzione full electric ha bisogno di grandi quantità di preridotto di ferro da prodursi con un costo del gas molto contenuto, o da acquistarsi già confezionato sui mercati esteri sempre a costi sostenibili (2). Poi avrebbe necessità di rottame che oggi scarseggia anche per gli acciaieri italiani che lo pagano a prezzi più elevati dei loro concorrenti e che, pertanto, sarebbero disponibili ad entrare nella società a controllo pubblico che produrrebbe a Taranto il preridotto, una parte del quale sarebbe destinato ai privati. Dovendo poi mantenere in esercizio lo stabilimento per le ragioni commerciali ed occupazionali che ho evidenziato in precedenza, comunque nella fase di transizione gli Altiforni 1, 2 e 4 dovrebbero restare in esercizio, magari con impiego del gas, come si ipotizza al Ministero della transizione ecologica per il tempo necessario ad installare uno o due forni elettrici, e in attesa di produrre ed impiegare (ma in tempi non brevissimi) idrogeno ‘verde’, a costi sostenibili grazie al ricorso alle energie rinnovabili.  Resterebbe da stabilire se in un assetto ibrido dell’area fusoria debba essere riattivato e ammodernato o meno, con tecnologie e processi che ne riducano le emissioni, l’AFO5, che da solo può colare il 40% della ghisa del sito. L’Italia, è opportuno sottolinearlo, ha il know-how ingegneristico, le industrie produttrici di tecnologie siderurgiche all’avanguardia (gruppo Danieli) e le aziende impiantistiche in grado di montarle, per risolvere (una volta per sempre) le complesse questioni dello stabilimento di Taranto. Certo, l’introduzione dei forni elettrici ridurrebbe l’occupazione diretta e indotta, i Sindacati lo sanno bene e per questo (giustamente) chiederanno con forza garanzie precise per la rioccupazione delle unità lavorative che fossero escluse dal ritorno nella fabbrica innovata. Si consideri peraltro che nel sito di Taranto fra la metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo si verificò un turn over occupazionale di grandi proporzioni per il prepensionamento di migliaia di lavoratori, agevolati dagli ‘scivoli contributivi’ per l’esposizione all’amianto, e per l’ingresso in fabbrica fra il 1996 e il 2003 di quasi 12mila persone, 10.480 delle quali fra il 1998 e il 2003, rappresentate da giovani operai che oggi, per quelli che vi sono ancora occupati,  hanno in media fra i 40 e i 45 anni, e pertanto sono ancora troppo giovani per essere prepensionati. Ricordiamo inoltre che in carico all’Amministrazione straordinaria vi sono ancora circa 1.600 dipendenti ex Ilva che vivono di cassa integrazione straordinaria e di un’integrazione dello Stato al modesto reddito (di pura sopravvivenza) assicurato loro dalla stessa cassa. Allora a Taranto, ma anche nella sua provincia e nella Puglia meridionale – considerando che la grande maggioranza degli occupati nel Siderurgico viene da altri centri diversi dal capoluogo – bisognerà comunque lavorare per un grande piano di reindustrializzazione, le cui linee guida peraltro sono state indicate nel piano di sviluppo strategico della ZES, la Zona economica speciale ionica, di cui il porto tarantino è parte integrante e trainante. Ma quel piano, validato poi dai Ministeri competenti in sede di istituzione della ZES, a livello comunale e provinciale (forse) non lo conoscono. Lo dico con cognizione di causa perché, avendo contribuito a redigerlo su incarico della Regione fra l’autunno del 2017 e la tarda primavera del 2018, non mi è stata mai concessa l’occasione di discuterlo pubblicamente o riservatamente con le Autorità locali.

C’è qualche altro aspetto che le sta a cuore evidenziare?

Mi si consenta al termine di questa intervista, per la quale ringrazio la testata, di ricordare sia pure brevemente la storia della siderurgia a Taranto. Nel corso degli anni Cinquanta del secolo scorso il capoluogo conobbe il pesante declino della sua industria navalmeccanica, con perdite occupazionali ‘emorragiche’ all’Arsenale e ai cantieri della Franco Tosi. E quando a livello governativo si prospettò la necessità di realizzare in Italia un IV Centro siderurgico sul mare dopo quelli di Cornigliano, Piombino e Bagnoli, la popolazione, i Sindacati, le Istituzioni territoriali e tutte le forze politiche locali – peraltro duramente contrapposte come a livello nazionale negli anni della guerra fredda – si batterono anche con grandi cortei e manifestazioni popolari perché venisse scelta Taranto per l’insediamento. E dopo la decisione del Governo, l’allora Sindaco dichiarò che lo avrebbe fatto ubicare anche a Piazza della Vittoria, la più grande del capoluogo, perché in quegli anni la città ‘aveva fame’ (testuale). I parchi minerali inoltre non dovevano essere collocati vicini al quartiere Tamburi – già esistente, anche se di minori dimensioni rispetto a quelle odierne e poi investito dalle polveri di quei parchi nei giorni di vento – ma sul lato mare, ma vi furono pressioni di varia natura perché ciò non avvenisse. Lo stabilimento, nella prima fase, parti con i due tubifici e poi con due altiforni l’AFO1 e il 2; poi venne ampliato fra il ‘68 e il ‘70 con un terzo altoforno, e quindi ‘raddoppiato’ nella sua Pmp-produzione massima possibile con altri due altiforni, uno dei quali l’AFO5, tuttora fra i maggiori del mondo per capacità di colata. Ma doveva proprio essere ‘ampliato’ e ‘raddoppiato’ questo impianto? Il dibattito anche storiografico sulle scelte che allora furono compiute a livello governativo, aziendale e locale, è tuttora aperto, anche se bisognerebbe, a mio parere, valutare le vicende di quegli anni con le categorie interpretative anche tecniche dell’epoca. Certo, allora le questioni ambientali e sanitarie non erano così avvertite come lo sono (giustamente) oggi. E bisognerebbe anche interrogarsi su chi poi alla guida dell’Amministrazione comunale abbia continuato a rilasciare per anni ulteriori licenze di costruzione nel quartiere Tamburi, portandolo ai 17mila abitanti di questi ultimi anni. E poi, ancora, a mio sommesso avviso, bisognerebbe interrogare anche i livelli scientifici nazionali più elevati (Ispra, Istituto superiore di sanità, Consiglio superiore di sanità, Cnr, Ordini professionali dei medici, per quanto di rispettiva competenza) sulle pur accurate perizie sui danni ambientali e sanitari generati dalle emissioni del Siderurgico in base alle quali, sostanzialmente, sono state comminate le condanne nel processo di primo grado ‘Ambiente svenduto’. Perché lo affermo? Solo per ricordare che durante il dibattimento i periti della famiglia Riva (prof.ri Francesco Violante e Marco Novelli) hanno controbattuto con ricchezza di documentazione scientifica quanto contenuto nelle perizie alla base dell’accusa, elaborate a suo tempo nell’ambito dell’incidente probatorio dai prof.ri Biggeri, Forastiere e Triassi. Ora, ferma restando la necessità di leggere il dispositivo delle sentenze, non sembrerebbe secondo il collegio difensivo dei maggiori imputati che le controdeduzioni dei loro periti siano state tenute in debita considerazione. Ma ci si chiede allora, da parte degli osservatori più attenti se non debbano esservi alla base di questi processi, con le perizie d’accusa e di difesa, le valutazioni – assolutamente dirimenti al di là di ogni ragionevole dubbio – di organismi scientifici nazionali ma terzi, come appunto Ispra, Istituto superiore di sanità, Consiglio superiore di sanità, Cnr, idonee per giudizi processuali che portino sine ira et studio all’accertamento delle presunte responsabilità di coloro che sono stati imputati nei processi. Certo, rimangono le vittime che sarebbero state colpite (senza ombra di dubbio per i loro familiari) dagli effetti infausti delle emissioni nocive, e dinanzi ad esse deve inchinarsi il silenzio commosso e dolente di tutti noi. Ma proprio per questo, ritengo che si dovrebbe fare chiarezza sino in fondo scientificamente – oltre che nelle aule giudiziarie – anche nelle sedi di organismi preposti alla tutela della salute e dell’ambiente su cause e concause alla base di specifiche patologie e sui danni inflitti agli ecosistemi. Ma questo probabilmente spiega perché – a fronte di richieste ormai pressanti di associazioni ambientaliste di introdurre valutazioni sanitarie preventive sui rischi derivanti dalle emissioni di determinati processi produttivi – valutazioni necessarie ai fini del rilascio delle relative autorizzazioni – non si sia riusciti sinora a livello di Governo e in Parlamento ad introdurre norme stringenti al riguardo, proprio perché mancano tuttora i parametri oggettivi e universalmente condivisi, per stabilire con certezza incontrovertibile le cause di determinate patologie derivanti da esposizione ad emissioni nocive, e per definire di conseguenza i vincoli da imporsi negli impianti e nei processi di specifiche produzioni industriali onde prevenire, o almeno contenere in limiti fisicamente tollerabili, i danni che derivano alla salute dei cittadini esposti a quelle particolari emissioni.

Ma sarebbe un grave errore, secondo me, considerare la storia della siderurgia a Taranto solo come una sorta di ‘storia criminale’, della quale chiamare a rispondere – quasi fosse un processo di Norimberga al ‘regime nefasto dell’acciaio’ – molti di coloro che hanno posseduto e guidato lo stabilimento. Naturalmente, eventuali responsabilità penali andranno accertate con rigore – sperabilmente ‘senza ogni ragionevole dubbio’ – sino al terzo grado di giudizio; ma non si dimentichi mai, neppure per un istante, che ben tre generazioni di operai, tecnici, quadri e dirigenti si sono formate culturalmente e sindacalmente in quello che è stato, e dovrà continuare a restare, un presidio produttivo e di democrazia al servizio di Taranto, della Puglia, del Mezzogiorno e dell’Italia. E’ in gioco il futuro di una sezione strategica dell’industria italiana, e con esso la memoria collettiva, il presente e soprattutto la dignità e le prospettive future di vita e di lavoro del maggior nucleo di classe operaia esistente nel nostro Paese.

(1) I coils sono bobine di acciaio, che è la forma in cui più comunemente viene trasportato l’acciaio piano per poi essere lavorato.
(2) L’acciaio si produce fondendo il minerale di ferro utilizzando come combustibile il carbon coke (è la tecnica più inquinante) oppure alimentando altoforni o forni elettrici con rottami di ferro o preridotto, un materiale ottenuto trattando preventivamente il minerale di ferro con un processo di riduzione tramite idrogeno e monossido di carbonio e costituito prevalentemente da ferro metallico, con una piccola quota di ossido di ferro e di inerti.

Copertina: A. Vaccaro, Skyline ILVA plant, Taranto (Flickr.com, licenza creative commons)

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