Grandi imprese
Salamon: “La diversità e l’inclusione in azienda, allargano il cuore e la testa”
È da tanto che volevo incontrarla e grazie a un amico in comune sono riuscito a fare questa intervista, una delle più interessanti e ricche di spunti per un imprenditore come me e credo anche per molti altri. Attenzione alla diversità, all’inclusione e in generale alla sostenibilità, perchè solo così, secondo Marina Salamon, le aziende potranno proiettarsi nel futuro e uscire dalla crisi. Marina lavora da quando ha 15 anni, non perché ne avesse bisogno, ma perché le piaceva lavorare, ha 5 figli e 9 aziende e il suo motto è “the best is yet to be!”, un’ottimista di natura, ma con i piedi ben ancorati a terra.
La sua carriera da imprenditrice inizia quando era molto giovane, fonda Altana a soli 23 anni e ancora oggi ne è Presidente. Si ricorda cosa ha significato per lei, in quegli anni, iniziare quell’avventura, quali erano le sue emozioni?
Ho sempre amato lavorare e ho cominciato a farlo da studentessa liceale, a volte per riuscire ad avere alcuni lavori ho anche mentito sull’età. La prima cosa che ho imparato è stata andare oltre gli schemi della borghesia. A 15 anni lavoravo da COIN, sotto Natale facevo i pacchetti regalo e i miei compagni che passavano di lì rimanevano stupiti, “non sapevamo che avessi bisogno di lavorare, considerata la famiglia dalla quale provieni”. Io cercavo di spiegare loro che la mia era una scelta, dalla quale apprendevo tanto quanto studiare. Con quelle prime esperienze lavorative ho iniziato a tenermi un diario dei risparmi, diviso per entrate e uscite e ho continuato anche all’Università. Quelli sono stati gli anni, nei quali i miei due sogni sono andati in frantumi, ma sono cresciuta tantissimo. Volevo fare la giornalista, ma a Venezia c’era un solo quotidiano locale che mi ha detto no, nonostante avessi portato un progetto imprenditoriale ed ero disposta anche a lavorare gratis. L’altro sogno non raggiunto era quello di rimanere in Università a fare ricerca, ma non si guadagnava abbastanza e io volevo assolutamente essere indipendente economicamente. Dopo questi due porte in faccia, sono arrivata a fondare Altana, che ancora mi mancavano un paio di esami all’Università, ma avevo tantissimo entusiasmo. Uno scantinato a Bassano Del Grappa, con un sacco a pelo e un bloc-notes per gli ordini. Appena potevo lasciare Venezia, andavo lì e lavoravo. Tutto molto primordiale, però autentico. Per me “fare impresa” è stata la scoperta di un mondo che mi ha subito appassionato.
Da quel momento è stata una continua escalation. Ha fondato una holding Alchimia, ha rilevato aziende in perdita e le ha fatte rinascere, pensiamo a Replay; la straordinaria avventura con Doxa, fino a diventarne Presidente, Save the Duck e la più recente esperienza con Connexia. Dove trova tutta l’energia e la concentrazione per riuscire a dare sempre il 100% a tutte le sue attività?
Un’escalation nel piccolo, con tanti errori commessi. Una volta era più consentito sbagliare. Io arrivavo a Roma con il treno, con le borse piene di campioni da vendere e con i soldi che ricavavo, comperavo nuovi rotoli di tessuto da mandare ai laboratori di cucito. Un giovane oggi, che volesse intraprendere la mia stessa strada di allora, dovrebbe affrontare iter totalmente diversi. La finanza oggi ha un valore molto più forte, è diventata una necessità. La soglia di competenze iniziali si è innalzata. Io avevo studiato Storia all’Università quando ho intrapreso la strada da imprenditrice, di finanza non sapevo nulla e anche di produzione conoscevo poco. Fatta questa premessa, la prima cosa che ho imparato per poter essere sempre sul pezzo è stata delegare. Mi ricordo ancora il primo appendiabiti scelto per Altana, appena l’ho visto ho pensato fosse orrendo, ma poi mi sono detta che se avessi passato il tempo a scegliere gli appendiabiti non sarei mai volata oltre. Quindi la prima cosa che mi sono imposta è stata quella di uscire mentalmente dalla condizione di artigiana. In seguito molte scelte sono avvenute per incontri professionali o umani molto forti. Per esempio Doxa era l’azienda guidata da mio padre, che però ne possedeva solo una minoranza e io l’ho comprata per amore nei suoi confronti, perchè volevo che lui, uomo integro, conservasse il suo spazio nell’azienda, alla quale aveva dato tanto. Per Connexia, per esempio, ho creduto in primis nel mio socio e co-fondatore, Paolo D’Ammassa, persona stupenda e nelle prospettive del mondo digitale, era il 2009 e avevo già imparato a non interferire troppo. L’altro punto chiave, alla base di tutto, è stato studiare, appassionatamente, di notte, tutti i settori che non conoscevo e questo mi ha cambiato la testa. Per la mia generazione, mettersi a studiare marketing digitale è risolutivo. Per esempio il digitale e la vendita online hanno fatto la differenza per il successo di Altana. Purtroppo però non è una prospettiva ancora condivisa da tutte le aziende.
Ma quindi “la delega presuppone il controllo” oppure no?
Cerco di usare una metafora, la battuta che faccio spesso è che bisogna imparare a non camminare ad altezza tacchino, perchè il tacchino non vola in alto. Ma non bisogna nemmeno stare alti come l’aquila. I falchi invece fanno delle picchiate per prendere da mangiare e risalgono. Quindi volare abbastanza alti per avere la visuale su un territorio ampio, ma essere in grado di scendere e risalire, ovvero aver maturato competenze adeguate in un settore, per poter lasciare ad altri la gestione, ma intervenendo sui punti strategici. Dove ho commesso errori, e ne ho commessi tanti, è stato dove non ero in grado di scegliere le persone giuste o di cambiarle, perchè non avevo le competenze giuste in quel settore. Ho commesso a volte l’arroganza di investire in troppi settori diversi, alcuni dei quali non conoscevo in profondità.
Oltre alla Marina imprenditrice, c’è anche la Marina “attivista” e impegnata nel sociale, altro capitolo importante della sua vita, quanto questi due aspetti si intersecano e quanto è importante oggi per un’azienda fare propri i principi della responsabilità etica?
Questi due aspetti si sono sempre intrecciati. Ho iniziato a fare la volontaria del WWF quando ero una ragazzina e non ho mai smesso, fino a diventare Consigliere Nazionale con nomina Internazionale, carica che ho mantenuto per circa 12 anni. Da lì ho operato in altri settori, in parte sempre nel mondo natura e animali e poi nell’ambito donne e bambini. In alcune fasi ho fatto fatica, perché la modalità di pensiero dell’imprenditore non coincide spesso con la mentalità del no-profit, soprattutto per me che sono una decisionista. Ma il sociale mi ha insegnato tantissimo e continua a farlo oggi, forse perché anch’io sono diventata più brava ad ascoltare. Altana è diventata una Società Benefit e questo ha comportato un cambio di statuto e una destinazione precisa della quota massima che si può donare, inserendola nel bilancio. Da un lato questo è l’aspetto che mi fa crescere adesso, anche nel rapporto con i colleghi e i collaboratori. Dall’altro sono convinta che le persone sceglieranno le aziende nelle quali lavorare, se ne avranno la possibilità, non solo in baso allo stipendio, ma anche in base ai valori espressi. Se sei un imprenditore pulito, coerente, che testimoni un percorso sostenibile attirerai persone brave. Questo vale sicuramente per le aziende grandi, ma a ricaduta lo sarà anche per le piccole. Le aziende che non capiscono questo passaggio appartengono a un’epoca storica superata, perché il mondo sta andando in un’altra direzione.
Di cosa hanno più bisogno oggi le aziende: di manager qualificati o imprenditori illuminati?
Le due cose si accompagnano. L’imprenditore illuminato vuole circondarsi di persone più brave di sé, non ne ha paura, non la considera una diminuzione del proprio ruolo. Cresce imparando a fare l’azionista o il Presidente, che è un ruolo diverso dall’Amministratore Delegato. Se fa le due cose insieme o l’azienda è molto piccola o non è in grado di crescere. L’uno non può andare avanti senza l’altro.
Inclusione e diversità saranno le leve che le aziende dovranno integrare nella propria strategia per uscire dalla crisi e dal post Covid. Cosa ne pensa?
Quando parlo di diversità e inclusione mi riferisco alle donne e ai giovani, perché la fiducia che si dà a una donna deve essere la stessa che si dà a un 27enne, bisogna capire che a 70 anni si deve mollare il colpo e non rimanere a controllare l’azienda fino a 80 anni. La sostenibilità è un altro punto che cammina affianco a tutto questo. Faccio un esempio concreto, da noi in Altana è arrivata una giovane donna, rifugiata politica, dall’Iran, dove era stata incarcerata, perché aveva protestato per i diritti delle donne. È l’unica volta in cui ho fatto una raccomandazione poco democratica e ho detto “assumiamola”. Aveva una laurea, una master e, anche se non parlava ancora bene l’italiano, ho scelto di darle fiducia. A distanza di 9 mesi, Nassim sta facendo un nuovo Master serale, ha fatto il mutuo sulla casa, grazie alle garanzie che noi abbiamo dato, la sua vita è cambiata e lei ha dato valore e spessore a tutto il suo settore. La diversità e l’inclusione fanno bene alle aziende, allargano il cuore e la testa. Siamo un Paese che accoglie, ma che non valorizza, abbiamo invece bisogno di giovani da formare, altrimenti il Paese invecchierà, i giovani espatrieranno e, senza una nuova base di consumatori, il mercato crollerà.
In tutta la sua carriera è mai stata ostacolata in quanto donna?
Non mi sono posta il problema, il mio privilegio è avere una mamma molto forte, una pediatra, primario, una di quelle che se incontra un ostacolo lo abbatte e mi ha insegnato a fare lo stesso, a non avere paura. Mia madre ha sempre lavorato tantissimo, pur avendo 5 figli. Come? Semplificando i problemi. Se la chiamavano di notte per un’urgenza e mio padre era via per lavoro, lei ci diceva “guardatevi l’uno l’altro, io devo andare in ospedale”. Quando cresci così le differenze non le vedi. Devo però anche ammettere che non sono mai stata una dipendente. Quello che, fin dall’inizio, mi sono imposta di fare, è stato costruire una realtà dove le donne avessero pari possibilità, ovviamente a parità di merito. Rispetto anche alla maternità ho sempre cercato di trovare una strada comune con le persone che lavorano con me. Così come io ho sempre lavorato anche a distanza, portandomi il computer alle partite di rugby dei miei figli, ho condiviso lo stesso principio anche con le altre donne, dando la possibilità di organizzarsi e permettere loro di conciliare il lavoro con la vita familiare. In questo Milano, le aziende di Milano e la loro apertura al mondo del digitale, mi hanno insegnato a riorganizzare il lavoro anche nelle aziende industriali.
Lei ha 4 figli biologici più due affidi, come è riuscita a conciliare tutto?
Non sempre fila tutto liscio, dei miei due affidi uno è andato a finire male. I miei figli quando leggono le interviste mi fanno spesso la battuta “non è vero che hai conciliato, ma puoi sempre migliorare”, infatti ho imparato a fare le torte a 60 anni. Sicuramente ci ho messo e continuo a metterci amore, nella mia imperfezione e cerco di non colpevolizzarmi troppo per i miei limiti e per quello che non ho fatto.
Non si è fatta mancare nemmeno l’esperienza politica in un campo oserei dire liberale, vuole parlarci della sua esperienza e come vede la politica oggi?
Due esperienze, una con la giunta di Venezia a fianco di Massimo Cacciari e in parallelo l’esperienza con Alleanza Democratica, inizio anni ’90, quando si credeva di poter cambiare l’Italia. Esperienze bellissime che però mi hanno fatto capire che non sono adatta a prestarmi alle dinamiche del consenso. Non ero adatta allora, quando mi mettevo fuori dal Comune di Venezia e aspettavo i dipendenti pubblici che timbravano l’entrata e poi uscivano subito dopo per andare al mercato, ovviamente mi odiavano e hanno chiesto le mie dimissioni dopo un anno e mezzo. Il mio occhio mi portava ad evidenziare le differenze fra il mondo del pubblico e il mondo delle aziende. C’è moltissimo da fare, quindi auspico che persone come me, all’epoca troppo giovane e idealista, possano “da grandi”, a un certo punto del loro percorso e della loro carriera, dedicarsi al bene della Cosa Pubblica, intesa come servizio civile. Oggi sarei meno dura, ma lavorerei per obiettivi. Se Milano funziona meglio di Roma è grazie a chi ha guidato la macchina pubblica, non solo l’ultimo sindaco, e questo cambia le prospettive di una città, fatta da persone che si impegnano. Lo spettacolo che i politici ci hanno dato con l’elezione del Presidente, testimonia l’urgenza che i migliori non dedichino le loro energie solo alla propria azienda, come per esempio ha fatto Gori a Bergamo. La politica non è solo fare il deputato, ma è fare l’assessore o il consigliere in un paesino. Con mio marito da anni facciamo volontariato alla Caritas e non hai idea di quanto il tempo investito lì, a sistemare il magazzino o a consegnare le spese, mi aiuta a trovare nuove idee imprenditoriali applicate al bene.
Cosa direbbe oggi alla Marina che ha iniziato 30 anni fa? e cosa invece direbbe a una giovane donna che inizia oggi a lavorare?
Ad entrambe direi “avanti, perché ce la farai, non avere paura di non riuscire a fare tutto, non inseguire solo la carriera, trova la strada per mettere insieme la componente umana e affettiva con il lavoro”. Da credente in Dio il messaggio che vorrei trasmettere è “fìdati di un destino buono, anche quando incontrerai le sconfitte o qualcosa andrà storto, il bene ha l’ultima parola”.
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