Grandi imprese
Presidente Conte, piccolo è brutto, molto brutto. Per una politica industriale
Nel corso dell’ultima conferenza stampa del Presidente Conte in occasione della presentazione del decreto Rilancio, ho sentito le parole che per anni i politici italiani hanno usato per giustificare (e blandire) la classe imprenditoriale italiana sempre restia a considerare aggregazioni e aperture del capitale delle proprie aziende: “Piccolo è bello”.
Manfred Weber, uno dei possibili successori della Merkel e capogruppo del PPE a Strasburgo risponde a una domanda sul futuro dell’Europa dicendo “Merkel difende gli interessi della Germania, che è compito di ogni cancelliere tedesco. Ma allo stesso tempo è sempre pronta a compiere i passi necessari verso un’Europa più forte ed unita, tanto più necessaria di fronte alla Cina e… all’America di Trump”.
Quindi la Germania si considera troppo piccola per competere con Cina ed USA e noi ci diciamo ancora che “Piccolo è bello”? La differenza è quanto meno curiosa…
Censimento Istat per il 2019 (pubblicato da Affari e Finanza, 8/2/2020): il 79% del totale delle imprese italiane sono microimprese con 3-9 addetti in organico, il 18.2% sono di piccole dimensioni 10-49 addetti) e solo il 2.3% hanno più di 50 addetti. Queste sono le imprese con cui, secondo l’imprenditoria italiana (e il Presidente Conte) dovremmo competere con Usa, Cina e con la “piccola” Germania.
In un mondo che, Covid o non Covid, continuerà a essere economicamente globale, spero in qualche segnale di una disponibilità a un profilo più moderno di sistema industriale e di governance nelle numerose interviste ai “grandi” industriali italiani in merito alla “ripartenza” che vengono pubblicate quasi quotidianamente; leggo l’intervista concessa dal Tronchetti Provera ad Affari e Finanza (16 Maggio) dove, alla domanda se ”condivide questa operazione [il fondo di supporto da 50 Miliardi al capitale delle aziende da parte di Cassa Depositi e Prestiti], risponde: “Sì, se il denaro immesso dalla mano pubblica nel capitale delle aziende viene considerato alla stregua di qualsiasi investimento in capitale di rischio, senza interferenze dello Stato, nella gestione delle aziende”.
Quali sono dunque le posizioni su cui il paese imposta la propria ripartenza? Intanto il nostro debito pubblico è previsto arrivare al 160% del PIL, mentre quello della Germania, salire al 75-80% del PIL (cito Tronchetti Provera).
Ebbene la visione del Governo è quella che CDP, braccio finanziario dello stato (non a caso azionista diretto in aziende quali Eni, Enel, etc.), debba entrare nel capitale ma senza alcuna interferenza gestionale. Uno dei principali esponenti dell’imprenditoria italiana sostiene che nessuno deve mettere in dubbio l’azione di una imprenditoria “illuminata” che negli anni in cui la globalizzazione andava di moda, ha privilegiato le microaziende (per lo più sottopatrimonializzate) e che ora, travolte dalla crisi, chiedono che il ristoro delle perdite avvenga con i soldi (presi in prestito) dei contribuenti che però non debbono immischiarsi nella gestione che resta a chi i propri soldi non li vuole investire.
Proviamo invece a pensare per un attimo ad un modello un po’ diverso.
Immaginiamo in qualche ministero (MEF, MISE, altro?) si proceda a classificare le attività produttive e di servizi italiane in tre grandi gruppi (gli inglesi li chiamerebbero cluster):
– Cluster 1: le aziende strategiche per il futuro del paese (attenzione però, strategiche non per guadagnare voti, che è uno scopo molto diverso) e che possano appoggiarsi a un reale o comunque raggiungibile vantaggio competitivo. Prendo il rischio di fare alcune ipotesi certamente non esaustive: turismo/cultura, moda e design, enogastronomia, meccanica, aerospazio e difesa, farmaceutica… (ce ne sono sicuramente altre).
– Cluster 2: aziende che possono essere competitive sia dimensionalmente che per la loro qualità e/o quota di mercato ma che non sono necessariamente dei must per il futuro del paese. Ancora una volta a costo di grossolane imprecisioni cito: assicurazioni, filiera dell’auto, costruzioni e ingegneria, servizi di pagamenti elettronici…
– Cluster 3: tutte le altre aziende.
Immaginiamo poi che il governo dica: le risorse sono scarse e quindi dobbiamo fare delle scelte. Una prima e prioritaria necessità è quella di mettere a disposizione del paese le risorse necessarie a mantenere in futuro l’Italia in condizioni di vivere in modo socialmente pacifico, equo e accettabile. Ciò significa sostenere la popolazione che senza un supporto – che si chiami cassa integrazione o reddito, temporaneo, di emergenza (per carità non quello di cittadinanza!) – non riesce ad arrivare a soddisfare i propri bisogni primari; garantire un adeguato investimento in scuola e ricerca; permettere gli investimenti necessari nelle infrastrutture e, non da ultimo, in un servizio sanitario che però non può e non deve essere dimensionato e tarato sulle emergenze ma su situazioni “normali” in cui tutti possano avere accesso a cure di qualità ottima.
Per quasi tutti questi investimenti “sociali” sono peraltro già disponibili: i fondi del MES per il servizio sanitario, i fondi europei per le infrastrutture, quelli del SURE per la cassa integrazione. Il gap finanziario potrebbe dunque non essere abnorme. Le risorse che restano, comprese quelle che speriamo vengano messe a disposizione dal Recovery Fund, vengono destinate all’industria (intesa in senso lato come attività “produttive”).
Le priorità vengono però dettate da alcuni parametri – ahimè poco “elettorali” ma utili e a rendere il paese competitivo e sostenibile – : i soldi sono disponibili solo se gli azionisti esistenti, oltre a garantire il rispetto di alcune delle regole già previste (in primis la non distribuzione dei dividendi), presentano un piano industriale sostenibile (che spesso può presupporre anche dei licenziamenti al fine di garantire la sostenibilità delle imprese) e, soprattutto, coinvestano denaro contante. In questo caso le risorse finanziarie (tendenzialmente di equity o comunque con pieni poteri di governance) sono rese disponibili dallo Stato con moltiplicatori decrescenti a seconda del cluster di appartenenza: ad esempio 3x nel cluster strategico, 2x nel cluster intermedio, 1x nel terzo cluster.
Allo Stato resta poi anche un’altra opzione – che molti definiranno vessatoria – e applicabile almeno, ma non esclusivamente, alle aziende del cluster 1: una sorta di golden power al contrario, ovvero l’opzione di poter entrare comunque nel capitale, diluendo i soci restii a mettere soldi propri e con il diritto di offrire la quota di investimento non sottoscritta dagli azionisti, a fondi privati interessati (mobilitando così l’ingente massa di liquidità oggi in cerca di opportunità – PIR, Private equity, etc.).
Lo Stato deve però poter difendere il proprio investimento prendendo posizioni di comando, non attraverso posti in CdA elargiti a qualche politico trombato, con l’inserimento di manager/consiglieri di provata esperienza e competenza settoriale – ricordate la commissione del ministro Calenda per la scelta dei commissari straordinari che comprendeva una società specializzata nella ricerca di top manager?
Mi rendo conto che tradurre tutto ciò in fatti sia molto difficile – come sempre il diavolo sta nei dettagli – ma mi chiedo se quello immaginato non sarebbe un paese migliore, con una politica industriale un po’ più chiara e definita, che possa forzare le ormai necessarie aggregazioni, rendere più professionale il panorama economico e industriale e forse anche capace di farci guadagnare credibilità nei confronti dei partner europei.
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