Grandi imprese

Il futuro dell’auto e il piccolo mondo antico della Fiat

1 Dicembre 2015

Due volte la settimana un treno merci delle ferrovie tedesche parte da Lipsia (uno dei maggiori centri della logistica industriale tedesca) direzione Cina. Dopo due settimane di viaggio, che includono il cambio di vagoni per i differenti scartamenti (nonché una scorta armata in alcune zone dell´Asia centrale), il convoglio arriva in Cina dove viene scaricato. Il contenuto? Componenti meccanici, che devono approvvigionare le fabbriche BMW dislocate in Asia. Domanda: ma perché non c´è un convoglio di Trenitalia che faccia lo stesso percorso per le fabbriche dell´Alfa Romeo dislocate in Cina? Del resto, se ai cinesi (ricchi) piacciono le BMW, perché non dovrebbero comprare le “Alfa”? Ciò non succede perché l´organizzazione di un simile viaggio richiede un capitale politico – prima ancora che economico – non alla portata della logistica italiana? O forse perché il gruppo Fiat non ha fabbriche in Cina? Dal che deriva la domanda delle domande: perché il gruppo Fiat (senza Chrysler) vende volumi insignificanti in Cina?

Potrà sembrare un po´ strano che per capire il futuro della Fiat occorra partire dalla Cina. Ma questo appare un po´mano bizzarro dopo lo spartiacque del 2008, che è stato anno di svolta sia per la Fiat sia per le economie occidentali. E proprio quello straordinario decennio che va dal 2000 a oggi è stato il centro di una vivace produzione di volumi (vedi sotto), che hanno affrontato il presente e il futuro del gruppo e – in senso lato – dell´industria italiana.

Al di là del valore diseguale dei volumi, in ultima analisi, due sono i punti focali.

In primis, si trattava di spiegare com´era possibile che la piccola e mal ridotta Fiat nel giro di pochi anni fosse diventata da terreno di conquista per General Motor (2000) ad acquirente della Chrysler (2009), sia pure essendo quest´ultima in bancarotta (come ben raccontato da Steven Rattner). Nei volumi di Berta e Griseri emerge un certo disorientamento di fronte all´incredibile, che cioè un’azienda europea marginale e in declino potesse compare nientepopodimeno che la Chrysler. Simile disorientamento lo troviamo negli USA, dove Jennifer Clark ha spiegato agli americani cosa diamine fosse la Fiat e chi fossero i loro padroni. Da qui naturalmente la scoperta che la Fiat era davvero un attore globale e che, forse, nel post-2008 le radici italiane non erano così rilevanti. È quello che, con altro retroterra, raccontano anche il volume di Germano (inquadrando il tema sul lungo periodo), e quello di Navaretti e Ottaviano.

Il secondo centro focale, che accomuna molti degli altri volumi, è una dimensione marcatamente polemica che si concentra sulla figura, quasi messianica, di Marchionne. Il nostro eroe/enti-eroe assume – a seconda dei casi – sembianze ora mefistofeliche ora salvifiche, finendo per occupare l´intera scena narrativa e a figurare come deus ex machina dell´intera vicenda. Nulla di nuovo sotto il sole, se si pensa all´attenzione editoriale per Gianni Agnelli (“l´avvocato”), culminata nel 1976 con un libro di Enzo Biagi intitolato “Il Signor Fiat”. Del resto, della classica triade weberiana sulle basi fondative del potere, a Marchionne manca solo la tradizione di una famiglia, ma non gli manca certo il carisma, né il potere formale. Il che ne fa un oggetto privilegiato di accuse e insinuazioni, soprattutto quando si tratta di insorgere, pantofole ai piedi, per la difesa dei diritti dei lavoratori.

Asimmetrico rispetto a questi due modelli, il volume di Airaudo, il quale, sia pure con alcune goffaggini terminologiche e una narrativa talvolta retorica, affronta la questione della produzione industriale mettendo al centro la condizione operaia negli stabilimenti Fiat. Nel leggere Airaudo, la solitudine dei lavoratori non potrebbe essere più completa: espulsi dai circuiti meditatici e dal dibattito culturale, volontariamente dimenticati dalla politica, soli alla mercé di una controparte che, come ricordava nel 1980 un caustico Altan, non ha certo dimenticato cosa sia la lotta di classe. Ma alla fin fine per anche per Airaudo, il passato schiaccia il futuro. Al di là della impostazione narrativa, la cifra di fondo della discussione in quasi tutti i volumi è un certo provincialismo di fondo, centrato su una dimensione italiana o, nei migliori dei casi, nord-atlantica. Sembra davvero che buona parte del dibattitto odierno, non solo non abbia colto gli errori strategici della dirigenza Fiat negli anni ´80 e ´90, ma che neppure abbia una – sia pur vaga – idea di quali siano le nuove geografie mondiali.

Se dopo l´impasse degli anni ´70 (e si veda il libro per lo più ignorato ma fulminante di Vincenzo Comito edito nel 1982), la Fiat entusiasticamente abbraccia l´automazione della produzione, anche se non la interpreta come miglioramento delle performance, quanto piuttosto come strumento per ridurre gli spazi di manovra del movimento operaio. In più, negli anni ´90, per la Fiat il mercato nazionale e quello sud-europeo rimangono centrali, anche per il fallimento della “World Car”, cioè di un modello unico di automobile proposto globalmente (su questo si veda il libro co-curato da Volpato nel 1998). In aggiunta, anche per mancanza d’immaginazione, l´apertura di stabilimenti all´estero scommette sulle meglio conosciute aree europee, dell´America Latina e del Mediterraneo. L´Asia sembra essere troppo lontana, e troppo povera per poter essere un mercato interessante. I marchi tedeschi hanno un´idea diversa, e la differenza, trent’anni dopo, si vede. (Ma a dimostrazione della complessità del mercato, non si dimentichi il disastro, negli anni ´90, della Daimler-Benz proprio nell´acquisto Chrysler)

A proposito invece delle nuove geografie industriali europee e globali, quasi nessuno menziona che oggi la Slovacchia produce più autoveicoli dell´Italia, che la Cina è ormai il primo mercato e il primo produttore di macchine al mondo. Di questi elementi, solo pochi volumi fanno cenno, figuriamoci poi mettere al centro dell´analisi le economie emergenti e l´ormai declinante mercato europeo… Insomma, nel complesso in Italia ci troviamo di fronte ad un dibattito economico e industriale pigro e datato, che rimpiange i fasti degli anni ´60 e che trasmette un´idea ingannevole della globalizzazione: basta dire che solo pochi anni fa Tremonti proponeva di sfidare lo sviluppo cinese con i dazi d’importazione!

La situazione diventa poi ancora più fosca se poniamo il dibattito italiano in una prospettiva rivolta al futuro. I marchi europei di punta, Fiat /Chrysler compresa, sono naturalmente ben felici di vendere automobili, ma alcuni di essi – e soprattutto quelli nord-europei – si muovono già prefigurando una mobilità post-automobile, basata sul concetto di economia condivisa, post-proprietà e persino post-auto (si veda il volume Automobility in Transition, Routledge 2012). Ecco, manca in Italia una prospettiva a tutto tondo, e la discussione ruota ancora sul revival, ormai impossibile, di un modello di trasporti basato sull´automobile, ancora essenziale per la vita quotidiana di noi europei, ma che ormai mostra la corda; oppure si fa affidamento sulla rinascita dell´automobile come veicolo elettrico o senza guidatore. Insomma, anche se invischiati nel brutto e squallido scandalo Volkswagen, l´industria automobilistica tedesca vende macchine a piene mani nelle economie emergenti, ma nelle economie mature sta già pensando alla mobilità del futuro come potenzialmente aperta a qualunque scenario. Dunque, invece di fare le pulci allo stipendio, principesco, di Marchionne, o decantarne le abilità taumaturghe, dovremmo invece chiederci quale impatto avranno le intelligenze artificiali nelle fabbriche del futuro, quale impatto avrà internet of things sui livelli occupazionali, come l´industria italiana (non) reagisce alla sfide delle nanotecnologie. Soprattutto dovremmo chiederci se nel 2050 avremo ancora bisogno di automobili, e se ce le potremo permettere (individualmente e socialmente). Ma, ancora di più, dovremmo chiederci se le vorremmo davvero ancora tra di noi.

Questo articolo é una antepirma di quanto sará publbicato sull´Indice dei libri del mese di Dicembre 2015

·         Giorgio Airaudo, La solitudine dei lavoratori, Einaudi 2012

·         Ritanna Armeni, Lo squalo e il dinosauro, Ediesse 2012

·         Giorgio Barba Navaretti e Gianmarco Ottaviano, Made in Torino? Fiat Chrysler Automobiles e il futuro dell’industria, Il Mulino, 2014.

·         Giuseppe Berta, Fiat Chrysler e la deriva dell´Italia industriale, Il Mulino 2011

·         Francesco Bogliari, Chi comanda è solo, Rizzoli 2012

·         Salvatore Cannavó, C´era una volta la Fiat, Alegre 2012

·         Marco Cobianchi, American Dream, Chiarelettere 2014

·         Vincenzo Comito, La Fiat tra crisi e ristrutturazione, Editori riuniti 1982

·         Serena di Ronza e Liliana Faccioli Pintozzi, Sergio l´Americano, RX 2012

·         European Commission, “Car 21 final report”, EC, 2012

·         Luca Germano, Governo e grandi imprese: La Fiat da azienda protetta a global player, Il Mulino 2009

·         Paolo Griseri, La Fiat di Marchionne. Da Torino a Detroit, Einaudi 2012

·         J.F. Jeekel, The car-dependent society: a European perspective, Ashgate 2013

Adalberto Minucci (Autore), M. Albeltaro (a cura di), Quando a Torino c’era la Fiat, editori riuniti, 2015
·         One Best Way? Trajectories and Industrial Models of the World’s Automobile Producers, a cura di Michel Freyssenet, Andrew Mair, Koichi Shimizu and Giuseppe Volpato, Oxford University Press, 1998

·         Steven Rattner, Overhaul, Harcourt Houghton Mifflin 2010

Bruno Vitali, Tremila giorni. Fiat: la metamorfosi e il racconto, Marsilio 2015

 

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