Grandi imprese
L’era del debranding
Più colore, meno parole: così alcune tra le più importanti aziende del mondo stanno rivoluzionando i concetti classici di marketing e realizzazione dei loghi commerciali
Lo scorso 8 marzo, Coca-Cola Italia ha indetto una conferenza stampa per comunicare le proprie strategie sul mercato italiano. In particolare, la multinazionale americana ha annunciato una vera e propria svolta, con il lancio di nuove versioni della sua bevanda più famosa, con quantitativi di zucchero ridotti o addirittura nulli.
Per accompagnare questa nuova era, è stato lanciato un nuovo packaging, nel quale l’iconico rosso dell’etichetta rimane come filo conduttore di una nuova serie di etichette, che cambiano anche nel colore in base alle diverse versioni immesse sul mercato.
I sacri testi del marketing ci hanno insegnato che i loghi hanno una loro sacralità e non vanno mai modificati. Eppure, qualcosa sta cambiando e forse è il caso di aggiornare il nostro punto di vista. Nella location scelta da Coca-Cola per l’evento mediatico (lo Spazio EDIT di via Maroncelli a Milano) si notava come la scenografia fosse caratterizzata dall’immagine della tipica bottiglia in vetro stilizzata, con lo sfondo rosso e vari colori alternati per l’interno della sagoma. La classica scritta “Coca-Cola”, con la sua inconfondibile font, non c’era più.
La scelta di uno dei brand commerciale più famosi del mondo non è certo un’iniziativa isolata. La tendenza si chiama “debranding” e riguarda sempre più marchi dalla popolarità globale. Il tratto comune consiste nella realizzazione di loghi unicamente grafici, fortemente stilizzati e nei quali il nome dell’azienda viene omesso o, quantomeno, ridotto ai minimi termini.
Pensiamo per esempio ad Apple, la cui mela viene immediatamente associata all’azienda di Cupertino. Le lettere non servono nemmeno a Twitter, il cui uccellino già dal 2012 ha soppiantato la scritta, anche per essere meglio identificato sugli smartphone, coi loro piccoli display. La stessa evoluzione ha riguardato altri brand tecnologici come Facebook e Google, la cui iniziale è diventata il tratto grafico distintivo. Non fa eccezione Nike: anche il colosso dell’abbigliamento sportivo spesso si fa rappresentare soltanto dal suo famoso “swoosh”, che rende inutile e ridondante il nome dell’azienda. Meno radicale la scelta del suo competitor adidas, che tuttavia non disdegna di pubblicare le tre strisce che distinguono l’azienda tedesca omettendo di nominarla esplicitamente.
A seguito di famosi restyling, anche brand di campi molto diversi come Starbucks, Mastercard, McDonald’s, Shell e la Juventus (del quale abbiamo parlato più diffusamente qui), hanno fatto sparire o almeno ridimensionato la ragione sociale, lasciandola rappresentare a segni grafici molto eloquenti.
Insomma, pare davvero finita l’era classica, nella quale i loghi venivano sempre composti dall’abbinamento tra il nome dell’impresa e un simbolo distintivo. Che si tratti di una moda passeggera o di un trend destinato a durare nel tempo lo vedremo, ma sono diverse le ragioni che hanno originato questo processo. Abbiamo già parlato della diffusione degli smartphone, che richiede segni grafici immediatamente distinguibili, ma il “debranding” contribuisce anche a rendere i loghi meno invasivi e più dinamici, in un’era nella quale non è inusuale che lo stesso marchio produca sia computer che automobili. Inoltre, sul piano psicologico, i loghi senza parole attivano l’immaginazione del consumatore, coinvolgendo in maniera attiva e ad un livello emotivo più profondo.
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