Grandi imprese
La trincea del voto plurimo
L’introduzione del voto plurimo per le società quotate in borsa va letta come uno strumento difensivo rispetto ai mutamenti della struttura proprietaria delle imprese. Storicamente il capitalismo italiano ha controllato le sue imprese attraverso gruppi piramidali (imprese che a cascata controllano altre imprese e che permettono al proprietario finale di controllare l’impresa operativa alla base avendo investito poco capitale – messo invece dagli investitori nelle società intermedie) e patti di sindacato (accordi tra investitori che controllano vicendevolmente le proprie imprese con amministratori che siedono contemporaneamente in più consigli di amministrazione). A questa struttura, delineatasi dagli anni ’70, si sono aggiunti il Ministero dell’Economia e la Cassa Depositi e Prestiti che controllano quote rilevanti di imprese privatizzate ma sotto il controllo strategico dello Stato e diverse banche che hanno tra i loro azionisti di controllo le fondazioni bancarie nate con la Legge Amato all’inizio degli anni ’90.
Questa struttura dopo sette anni di crisi economica non regge più. Lo stato ha bisogno di privatizzare per abbassare lo stock del debito pubblico ma per vari motivi non vuole cedere il controllo di imprese come Enel ed Eni. Potrebbe però vendere parte delle azioni e su quelle che mantiene far valere la “loyalty share” e quindi dare due diritti di voto a ciascuna azione posseduta per non meno di ventiquattro mesi in modo da contare nell’assemblea degli azionisti più di quanto il numero di azioni possedute imporrebbe. Le fondazioni bancarie sono stremate da anni di assenza di dividendi, spesso non sono in grado di partecipare agli aumenti di capitale delle banche controllate e rimane estremamente rischioso avere una quota maggioritaria del proprio patrimonio investita in un solo asset, appunto la banca. Avere voto plurimo sulle azioni permetterebbe di mantenere il controllo senza subire l’effetto negativo della diluizione della quota posseduta e di migliorare il proprio profilo di rischio.
Infine le grandi imprese: la famiglia Agnelli ha già portato la Fiat in Olanda per utilizzare il voto plurimo che quella legislazione consente. In generale i patti di sindacato sembrano essere in diminuzione, è necessario focalizzarsi sulla propria impresa invece di utilizzare il capitale per puntellare il controllo di altre (l’esempio più rilevante ad oggi è quello delle Assicurazioni Generali che stanno smontando una serie di partecipazioni per focalizzarsi sul mercato assicurativo).
In definitiva sembra che i soggetti su cui si è fondato il capitalismo italiano negli ultimi decenni, tutti ora in debito di ossigeno, possano trovare nel voto plurimo una soluzione – almeno temporanea – ai loro problemi di controllo societario, riducendo la contendibilità delle imprese.
L’unico aspetto finora positivo è che le imprese avrebbero potuto modificare lo statuto per introdurre il voto plurimo con la maggioranza semplice convocando un’assemblea straordinaria da tenere entro il 31 gennaio 2015, dopo quella data sarà necessaria una maggioranza qualificata del 66%. Ad oggi, dati i tempi tecnici necessari, le uniche società che hanno utilizzato questa facilitazione sono Astaldi e Campari. Probabilmente, dato il disappunto degli investitori internazionali, le altre società hanno intenzione di cercare un’ampia condivisione dei soci sul tema. E’ interessante notare come entrambe siano già controllate con maggioranza assoluta dalle rispettive famiglie di azionisti: passati i due anni necessari ed ottenuto il voto rafforzato avranno probabilmente una maggioranza qualificata da poter utilizzare nelle assemblee straordinarie (cosa oggi non possibile) oppure punteranno a monetizzare parte delle azioni mantenendo sempre la presa sulla società.
(aggiornato il 30.12.14 includendo Campari tra le società che hanno convocato un’assemblea straordinaria per introdurre il voto plurimo a maggioranza)
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