Governo
La crisi ILVA. Il governo alla ricerca della consapevolezza perduta
La drammatica crisi di Taranto è il risultato di scelte politiche incapaci di fronteggiare una classe imprenditoriale globale interessata solo al profitto. Politica e impresa sembrano aver osservato solo le contingenze momentanee, sia in termini di gradimento elettorale che di redditività, disinteressandosi del medio-lungo periodo. Dal punto di vista politico, la novità più importante della crisi odierna è rappresentata da un bagliore di consapevolezza che sembra emergere nella classe dirigente.
La visita del presidente del Consiglio Giuseppe Conte alla fabbrica è l’immagine più iconica di tale presa di coscienza. Dopo anni di slogan, non si può sottovalutare un leader che si presenta umilmente davanti ai lavoratori che chiedono risposte, ammettendo di non avere uno straccio di soluzione e senza fragore mediatico. Al tempo stesso, il governo sembra aver messo a tacere gli opposti fattori di scompiglio. Le grida di chi vorrebbe lasciarla chiudere sono state confinate nei ribelli M5S guidati dall’ex ministro Barbara Lezzi. Matteo Renzi sembra aver terminato le indomite velleità di (facilitare) una nuova cordata tramite il fedele Marco Carrai, componente del CdA dell’azienda che dovrebbe rilanciare Piombino, l’altro stabilimento siderurgico a ciclo integrale rimasto in Italia.
Malgrado la maturazione, la politica sembra faticare ad esprimersi in modo franco, dopo anni di slogan. Recentemente, lo storico Salvatore Romeo, con il suo volume “L’acciaio in fumo”, ha indagato le vicende dello stabilimento, sfatando il mito del carrozzone pubblico, incompatibile con ambiente e salute, mai accettato dalla cittadinanza e guidato da imprenditori incapaci. Il libro analizza l’iniziale entusiasmo di una fabbrica che significava la salvezza dalla dismissione dei cantieri navali, per comprendere come si sia lentamente creata una frattura con la popolazione.
Quello che preme ricordare sono due elementi. Da una parte, la facilità con cui la politica ha trascurato il lavoro dell’ex ministro dell’ambiente Edo Ronchi, subcommissario per l’ILVA, il quale insisteva sulla possibilità di produrre ghisa in modo ambientalmente sostenibile tramite l’utilizzo del gas preridotto. Dall’altra, la velocità con cui è stata dimenticata la lezione di Oscar Sinigaglia, fondatore della siderurgia italiana, per cui lo stabilimento non è tanto importante per gli occupati e per l’indotto quanto per i consumatori.
Se la politica diventasse davvero consapevole, dovrebbe trasmettere tale sentimento all’opinione pubblica. Il Presidente del Consiglio dovrebbe essere franco con i cittadini, asserendo che l’acciaio rimane una risorsa strategica per il paese, perché il tessuto produttivo è intriso di piccole e medie imprese che beneficiano dei prezzi concorrenziali fissati dalla più grande fabbrica d’Europa. Se questa chiudesse, i consumatori dovrebbero rivolgersi all’estero, a tutto vantaggio dei competitor europei. Dovrebbe inoltre affermare che la riconversione verde non potrà essere garantita dai privati, per cui saranno necessari i soldi dei contribuenti e un interventismo statale che potrebbe implicare (almeno) una decisa partecipazione azionaria nel futuro assetto.
Infine, dovrebbe avere il coraggio di affermare che la politica non può cambiare le regole del gioco durante lo svolgimento di un contratto, perché comportamento tipico di chi non conosce lo stato di diritto, il cui unico effetto è fornire ampie scuse alle multinazionali intenzionate a fuggire dal paese. Ricordare quindi alla maggioranza che il governo di un paese adulto dovrebbe mettere l’interesse nazionale davanti agli slogan elettorali.
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