Grandi imprese
La Ue mette il Governo alle strette su ILVA: «Criteri di vendita scelti da voi»
L’Italia è un Paese sprovvisto di un senso pervasivo e dominante dell’interesse comune
Christopher Duggan
Papa Francesco il 27 maggio sarà in visita all’ILVA a Genova, dando un segnale chiaro della rilevanza del futuro dell’ILVA e dei temi ambientali. A Pasqua il vescovo di Taranto ha fatto un «appello di responsabilità ai numerosi attori che in questo momento lavorano alla difficile transizione del siderurgico. Che, prima di ogni scelta, ci sia una rigorosa valutazione preventiva del rischio sanitario e ambientale e che la popolazione sia informata. Siano prese in considerazione esclusivamente le opzioni che garantiscano il rispetto della dignità e della salute degli operai e la salvaguardia del nostro territorio così gravemente compromesso e sia difesa l’occupazione». In questa fase di vendita, ha detto, «spero tanto che l’interesse alla produzione non posponga neanche in minima parte il bene di Taranto, a cominciare dalla salute di voi dipendenti e dalla difesa del vostro posto di lavoro».
Facciamo ora un passo indietro nella cronaca recente e ricordiamoci della scelta di vendere l’acciaieria di Piombino all’imprenditore algerino Rebrab, commerciante di frutta e verdura, che prometteva l’impossibile e per questo aveva guadagnato la simpatia del governatore della Toscana, Rossi, e dei sindacati. Le promesse sono state disattese e l’acciaieria non ha quasi mai funzionato come avrebbe dovuto. Cosa dimostra Piombino? Che la forza di gravità funziona e a tentare voli pindarici ci si fa male.
Gli errori fatti sull’acciaio di Piombino
Se Governo e commissari vogliono fare il loro mestiere, conta un’analisi che badi alla sostanza di quello che l’offerente può e vuole fare realmente e che non si fermi alla forma dei programmi. Anche perché a fronte di una violazione plateale, persino imbarazzante degli impegni, il Governo non è intervenuto come avrebbe dovuto. Il Governo non prende neanche in considerazione la possibilità di escutere la partecipazione, in modo da riassegnarla a qualcuno che investa a Piombino. La motivazione ufficiale è che bisogna evitare lunghe contese legali che nuocerebbero alla sopravvivenza dell’acciaieria. I danni però ci sono già stati, tanti clienti sono stati persi.
In realtà, i magistrati a Livorno hanno sempre dimostrato grande capacità e assertività e sono sicuro che per Rebrab un’uscita senza ulteriori danni sia nel suo interesse. Gli ambasciatori servono anche a spiegare queste semplici relazioni causa-effetto. Quindi il dubbio è che qualcuno a Roma voglia evitare imbarazzi che emergerebbero da una causa sull’escussione del pegno in cui Rebrab racconti qualche dettaglio di troppo su quanto accaduto realmente (ha oltre 80 anni, gli costa poco togliersi qualche sassolino dalle scarpe…).
A giugno scadono gli ammortizzatori sociali e oltre 2.000 dipendenti e relative famiglie rischiano di rimanere per strada. I miei amici toscani hanno carattere e gli effetti rischiano di essere tellurici. E siamo nel cuore della Toscana. Altro che fallimento della Banca Popolare dell’Etruria (l’operazione è stata anche approvata dal Governo Renzi…auguri). Sperano quindi che intervenga Jindal dopo essere stato allontanato a favore di Rebrab.
Piombino humanum est, ILVA diabolicum
Sul disastro di Piombino abbiamo anticipato gli eventi, perché erano ovvi. Purtroppo, come già scritto qui, sembra che anche su l’ILVA stiamo assistendo a una riedizione su scala maggiore di Piombino. Anche in questo caso si raccontano piani fantasmagorici per aggiudicarsi l’asta (tanto, come si è visto con Rebrab, nessuno garantisce l’adempimento degli impegni presi). Solo che l’ILVA rappresenta uno dei cardini dell’industria italiana e ha sempre guadagnato bene. Assegnarla nelle mani sbagliate decreterebbe la fine di questo redditizio e strategico polo. Ci sono 14.000 dipendenti diretti e altrettanti nell’indotto che rischiano il posto, con effetti nefasti per i relativi nuclei familiari e per l’economia di Puglia e Liguria. Non si può fare finta di nulla e girare la testa dall’altra parte.
Come cittadino italiano mi sento veramente preso in giro dal processo per la selezione di un acquirente per l’ILVA. La Costituzione prevede all’articolo 32 che: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» e la causa della crisi dell’ILVA sono stati i problemi ambientali che hanno causato l’intervento della Magistratura e quindi l’insolvenza. Non l’andamento economico (indotto invece dalla crisi ambientale).
Una persona di buon senso si aspetterebbe quindi che l’enfasi nella ricerca di un acquirente dell’ILVA sia basata sulla qualità dell’impatto ambientale del piano dell’acquirente, per evitare il ripetersi di crisi. Magari fosse così.
Qui si parla di oltre 28.000 famiglie in aree territoriali altrimenti prive di reali alternative lavorative, consentendo ai lavoratori di assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 della Costituzione), invece di spingerli all’indigenza e ad allargare le fila della criminalità organizzata, perché lo Stato non tutela i loro diritti fondamentali.
I criteri di vendita dell’ILVA
Nel processo per la selezione di un acquirente per l’ILVA il prezzo, che non ha alcuna tutela costituzionale, ha un peso del 50 per cento. Uno studente del primo anno di finanza considererebbe gli investimenti assieme al prezzo, a maggior ragione, visto che sono essenziali per risolvere il problema ambientale, causa dell’insolvenza. Qui invece non sono sommati al prezzo ma andrebbero considerati dando un peso al piano industriale e ambientale, che invece hanno un peso secondario. Quando chiedo come questo possa essere possibile, sento rispondere che è colpa dell’Europa, con cui i commissari hanno dovuto negoziare la ponderazione dei criteri. È assurdo: una crisi le cui cause sono ambientali, viene trattata come una tradizionale crisi economica di un gruppo, in cui giustamente il prezzo è la variabile essenziale per assicurarsi un’allocazione ottimale della proprietà (chi paga di più la farà rendere di più, non nuocendo alla concorrenza).
Uno sarebbe portato a pensare allora che sono i burocrati europei la causa di tutti i nostri problemi. Loro che vigilano sulla concorrenza non capiscono che il semi-monopolista può pagare un prezzo più elevato per ridurre la competizione e che il prezzo non può essere il criterio principale, come per una società fallita per ragioni economiche? Il quasi monopolista potrà infatti offrire fisiologicamente un prezzo più alto perché acquisendo un concorrente limita la concorrenza. Quindi i pesi così definiti lo favoriscono ex ante, pur senza dirlo esplicitamente. La contropartita del prezzo più alto che il semi-monopolista può offrire sono delle richieste dell’Antitrust che arriveranno certamente. Ma se tali richieste non sono note quando si danno i punteggi, le condizioni in base alle quali si aggiudica un’offerta sulla base del prezzo potrebbero modificarsi successivamente, sicuramente al ribasso, quando l’offerente, ottenuto il giudizio dell’Antitrust, potrà ritirarsi o modificare l’offerta.
La lettera della Commissione al Governo
Però poi uno legge la lettera degli uffici della Commissione europea indirizzata al Governo italiano, implicitamente prendendo le distanze da un processo strutturato male che potrebbe portare a un pasticcio vista l’enfasi sul prezzo. La Direzione generale “Competition” scrive che i criteri li abbiamo definiti noi (ovvero i commissari) e che auspicano un processo aperto, trasparente e market-driven. Allora mi chiedo: chi mente? I burocrati europei prendono posizione chiara per iscritto: «We would like to emphasize that the Italian authorities were fully responsible for defining the tender conditions and scoring criteria». Questo mi fa pensare che siano sinceri, perché un burocrate non scrive se rischia di essere smentito. Dopo la pubblicazione della lettera sui giornali non ho letto smentite.
A prescindere da chi abbia definito i pesi, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, esperto costituzionalista, che deve vigilare sul rispetto della Costituzione (art. 68), cosa fa? Il Presidente avrà tanti grattacapi con la legge elettorale e altri problemi, ma su certe questioni, si deve dare l’esempio. Altrimenti cosa lo studiamo a fare questo diritto costituzionale, signor Presidente?
La DG Competition spiega che ci sono dei rischi di antitrust per la posizione di Arcelor Mittal – che ha problemi di per sé, figuriamoci se prende l’ILVA – e che è compito nostro di ponderare questo rischio nella valutazione delle offerte. Commissari e advisor lo fanno? Le offerte sono condizionate ai vincoli antitrust e quindi in caso di richieste dell’antitrust per autorizzare l’acquisizione, quali tagli alla capacità produttiva e dismissioni, l’acquirente prescelto potrebbe ritirarsi: «We understand that the clauses of the contract to be signed with the winning bidder included in the bidding documents allow for the bidder to consider the merger clearance condition not fulfilled, and thus withdraw from their offer, should the merger approval require remedies that were to alter the strategic rationale of the acquisition for the winning bidder». In alternativa potrebbe modificare le condizioni tra cui il piano per l’ILVA, rischio che ricadrebbe sull’Italia: «The ‘antitrust risk’ consisting of asset divestitures may ultimately fall on the seller, if the bidder would decide not to close the transaction. The assessment of such a risk, among the risks of a regulatory nature, would ultimately fall on the Italian authorities».
Questo rischio è modesto per la cordata AcciaiItalia e rilevante per Arcelor Mittal, che partecipa in cordata con il gruppo Marcegaglia, ci ricorda la DG Competition, e va ponderato adeguatamente: «State aid rules do not prevent the Italian authorities, when selecting the most attractive offer, from taking into consideration aspects which a market vendor would also take into account, such as various risks attached to each of the two offers. These aspects include, in particular, risks of a regulatory nature making it difficult that the sale is effectively and timely completed, a fortiori, if the sale has to take place in a relatively short time period. If justified and documented, these risks may lead to an overall choice in favour of the most attractive offer, price being one very important but not the only decisive criterion». Gli advisor ponderano adeguatamente questo rischio? Mi dicono di no. E allora mi chiedo, chi deve vigilare sul rispetto del diritto, cosa fa di fronte a questa anomalia?
Chi garantisce il futuro migliore per ILVA?
I miei colleghi banchieri sanno che nel caso di offerte incerte in termini di esecuzione, bisogna lavorare per rendere le offerte comparabili, in modo da massimizzare la competizione. Per questo i commissari hanno chiesto un’estensione delle due offerte, in modo da conoscere le condizioni dell’antitrust e poter comparare le offerte. Ma questo nuoce ai tempi per una soluzione e l’ILVA richiede un intervento rapido, quindi la cordata Acciaitalia (il gruppo indiano Jindal più Cassa Depositi, Arvedi e Leonardo del Vecchio) ha negato il consenso. I miei colleghi banchieri sanno che tra una buona offerta certa e un’appetibile offerta incerta, va preferita l’offerta certa. Qui commissari e advisor sembrano dimenticarlo e mi chiedo il perché.
Sento dire che si enfatizza il prezzo in quanto elemento oggettivo e piano industriale e ambientale, in quanto soggettivi, vengono posti in secondo piano: e meno male che gli investimenti dovevano essere recuperati in base a questi altri due criteri! Meno male che il primo non rileva in base alla Costituzione e gli altri due sì. Eppure sono i due punti più importanti per risolvere le cause della crisi ed evitare che si ripeta. Al livello di prezzo raggiunto oggi l’obiettivo dei creditori è soddisfatto, altrettanto non si può dire di salute, lavoro e concorrenza. Al primo problema dell’impianto di Taranto per problemi ambientali (continuando a lavorare con il carbone, il problema sarebbe quando e non se accadrebbe), Arcelor potrebbe chiudere tutto dando la colpa ai poveri magistrati.
Chissà se il Presidente Mattarella, il premier Gentiloni e il presidente della Cariplo Guzzetti, ferventi cattolici, presteranno attenzione al messaggio del Papa e del Vescovo di Taranto, oltre che all’interesse territoriale e nazionale. Se baderanno alla sostanza delle proposte formulate o se guarderanno solo alla forma del rispetto dell’AIA, l’autorizzazione integrata ambientale. Seguiranno le indicazioni del Papa nella Laudato sì: «Queste azioni non risolvono i problemi globali, ma confermano che l’essere umano è ancora capace di intervenire positivamente. Essendo stato creato per amare, in mezzo ai suoi limiti germogliano inevitabilmente gesti di generosità, di solidarietà e di attenzione»?
La palla passa ora al ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e indirettamente al segretario del Pd Matteo Renzi. Vediamo se vorranno ripetere il disastro prevedibile di Piombino. Non si dica che il disastro non si rischia perché Mittal non è Rebrab e di acciaio ne capisce. Le intenzioni reali si colgono dagli errori nel piano industriale e dall’atteggiamento tenuto con le istituzioni (“sugli impegni cogenti a mantenere capacità ed occupazione, vedremo”).
La Commissione Europea l’ha capito e per questo ha scritto: i criteri li avete scelti voi, li dovrete applicare voi, non date poi a noi la responsabilità di una decisione basata sul prezzo, perché quando verrà fuori il giudizio dell’Antitrust saranno dolori – taglio della capacità produttiva, dismissioni – se scegliete Arcelor Mittal.
Per fortuna qualcuno in Intesa Sanpaolo se ne sta rendendo conto. In caso di vittoria di Mittal, il conto a scadenza lo pagheranno per primi loro, con gli interessi. Oltre al territorio pugliese e alle condizioni di competitività dell’acciaio, importante per tanti settori in cui l’Italia eccelle. I tedeschi l’hanno capito, come si legge dalla comunicazione della DG Competition. Lo capiranno anche i nostri politici?
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