Grandi imprese

L’ILVA non si salva se prima non si mette un punto definitivo su Arcelor Mittal

25 Novembre 2019

Avevamo anticipato che su ILVA lo sviluppo negativo degli eventi era interamente prevedibile e saremmo finiti male, come su Piombino: cioè, con l’assegnatario che lascia la società sfiancata in mano al Governo. Sarà così, ma probabilmente non accadrà ora. Perché al momento non vi sono le condizioni per raggiungere con costi ragionevoli l’obiettivo che riteniamo che Arcelor Mittal si prefigga.

Arcelor Mittal, disponendo di rilevante capacità in eccesso in Europa, ha convenienza oggettiva a chiudere l’ILVA o perlomeno a chiudere l’area a caldo (gli altoforni), rifornendo l’area a freddo (laminatoi) con semilavorati prodotti altrove. I macchinari dell’Ilva sono in ottimo stato e la posizione logistica di Taranto e Novi Ligure è perfetta. Quindi, un pezzettino lo si può anche tenere. Ovviamente tutto questo è inaccettabile per il paese, perché:

1. determinerebbe decine di migliaia di esuberi (diretti e nell’indotto), concentrati in aree territoriali già stremate;

2. distruggerebbe il vantaggio competitivo dell’Ilva: le economie di scala derivanti dai rilevanti volumi di produzione. Vantaggio competitivo passato a valle alle imprese del settore manifatturiero attraverso prezzi competitivi e forniture rapide e di qualità, grazie al magazzino locale. Imprese che costituiscono un pezzo rilevante della struttura industriale del paese;

3. renderebbe l’Italia importatore netto di acciaio per quantità eccessive;

4. renderebbe la produzione di acciaio dell’Italia dipendente esclusivamente dai forni elettrici con rottame (qualità inferiore e prezzo volatile/soggetto a shock);

5. ridurrebbe la fornitura di lamierino, sottoprodotto dell’attività di Ilva, che è essenziale per far produrre ai forni elettrici acciaio di qualità superiore.

La direzione in cui Mittal va ed i problemi che si sono verificati erano già anticipabili in base alle carenze del piano, come evidenziato nella comparazione delle offerte e recentemente spiegato da un articolo dei giornalisti Luca Pagni e Luca Piana su Affari & Finanza. Nondimeno, siamo diretti in modo inesorabile verso il risultato di chiusura parziale o totale che interessa ad Arcelor Mittal.

Quello che sta accadendo sull’ILVA è privo di senso, se si guarda all’interesse dell’Italia ed al rispetto della Costituzione, però è inevitabile perché deriva dal confronto di due forze ben definite.

Da un lato, lo sforzo ben organizzato e coordinato, pianificato con abilità scacchistica, da parte di soggetti capaci di penetrare ovunque che hanno il chiaro obiettivo di chiudere l’ILVA (obiettivo primario) o ridimensionarla alla sola area a freddo (obiettivo secondario) e che dalla cessione e chiusura dell’ILVA hanno ottenuto o vogliono ottenere significativi benefici personali. Benefici modesti rispetto al danno enorme determinato per il paese, ma nondimeno individuali e capaci a motivare un’azione costante e terribilmente efficace.

Dall’altro lato, lo sforzo pregevole di alcune persone integre, di eccezionale caratura che vogliono eliminare questo rischio, in primis il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ed il capo della Procura di Milano Francesco Greco. Lo stanno facendo con eccezionale energia e determinazione e con la discrezione che normalmente ne caratterizza l’azione. Vogliono che vi sia il rispetto del diritto alla salute, al lavoro e vogliono preservare il tessuto industriale del paese. Ma non dispongono degli strumenti necessari: possono solo obbligare Mittal a rispettare gli impegni assunti in sede di sottoscrizione del contratto di affitto d’azienda. Non possono certo inventarsi una soluzione alternativa, perché non hanno le competenze e la conoscenza del settore per farlo. E stanno commettendo l’errore di non comprendere cosa è accaduto prima e durante il processo d’asta. Quindi non comprendono l’identità e le modalità operative degli attori che hanno determinato l’attuale drammatica situazione.

A breve i secondi non potranno che vincere, apparentemente, per i mezzi di cui dispongono. Ma subito dopo tornerà in azione la prima forza, che ha portato all’assegnazione dell’Ilva a Mittal. Lenta ed irrefrenabile. E quindi si arriva al paradosso. Pur avendo capito, finalmente, che Mittal vuole chiudere o ridimensionare l’Ilva, le forze virtuose al massimo possono evitare che Mittal fugga ai suoi impegni e spingerlo ad eseguire il contratto. Ritenendo che questa moral suasion possa essere sufficiente nel medio-lungo
termine. Pensando che adesso si deve togliere pressione da un governo traballante. Condannando così definitivamente l’ILVA, che dall’acquisizione ad oggi è già stata oggetto di un sostanziale depauperamento. Nel frattempo, Mittal nel nuovo accordo riuscirà a ridurre l’occupazione ed i volumi produttivi degli altoforni, terrà basse le manutenzioni, non ripristinerà l’operatività necessaria (ad es. i forni siviera necessari a produrre tubi), rendendo ILVA meno competitiva.

Poi, la prossima volta che ci proverà Mittal si farà più astuta, conoscendo gli strumenti di reazione, e magari potrebbe farlo in un momento in cui la sovranità del paese sarà ridotta, magari per problemi sul debito che incombono sull’Italia come un macigno. In un momento, quindi in cui la moral suasion che oggi salverà l’ILVA, diverrà inefficace o addirittura improponibile.

Allora, le persone integre di cui parlavamo dovrebbero capire che:

1)      innanzitutto comprendere cosa è accaduto, le responsabilità, per evitare che i soggetti che hanno determinato la situazione attuale continuino nell’ombra a fare danni, ad esempio proponendosi come consulenti o commissari oppure facendo giungere investitori interessati a sviluppare la de-carbonizzazione e che possono essere invece funzionali al disegno di spegnere l’ILVA. Invece su questo, sinora, la magistratura non ha dimostrato attenzione;

2)      la soluzione vera, per quanto difficile e rischiosa, non può che passare da un proprietà diversa. Ma che nessun operatore di rilievo si farà seriamente avanti ora, con Mittal formalmente ancora proprietario, con la sola conseguenza di incentivare Mittal a rimanere per evitare che l’impianto di Taranto cada nelle mani di un concorrente che può sfruttarne il potenziale competitivo di produttore a più basso costo in Europa. Dopo un processo di acquisizione in cui tanti si sono sentiti presi in giro, non si può pretendere che il salvatore di ILVA arrivi a perdere tempo senza che il paese corregga le aberrazioni compiute, indicando che le ha comprese e vuole porvi rimedio.

Del resto, se fosse vera anche solo la metà di quanto contestato dalla magistratura inquirente, e riportato dai principali giornali, come si può continuare a lasciare l’azienda nelle mani di chi la sta danneggiando?

Perciò, togliere definitivamente l’Ilva a Mittal è l’unico modo per riuscire a salvaguardare salute e lavoro e soprattutto per tutelare la struttura industriale del nostro paese, di cui ILVA è la linea Maginot, dalle forze che lo vorrebbero de-industrializzato e buono solo come meta turistica dei vecchi d’Europa.

Per farlo bisogna capire che esiste un’alternativa valida, che passa per l’uso del gas : una soluzione che coniuga salute e occupazione, e che è stata inspiegabilmente accantonata nel processo d’asta. Una soluzione che permetterebbe l’incremento dei livelli produttivi, senza i quali non si possono generare utili e quindi attrarre capitali. Da lì bisogna dunque ripartire. Ma questo non può che avvenire senza Arcelor Mittal: perché il gruppo indiano non ha interesse strategico a sviluppare il gas e quindi un’apertura in tal senso potrebbe anche solo essere strumentale a dimostrare che nella pratica non funziona. Tentare questa strada, pur difficile ed a rischio di fallimento, è certamente meglio che mandare ILVA incontro ad una fine certa. Almeno si sarà fatto tutto il possibile per cambiare il corso, già molto compromesso, degli eventi.

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