Grandi imprese

Dal boom all’inferno, la storia d’Italia in un piccolo maglificio del Nordest

6 Dicembre 2014

Per rispetto della privacy ho cambiato i nomi e alcuni fatti del racconto che segue. La base della storia – quella che la rende importante – rimane comunque veritiera.

Quella in cui mi sono imbattuto a Rabello, paesino del Nordest, è una storia che in piccolo racconta l’Italia e le sue ultime tre generazioni. Arrivato davanti al grosso portone in legno dell’hotel sono stato accolto da Clotilde, una donna anziana, sull’ottantina. Bassa, rotonda, capelli bianchi e ricci, occhi vispi e un grande sorriso. Nonostante non avesse idea di chi fossi sembrava genuinamente contenta di vedermi. Dopo i saluti e le presentazioni – «Piacere Alberto», «Salve, Clotilde» – attraversiamo assieme, con passo lento, salotti e lunghi corridoi decorati in stile art déco finché non raggiungiamo quella che sarebbe stata la mia stanza. «Stai attento, è un labirinto qui. Si perdono sempre tutti. Cerca tu che sei giovane di non fare lo stesso … altrimenti ti devo venire a cercare e sono oramai troppo vecchia e stanca per queste cose». Quella sera ero l’unico ospite e così, con quella gentilezza di chi passa troppe ore da sola ma nonostante tutto non ha perso il sorriso, Clotilde mi ha invitato al piano di sopra a cenare con lei.

Quando arrivo nella grossa cucina, seduta vicino al camino, c’è anche una delle figlie dei proprietari della villa. Si chiama Veronica ed e’ lì a Rabello per passare “quattro giorni di relax” prima di fare ritorno a Londra dove da qualche anno lavora per una grossa società di consulenza. Poco meno di trent’anni, capelli ricci alla Modugno, occhi scuri segnati da quelle occhiaie di chi passa troppe ore seduta davanti ad un computer, subito dopo le presentazioni inizia a raccontarmi di come “in villa” fino a pochi anni prima vivesse assieme a tutta la famiglia. Lì a Rabello, su tre piani e sotto lo stesso tetto, dormivano i nonni paterni, quello materni, gli zii, i cugini. La villa era sempre piena, il salotto rumoroso e a cena la grossa tavolata in legno massiccio su cui sto cenando non era mai in grado di accomodare tutti i presenti. “Quando ero piccola dovevo litigare con fratelli e cugini per avere un posto”, racconta Veronica tra il divertito e il malinconico.

Suo nonno Jacopo era il titolare di un maglificio di medie dimensioni collocato nel giardino della villa. Quando ancora in attività impiegava una trentina di persone tra cui il padre di Veronica, quello dei cugini e altri parenti meno stretti. Allora la ditta andava bene: la qualità delle maglie era alta e stilisti del calibro di Loro Piana e Valentino chiedevano all’azienda di confezionarli i capi. «A volte, addirittura  – racconta Veronica senza riuscire a nascondere il sorriso – nel giardino della villa organizzavamo delle sfilate. Venivano un sacco di persone ed era sempre bellissimo». Ripensarci ora, nel mezzo di un’Italia caratterizzata per lo più da crisi, precariato e retorica disfattista, pare idilliaco, o quasi. «Ovviamente non posso sapere cosa avrei fatto oggi se l’azienda fosse ancora attiva, ma in tempi di crisi come questi, avrebbe fatto comodo avere un approdo sicuro. Non sarei dovuta andare all’estero e soprattutto non dovrei costantemente vivere con il pensiero del ‘ma se tornassi in Italia che cosa farei, ne vale la pena o è un suicidio dal punto di vista lavorativo?’ Se il maglificio ci fosse ancora sarei potuta tornare. Punto e basta».

Il giorno dopo Veronica mi porta a fare un tour della villa. Mentre camminiamo tra quello che una volta deve essere stato uno splendido giardino, ci avviciniamo al grosso capannone che in tempi migliori ospitava il maglifici. Sparpagliati in terra ci sono rotoli e rotoli di materiale inutilizzato rimasto per anni a marcire. In fondo allo stanzone una vecchia Jeep blu scuro che nessuno sembra toccare da anni. «E quella?», chiedo. «Non lo so, è lì da non so quanto e non ho mai chiesto nulla», risponde schiva come a voler terminare la conversazione il più velocemente possibile. Sulla destra del capannone c’è un gruppo di palazzine di evidente nuova costruzione. «Quelle – dice Veronica come fosse in grado di leggermi nel pensiero – le ha fatte costruire il marito di mia zia, Giacomo, quando qualche anno fa ha preso controllo della società e dei terreni».  

Giacomo è stato assunto in azienda dal nonno di Veronica dopo il matrimonio con una sua cugina.  È stato l’inizio della fine per l’azienda e la vita della famiglia che la gestiva. Uomo ambizioso, Giacomo avrebbe forse dovuto suscitare i primi dubbi dopo essere stato scoperto a mentire sulla sua origine mezza inglese. Entrato in società e assunto il controllo della contabilità e dei flussi di cassa, in pochi anni e senza farsi notare, ha dirottato gran parte delle entrate societarie sui propri conti così da portare la maglieria alla bancarotta e presentarsi poi come l’unica persona in grado di salvarla da un sicuro fallimento. Forte di questa posizione ha acquistato tutto: terreni, azienda e la stessa villa di famiglia. Non soltanto. Una volta assuntane la proprietà ha scorporato l’azienda per poi rivendere le diverse attività a pezzettini e massimizzare il suo tornaconto. La linea uomo è finita ad una società greca, la linea donna ad una inglese, mentre i terreni della villa sono stati sfruttati per l’ennesima speculazione edilizia fatta di cemento, palazzine, anonimi centri commerciali “e presto un cinema”, aggiunge Veronica. I capitali guadagnati sono poi stati reinvestiti in un hotel di lusso in un paese caraibico e in una catena di farmacie in Sud America. Dell’azienda di famiglia non è rimasto nulla a parte i ricordi e la desolazione di una villa trasformata in hotel per mancanza di alternative e dove oggi non vive nessuno eccetto Clotilde, qualche saltuario cliente o membri della famiglia in vacanza.

Perché questa vicenda racconta bene l’Italia? Perché nasce con la generazione dei nonni, quelli che hanno fatto o vissuto gli anni della guerra, quelli che hanno ricostruito l’Italia dalle rovine, hanno tirato su società come il maglificio di Rabello. Un’azienda competitiva e in grado di dare lavoro a decine di persone, di creare ricchezza, di ridistribuirla nell’economia locale. Poi i figli, quelli per cui la guerra è stata soltanto un racconto dei padri e delle madri, quelli che sì hanno lavorato, sono stati sì capaci, ma si sono goduti il  boom senza sopperire la fatica di crearlo e oggi, chiuse le aziende su cui hanno fatto affidamento, si sono dovuti re-inventare, spesso al ribasso e adattandosi alle trasformazioni in atto invece di esserne i motori primi. Infine i figli, la terza generazione, quella di Veronica, quelli che della guerra non sanno nulla e non sono interessati, quelli per cui il benessere dei nonni esiste perché ne sono i fortunati recipienti, quelli che della operosa borghesia hanno ereditato patrimoni ed educazione, ma difficilmente potranno aspirare allo stesso successo economico se non andando all’estero, mettendo le loro capacità e potenzialità a servizio di aziende straniere senza crearne di proprie.

Le similitudini tra la storia di Rabello e quella dell’Italia non finiscono. Il passaggio tra le tre generazioni è anche il passaggio di un’azienda ad alta intensità di lavoro, la maglieria, ad una società di consulenza che vende know-how, quella dove lavora Veronica, e il cui scopo non è creare posti di lavoro, ma incrementare l’efficienza e di conseguenza (non per diretta cattiveria) distruggerne – spesso proprio quei posti di lavoro creati dai nonni. Cos’altro dice questa storia dell’Italia?

C’è dentro il cambiamento del paese: le imprese radicate sul territorio svuotate della loro essenza da personaggi senza una visione di lungo periodo e appiattiti sul mero ritorno economico.

L’idea classica di famiglia e azienda di famiglia distrutta e con poche possibilità di tornare ad essere quella che è stata.

L’Italia che diventa un hotel per turisti, per stranieri, un paese passivo, commodificato per l’uso e l’esperienza che ne fanno e faranno altri.

La terza generazione, i figli della borghesia che avrebbero dovuto costituire, almeno in parte, la nuova classe dirigente, costretti ad andare all’estero, impossibilitati a tornare a meno di grossi sacrifici personali.

 

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