Grandi imprese

Il gioco duro di Mittal e la risposta necessaria per salvare ILVA

5 Novembre 2019

Il contratto di affitto e poi d’acquisizione dell’ILVA è stato rescisso. È la fine? Arcelor Mittal andrà via? Magari, purtroppo no, o almeno non subito. La rescissione del contratto è solo un modo per negoziare duro con il Governo ed ottenere ciò che il gruppo franco-indiano, capofila della cordata di compratori AM Investco Italy, vuole: lo scudo penale. Scudo che, secondo il ministro Stefano Patuanelli sussisterebbe, nella misura compatibile con l’ordinamento, anche senza una norma ad hoc; mentre secondo Mittal no. Forse varrebbe la pena considerare che questo scudo, inventato originariamente dall’allora commissario Enrico Bondi, è uno scudo di carta inutilizzabile, che non reggerebbe un secondo al vaglio della Corte Costituzionale.

Rescindere il contratto serve solo a negoziare duro con il Governo. Serve a fare pressioni su sindacati, su Intesa Sanpaolo (il maggior creditore che rischia una maxi-perdita) e sul gruppo Marcegaglia (uscito dalla cordata AM Investco vendendo la quota all’altro socio Intesa, che potrebbe però aver preteso delle garanzie nel caso in cui l’operazione complessiva non vada in porto), perché a loro volta aumentino la pressione sul Governo. Ma non facciamoci illusioni: se alla fine Arcelor Mittal otterrà lo scudo penale, si andrà avanti ancora per un po’, salvo poi ritrovarci comunque al punto attuale.

Un osservatore attento o un abile negoziatore noterebbe il vero elemento rilevante: il plateale fallimento del piano industriale di Arcelor Mittal. ILVA sta lavorando a 4 milioni di tonnellate di produzione: a questi livelli perde un mare di soldi. Ovvio che Mittal sia felice di ridarla indietro. Magari con la beffa della richiesta dei danni per inadempimento del Governo.

C’è da sperare che se ne vada. Perché mettere l’ILVA in mano a un acquirente per cui l’azienda vale più da chiusa che da funzionante è stato un mostruoso errore di politica industriale firmato da Carlo Calenda, allora ministro dello Sviluppo economico nei governi Renzi e Gentiloni, e poi validato dal ministro Luigi Di Maio.

Arcelor Mittal era ben felice di pagare il prezzo dell’acquisizione dell’ILVA pur di impedire che andasse a un concorrente, anche se questo poi avrebbe significato chiuderla. Lentamente, in modo che il peggioramento fosse poco percepibile ma continuo, senza suscitare grosse reazioni. Una dote da pagare per eliminare della capacità produttiva in eccesso in Europa, uno stabilimento con elevatissime economie di scala che avrebbe potuto fare molto male nelle mani sbagliate. Poterla chiudere senza neanche pagare la dote sembra un’occasione veramente ghiotta. Un regalo inaspettato da parte del Governo.

L’errore enorme non è questo ma la scelta originaria della cordata AM Investco: non assicurare un azionista interessato a risolvere e superare i problemi che si presentano, ma felice di restituirla alla prima occasione, meglio senza aver pagato il prezzo promesso. Proseguire su questa strada porterebbe inevitabilmente verso la chiusura di impianti sfiniti per consunzione. Dall’assegnazione fino a oggi la situazione degli impianti si è deteriorata e Mittal può pure mettere le mani sui clienti di ILVA. Quindi il danno serio c’è già stato. Senza pagare l’acquisizione, Mittal ha già ottenuto ciò che risponde ai suoi interessi strategici.

Quindi ha senso proseguire su questa strada, arrendersi alle richieste di Mittal e veder comunque chiudere ILVA tra un po’? Un Governo che ha a cuore il futuro di un’industria chiave per il Paese dovrebbe approfittare di questa rescissione e verificare se per ILVA si possono trovare degli azionisti realmente interessati al suo futuro, magari con un piano basato sul gas e quindi meno problematico sotto il profilo ambientale.

Purtroppo, l’esito più probabile è che il Governo segua la strada apparentemente più semplice, ma nel lungo termine devastante, di accogliere le richieste di Arcelor Mittal.

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