Grandi imprese
IKEA, la fine del mito del lavoro sostenibile
Ci siamo passati tutti. Difficilmente ne siamo usciti senza acquistare nulla. Ci è passata anche Anna Finocchiaro, pizzicata a farsi cavallerescamente aiutare dagli uomini della scorta a caricare i pacchi e, per questo, esposta da Matteo Renzi, all’epoca ancora travestito da rottamatore, alla gogna mediatica.
IKEA per gli italiani ha da sempre rappresentato qualcosa di più di una azienda del mobile: ha permesso a migliaia di giovani coppie di arredare la prima casa con gusto spendendo poco, con il suo ristorantino e le sue polpettine ha costituito il punto di ritrovo di famiglie e amici, ha coraggiosamente esposto manifesti di uomini che si tenevano per mano (“Siamo aperti ad ogni forma di famiglia” recitava lo slogan) in anni in cui le unioni civili sembravano utopia.
IKEA, l’indomani della storica sconfitta della nazionale con la Svezia, poteva permettersi di “percularci” tutti offrendo una panchina a Ventura, a patto che le venissero restituite tutte le matite negli anni rubacchiate dalla gentile clientela.
Venti negozi da Torino a Catania, circa 7000 dipendenti, un indotto imponente (l’Italia è uno dei sui maggiori fornitori) sull’impero di Ingvar Kamprad, fondatore magnanimo a tale punto da far dimenticare i sospetti di simpatie naziste in gioventù, si potrebbe dire che il sole non tramonta mai.
E invece quel sole proietta ombre lunghe che si abbattono sui lavoratori un tempo anche loro al centro della strategia aziendale sullo stesso piano o quasi del cliente.
Un paio di giorni fa presso il punto di vendita di Corsico a Milano una lavoratrice con 17 anni di anzianità veniva licenziata in tronco, rea di non aver rispettato per due volte il turno di assegnatole.
Marica, madre separata con due figli a carico di cui uno disabile, aveva più volte segnalato il problema di non riuscire ad essere contemporaneamente in servizio e ad accompagnare i figli a scuola. La risposta, davvero poco svedese, è stata, dopo vari rimpalli, la consegna di una lettera di licenziamento in tronco.
Ed ecco che improvvisamente sullo story telling della azienda buona (o forse solo buonista) per eccellenza, si apre un capitolo nero non previsto che rischia di squarciare il velo su una realtà ben diversa dalla percezione diffusa.
Da un po’ di anni, complice la crisi che, per dirla tutta, ha solo sfiorato il colosso scandinavo, l’azienda ha cambiato registro, disdettando il contratto integrativo aziendale per abbassare i salari degli addetti e cominciando a vivere le relazioni sindacali come un inutile orpello.
Condizioni di lavoro peggiori, cambi repentini di reparto, orari disagiati, aperture selvagge anche in giornate festive in cui l’azienda aveva sempre tenuto le saracinesche abbassate anche per rispetto alle esigenze di riposo degli addetti, sono alcune delle coseguenze di questa inversione di tendenza che butta nel compattatore storia e mission aziendale in nome della ricerca spasmodica del profitto.
Qualcuno potrà sentenziare: ” E’ il capitalismo bellezza!” e fare spallucce, ma il problema è ben più stratificato e complesso.
Il capitalismo che si mangia lavoro, dignità e diritti non e capitalismo è sfruttamento dei molti per l’arricchimento di un manipolo di privilegiati, è un tossico che inquina la società aumentando diseguaglianze talmente grandi da poter divenire alla lunga incolmabili.
Se una madre viene licenziata per due ore di ritardo accumulate per accudire i figli, qualcosa si è rotto nei civilissimi stores di IKEA ma ancor di più nella coscienza sociale di un intero paese. Non va taciuto che di questa deriva, che ogni giorno si arricchisce di una puntata ( oggi IKEA, ieri AMAZON, ieri l’altro ALMAVIVA), la responsabilità, oltre che delle imprese, è pure della politica, smaccatamente, spudoratamente schierata quasi tutta dalla parte del più forte contro il più debole, come le leggi degli ultimi anni e le regalie concesse alle imprese praticamente ad ogni legge finanziaria, testimoniano. Contrariamente a quanto si pensa, i governi italiani dell’ultimo decennio hanno una chiara politica industriale, che si traduce nell’agevolare gli interessi d’impresa in ogni modo, si bea del numero di posti di lavoro creati o solo promessi e se ne frega della qualità di quel lavoro.
L’amministratore delegato che sta guidando IKEA Italia in questi ultimi anni è una signora spagnola Belen Frau madre di tre figli che ha rilasciato diverse interviste in cui ha dipinto un quadretto entusiastico di come per lei, conciliare vita privata e carriera sia stata una sfida avvincente e grazie ad IKEA, ampiamente vinta.
Forse Belen non ha mai dovuto accompagnare i figli a scuola, perché qualcuno lo faceva per lei. Marica questa possibilità non ce l’ha. E Belen licenzia per questo Marica.
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