Finanza
I quattro veri motivi delle crisi aziendali
A guardare i numeri della crisi, dallo stock di crediti in sofferenza passati tra il 2008 e il primo trimestre del 2014 da 87 miliardi di € a 296 miliardi di € con un’incidenza sul totale dei prestiti passata dal 5.1% al 17.7%. a quello delle aziende che chiudono, 134 mila in sei anni, di cui 1 su 4 con oltre cinquant’anni di attività, sembra che incappare in una crisi aziendale sia inevitabile e che le cause siano tutte lì fuori in agguato. E’ a causa del mercato, della mancanza di liquidità si dirà allargando le braccia. E’ colpa della concorrenza sleale dei paesi a basso costo, del fisco, della burocrazia.
Ma è effettivamente così?
Per chi come me di mestiere si occupa di aziende in crisi, è a volte difficile condividere questa visione. Ciò non significa negare che il mercato si sia fatto più difficile e che le aziende debbano essere meglio attrezzate per poter competere , ma quello che fa specie è come molte delle aziende rifiutino l’autocritica e quando qualcuno li mette davanti allo specchio tendano a rifugiarsi in fattori esterni o ancor peggio a negare la situazione.
L’influenza arriva con il freddo, ma non si cura cambiando le condizioni atmosferiche.
Così quando inizio un nuovo lavoro mi faccio sempre alcune domande che mi permettano di capire l’origine della crisi, sarebbe altrimenti come curare un malato senza conoscere qual è la malattia. Anche il migliore dei medici non può operare ad occhi chiusi.
Ma ecco che ogni volta mi sorprendo nel rilevare come le cause della crisi siano sempre riconducibili a quattro grandi perché. Vediamoli:
a) L’azienda produce beni o servizi che il mercato non richiede più. Un tipico esempio di cui mi sono occupato è Blockbuster, dove il management e l’azionista ha completamente sottovalutato la velocità del cambio del mercato del noleggio film causato dalla rete e dalle pay tv. Il risultato è stato purtroppo il fallimento. In questi casi, ahimè, il futuro dell’azienda è segnato a meno che qualche manager particolarmente creativo non sia in grado di ridisegnare completamente la “business proposition” della propria azienda, In assenza del “genio creativo” (Steve Jobs nella sua seconda stagione in Apple tanto per fare l’esempio più eclatante) la selezione deve poter fare il suo corso al fine di liberare le risorse che altrimenti verrebbero impiegate per prolungare l’agonia con l’unico risultato di distruggere valore per tutti gli stakeholders.
b) L’azienda produce beni o servizi che il mercato ancora richiede ma a costi non competitivi. Per esempio guardiamo al mercato degli elettrodomestici : da tempo nessuno di noi è disposto a pagare per un apparecchio TV più di quello che paghiamo i produttori coreani o cinesi (ovvero a basso costo) fatta salva una nicchia di mercato di altissima gamma. Nel tempo e con costi notevoli questo ha portato alla sparizione di marchi quali Mivar, Brionvega per restare in Italia o della stessa Philips.
c) Il debito: L’azienda produce beni o servizi richiesti ed a costi competitivi ma è oberata da indebitamento eccessivo. Questi è il tipico caso dei leverage buy out, cioè quelle acquisizioni a leva che, prima del 2008, hanno registrato un boom e che negli ultimi tempi stanno tornando di moda grazie anche a tassi di interesse molto bassi ed alla ampia liquidità disponibile sui mercati dei capitali. In effetti e per quanto possa sembrare strano, una recente ricerca di Standard & Poor Capital IQ in cooperazione con Edward Altman della Stern Business School, mostra come nella prima metà 2014 i prezzi pagati (in termini di moltiplicatore dell’EBITDA) per le aziende oggetto di LBO (Leverage Buy Outs) siano stati pari a 9.3 volte il margine operativo (EBITDA) contro un valore di 9.1 registrato nel 2007, anno prima della crisi Lehman. Nello stesso studio si evidenzia come anche il livello di leva (debito/ equity) di tali operazioni si sia posizionato a 5.2x in Europa e 5.6x negli US (quindi circa 5,5€ di debito per ogni € di capitale) livello superiore a quello registrato negli anni 2005 e 2006 e poco sotto a quello del 2007. Ma se lasciamo per un attimo da parte il mercato dei grandi LBO (di matrice essenzialmente anglosassone) anche la sottocapitalizzazione delle aziende italiane è eclatante: un’analisi empirica fatta da una delle principali banche italiane mostra come tra le aziende oggetto di ristrutturazione i mezzi propri non superino il 5% delle passività. Questo estremo è peraltro la punta di un iceberg, ma conferma quanto segnalato a più riprese da diversi studi macroeconomici della sottocapitalizzazione strutturale delle aziende private italiane.
d) Il Management: il famoso fattore umano o, detto all’inglese, “l’execution risk”. L’azienda produce beni o servizi che il mercato richiede, lo fa a costi competitivi, con una struttura di capitale forse anche adeguata, ma è “ gestita in modo non ideale”. In questa categoria – che ovviamente non comprende i casi patologici di gestione fraudolenta, che pur in Italia non mancano –vanno comprese quelle aziende che, per motivi diversi, hanno un management non adatto al ciclo di vita che l’azienda si trova ad affrontare. Dopo tanti anni passati ad affrontare le crisi aziendali, sono convinto che ogni fase della vita di un’azienda richieda competenze specifiche e non esistano “manager per tutte le stagioni”. Lo specialista creativo (quasi sempre l’imprenditore) è funzionale alla fase dello start up, mentre la gestione della crescita, della maturità e, quando capita, della crisi, richiede competenze specifiche per ognuna di queste fasi.
Pur in un mercato sempre più complesso – ma soprattutto un mercato che si evolve ad una velocità molto superiore rispetto al passato e che quindi richiede competenze spesso diverse in un arco temporale sempre più breve – la capacità di analizzare freddamente le cause del declino di un’azienda e, conseguentemente, di prepararsi a correggere i problemi, sono sempre più importanti. L’analisi va però fatta da un lato in un’ottica innovativa in termini di proposizione aziendale ma al contempo conservativa in termini di evoluzione del mercato di riferimento (tanto per esemplificare è quello che è accaduto con gli stress test della BCE per le banche dove si è simulato cosa succederebbe se…). Se questo fosse il modello di comportamento comune (“prevenire e non curare”), a mio parere il numero dei casi di crisi aziendale si potrebbe drasticamente ridurre.
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