Grandi imprese

La governance delle società pubbliche: cosa funziona e cosa si può migliorare

31 Luglio 2020

Alitalia e Autostrade sono la punta dell’iceberg di una tendenza che, in questi anni, va rafforzandosi e che potrebbe trovare nei prossimi mesi ulteriore spinta, a causa della crisi economica. Parliamo ovviamente di quel movimento che, in Italia e non solo, sta spingendo sempre più spesso lo stato, o comunque gli enti pubblici, ad agire in prima persona nel campo dell’economia e dell’impresa, acquistando partecipazioni o quote societarie e, conseguentemente, ad acquisire un ruolo attivo nella gestione, nella nomina del management e nella governance. È proprio in questo momento, e con uno sguardo rivolto al futuro, che risulta particolarmente interessante valutare, fattualmente e dati alla mano, la qualità del governo societario delle (tante) società che sono da tempo o da sempre a capitale pubblico e che operano sul mercato. Ci soccorre in tal senso uan ricerca, realizzata da Crisci and Partners per conto di Cap Holding, che si è posta l’obiettivo di valutare il livello di “valutare l’applicazione nelle società, non quotate, a controllo pubblico, delle best practice di corporate governance, con specifico riferimento, in questa prima fase, alla composizione in termini di competenze e di diversità, non solo di genere, degli attuali Consigli di Amministrazione”.

Lo studio, realizzato su un campione di 26 società, diversificate per settore (multiutilies, finanzierie regionali, società di servizi) e per assetto proprietario (10 afferiscono al MEF, altre 10 agli enti locali e 6 alle regioni), e tutte caratterizzate da un livello minimo di complessità della governance, rappresentato dall’avere almeno tre membri del CdA. L’analisi di Crisi and Partners ha puntato, anzitutto, alla comprensione delle competenze del management e degli amministratori scelti, ovviamente con riferimento al campo d’azione delle società, ma anche in generale la valutazione fattuale del loro profilo per gli elementi rilevanti in relazione alle mansioni richieste. Questa valutazione quindi non comprendeva solo le competenze tecniche specifiche o l’analisi dei titoli di studio e degli eventuali ruoli accademici, ma anche elementi qualificanti di natura diversa, come l’aver avuto esperienza nelle relazioni istituzionali e amministrative, o la capacità comprovata di valutazione dei rischi.

Questione di genere, in un paese di “avvocati”

Nei 26 consigli di amministrazione le donne sono circa il 40% dei presenti. Tuttavia, la presenza femminile cala drasticamente se si guarda ai ruoli apicali. Solo 2 presidentesse e un’amministratrice delegata risultano nel novero sul totale del campione. Circa 4 consiglieri su 10 sono laureati in legge e rappresentano una quota totale che supera la somma di ingegneri ed economisti. Le esperienze manageriali pregresse sono patrimonio di circa un quarto dei consiglieri. Come notano giustamente gli estensori della ricerca:

il dato può rilevare l’attenzione/preoccupazione per gli aspetti legali/normativi, dall’altro confermerebbe un approccio piuttosto tradizionale al profilo di Consigliere certamente meno orientato al contributo attivo su temi finanziari, industriali e di business.

Essendo tutte nomine di natura politico amministrativa, è interessante notare che circa il 15% degli amministratori ha avuto ruoli politici a livello locale, mentre il 3,4% ha svolto ruoli di quel tipo a livello nazionale. Se si considerano invece i ruoli istituzionali, le percentuali salgono rispettivamente al 35% (locali) e al 18% (nazionali). È fin troppo facile notare che:

Il fatto che il 72,6% del campione (85 su 117) ricopra o abbia ricoperto incarichi istituzionali o politici a livello nazionale o locale sembrerebbe indicare la rilevanza del criterio di appartenenza nella selezione dei Consiglieri di società a capitale pubblico non quotate.

Le competenze e gli emolumenti

Oltre il 60,7% del campione considerato nonpossiede esperienze come membro di un Consiglio di Amministrazione in società in qualche modo paragonabili.
Il dato – si legge nella ricerca – è critico perché un’esperienza adeguata nel ruolo di Consigliere fa ben comprendere i compiti, le responsabilità ed i rischi connessi ed è utile nel generare una dinamica positiva nell’organo consiliare. L’interazioni tra obblighi

Dividendo il campione tra uomini e donne si nota un’incidenza percentuale quasi doppia degli uomini di “competenza adeguata” (21% vs 10,4%), mentre i profili di “competenza sufficienti” hanno un maggior livello di equivalenza tra i generi (28,6% vs. 23,3%).
E’ possibile che ciò sia dovuto ad un ingresso molto significativo di Consiglieri di genere femminile negli ultimi anni ed alla iniziale difficoltà di trovare, sufficientemente diffuse, le competenze “distintive” necessarie.
Quindi, a parità di numero di Consiglieri, lo spazio di miglioramento possibile, nel dotare i Consigli di un livello maggiore e meglio distribuito delle competenze base identificate e necessarie, è veramente molto grande.

 

A completare uno scenario più ricco di ombre che di luci, la questione dei compensi che, coerentemente con profili di competenze e professionalità complessivamente inadeguate, sono sensibiilmente più bassi rispetto alla media di ciò che offre il mercato per posizioni di analoga complessità e responsabilità. Infatti, gli emolumenti di Presidenti e Consiglieri sono assolutamente inadeguati ai rispettivi compiti, responsabilità e rischi associati ai ruoli. Mentre le retribuzioni dei Presidenti con ruolo esecutivo e degli Amministratori Delegati sono, anch’esse, significativamente inferiori a quelle di coloro che ricoprono ruoli equivalenti in società private ed anche in società a partecipazione mista pubblico/privato.

Tutto ciò, conclude la ricerca, non può che generare un effetto di selezione avversa per cui le competenze migliori, ammesso che siano effettivamente ricercate, non troverebbero elementi di attrattività economica a ricoprire i ruoli indicati.

 

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