Grandi imprese

crisi della rappresentanza? Confindustria ne sa qualcosa

23 Ottobre 2015

Pochi giorni fa, con una trattativa lampo è stato rinnovato uno dei contratti collettivi più importanti del nostro settore manifatturiero, quello dei chimici. Davvero un risultato sorprendente se si pensa ai recenti proclami di Squinzi in materia e alla sua tenace opposizione a Susanna Camusso che ha sempre ripetuto come  la disponibilità della Cgil ad entrare nel merito della riforma del modello contrattuale fosse subordinata alla chiusura delle tante ( troppe) vertenze aperte.  Dario di Vico, attento osservatore di questi fenomeni, ha espresso garbatamente il suo dissapunto per l’ennesima occasione mancata: il rinnovo porterebbe aria di restaurazione dopo il bellicoso pentalogo di Viale dell’Astronomia e potrebbe causare un effetto trascinamento su altri tavoli aperti nel nome di un gattopardismo duro a morire.

La Cgil ha ovviamente manifestato la sua soddisfazione.

La Fiom per ora tace ma di certo non plaude ed è inimmaginabile che per Landini questo punto di equilibrio possa essere un riferimento.

L’accordo introduce una moratoria per tutto il 2016 sugli aumenti e si tratta  obbiettivamente di una mediazione pesante.

Per il resto è un contratto  nel solco di una tradizione che a ben vedere di tradizionale non ha nulla se comparata a molti altri settori.

Rafforzamento delle relazioni sindacali, partecipazione, alcuni elementi di indiscutibile novità come le ferie solidali,  scambi più o meno propri in direzione del welfare: questi in sintesi i contenuti,  come sempre interpretabili a seconda delle sensibilità politiche, soprattutto da parte di chi la contrattazione la giudica senza farla sporcandosi le mani.

In pochi ricordano che il precedente rinnovo fu ben più traumatico in quanto lo stesso Squinzi allora patron della Mapei chiese e ottenne il recepimento di molti aspetti del defunto protocollo sulla produttività voluto da Mario Monti.

Li ottenne, e sarebbe bene se ne ricordasse ora, proprio grazie ad un modello di relazioni industriali che, aldilà che una volta vinca una o l’altra parte, non poteva mai  essere messo in discussione nella sua autonomia.

In Cgil il dibattito fu alquanto acceso e aspro.

I chimici vantano una tradizione molto forte in materia di negoziazione  nei loro settori, negoziazione  che spesso è stata innovativa talvolta temeraria; rappresentano  storicamente l’antitesi dei metalmeccanici: la ragione e il cuore nell’essere e fare sindacato.

Ma aldilà del merito e dei singoli capitoli su cui, in queste ore, sono chiamati i lavoratori a esprimersi, di particolare interesse è la storia non scritta in quelle pagine,  quella di una associazione, Confindustria, in grave crisi di identità.

Ci si accanisce un giorno sì e l’altro pure su  Cgil, Cisl e Uil  affermando  come siano ormai corpi estranei ai lavoratori che dicono di rappresentare, invisi all’opinione pubblica anche a seguito di una campagna di diffamazione a cui non hanno saputo contrapporre, anche sul piano comunicativo,  una resistenza credibile.

Nulla si dice  mai ( a partire dagli organi di stampa) sui grandi mali che affliggono il fronte datoriale che assomiglia sempre più ad un insieme di monadi incapaci di far sintesi.

L’elemento quasi buffo è che in questa fase storica reali ragioni di insoddisfazione o divisione non si intravedono. Anzi. Qualcosa si muove sul fronte della ripresa, ma soprattutto si registra una solida e fruttifera alleanza con il potere, che Amato e Berlusconi seppero  dichiarare e, all’epoca, solo sporadicamente attuare.

Se i sindacati stanno prendendo sonori schiaffi dal Governo, lo stesso non si può certo dire per il  padronato che ha incassato sgravi contributivi a pioggia, per non dire di tutto il JobsAct che ha avverato i sogni di tanti imprenditori, dal demansionamento all’abolizione dell’articolo 18.

In barba a questo quadretto idilliaco di contesto ma soprattutto  a distanza di poche ore dalla consegna di una vera e propria dichiarazione di guerra alla triplice sindacale  da parte del suo presidente, una tra le più importanti e strategiche  falangi dell’esercito ha  pensato bene di firmare una pace lampo  col nemico andando anche a elargire decorosi aumenti salariali.

#abbiamoscherzato potrebbe essere l’ hashtag che racconta il capitombolo di credibilità di Squinzi  che nel suo ruzzolare a valle ci ha mostrato come la crisi della rappresentanza sia un male endemico di tutti i corpi intermedi e poco importa che la vulgata la riconduca solo alla politica e alle grandi centrali sindacali.

Questa piaga è  ormai pacificamente divenuta la cifra distintiva della nostra società attuale dove si impone la disintermediazione (di cui Renzi è maestro) ed esce sconfitto chi deve alla funzione di  “filtro intelligente” la sua stessa esistenza.

Probabilmente anche le imprese che pagano l’iscrizione a Confindustria (sarebbe utile e  giusto conoscere quali e quante sono, capire negli ultimi anni il trend di nuove iscirizioni, qualora ve ne siano,  ma soprattutto quante non appartengono a nessuna associazione di rappresentanza e,come tanti lavoratori, ne fanno a meno ) partecipano ai convegni ma poi guardano al loro interesse che può anche coincidere  con quello di avere un contratto firmato e relativa pace social sindacale annessa.

Oppure più semplicemente  questi soggetti credono che dialogare, anche partendo dalla tutela di interessi contrapposti, sia più produttivo e in fondo innovativo che monologare.

Nel primo caso se ci si arriva a comprendere si può approdare alla condivisione .

Nel secondo si può ambire al massimo ad aver sempre ragione, come i più forti, ma anche come i pazzi.

 

 

 

 

 

 

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