Grandi imprese
Fincantieri vs Finmeccanica, all’ombra del ponte scoppia la guerra tra boiardi
Una foto dell’ad di Fincantieri Bono che se la ride sotto i resti del Ponte Morandi a Genova gira sul web mentre divampa lo scontro fratricida tra la stessa Fincantieri e l’ex Finmeccanica. Una vicenda che dimostra come il controllo del Governo e dei ‘cittadini’ sulle ‘proprie’ aziende, che Di Maio e Toninelli sembrano dare per scontato, non lo sia affatto. Il controllo di cui ci sarebbe bisogno è di ben altra natura e non passa attraverso il vecchio sistema dei boiardi di Stato.
Dopo la tragedia di Genova il Governo, in particolare la componente Cinque Stelle, ha insistito da subito sulla necessità di affidare la ricostruzione del ponte a un gruppo pubblico, nella fattispecie Fincantieri, che garantisse al Governo pieno controllo sul suo operato. In capo ad Autostrade, che da questo punto di vista si è rivelata poco affidabile, rimarrebbe l’onere di mettere i capitali, mentre ad ArcelorMittal, che in questi giorni si insedia ufficialmente all’ILVA, forse spetterà invece l’onore di fornire l’acciaio necessario alla costruzione del ponte, un particolare che nei giorni scorsi potrebbe avere avuto una qualche influenza sulla decisione del gruppo indiano di scendere a patti col sindacato dopo mesi passati all’insegna dell’hic manebimus optime.
La scelta su Fincantieri sembra essere stata il frutto di un’autocandidatura da parte del vulcanico amministratore delegato, Giuseppe Bono, inamovibile padre padrone della società, il quale il 7 settembre aveva dichiarato di aver pianto dopo aver saputo del disastro. Bono assicura che il suo gruppo ha le competenze per costruire l’opera, avendo già nel portafoglio commesse di Fincantieri Infrastructure 4 ponti da realizzare in Belgio. L’ad inoltre ha dichiarato che le componenti del ponte verrebbero realizzate nel cantiere genovese di Sestri Ponente, che meno di 10 anni fa lui stesso aveva cercato di chiudere. Si tratta peraltro di un cantiere adibito alla costruzione di navi da crociera, tagliato in due dalla ferrovia Genova-Ventimiglia e non è chiaro come e in quali spazi potrebbe essere svolto il lavoro.
La scelta di un’azienda pubblica per realizzare un’opera così delicata dopo l’evidente fallimento della gestione da parte del concessionario privato appare di buon senso e tuttavia le cose non sono mai così semplici come la politica è solita presentarle. Fincantieri è ormai una multinazionale quotata in Borsa, con 20 cantieri, di cui soltanto 8 in Italia e il 60% dei suoi 20 mila dipendenti all’estero. In più i fatti dimostrano che la proprietà pubblica è condizione necessaria ma non sufficiente per garantire che un’impresa venga gestita nell’interesse pubblico. Gli esempi di aziende formalmente pubbliche ma dirette a beneficio di cricche di potere e compagni di merende di questo o quel partito in lotta tra di loro infatti si sprecano. Come vedremo Fincantieri e Leonardo, la holding di Stato della Difesa, un tempo Finmeccanica, ce ne danno una plastica rappresentazione.
Ma Bono piange o ride?
Il 24 agosto il Meditelegraph, appendice specializzata in economia marittima del quotidiano genovese Il Secolo XIX, acquisito di recente dal Gruppo Repubblica/l’Espresso, pubblica l’articolo La sfida di Fincantieri: ‘Il ponte possiamo farlo noi’. Il pezzo contiene le dichiarazioni rilasciate da manager e autorità nel corso di un sopralluogo effettuato nella zona del disastro quel giorno ed è corredato da una gallery in cui compare una foto con al centro Bono, insieme all’ad di Ansaldo Energia (nonché ex capo della Confindustria genovese) Giuseppe Zampini che se la ridono sotto i resti di Ponte Morandi. Le risate sarebbero state frutto di una battuta di Bono, divertito dalla possibilità che il moncone di ponte sopra di loro si abbatta sulle loro teste. Nelle settimane successive quella foto gira e in molti si prendono la briga di stigmatizzare i manager genovesi che sghignazzano tra le macerie, ma il dito accusatore viene puntato in particolare contro Bono. Perché?
Calabrese, 74 anni, dal 1993 in Finmeccanica, dove per un breve periodo (2000-2002) ricopre l’incarico di amministratore delegato, Bono nel 2002 viene sostituito da Pierfrancesco Guarguaglini, nominato dal governo Berlusconi e mandato al suo posto a dirigere Fincantieri, secondo alcuni per intercessione dell’allora potentissimo Claudio Scajola (GianniDragoni.it120717). Da quel momento pare che uno dei principali obiettivi del manager, oltre ovviamente alla crescita dell’azienda affidatagli, sia prendersi una rivincita per quel torto subito. E’ evidente infatti che lo scambio di poltrone tra Guarguaglini e Bono per il primo abbia rappresentato una promozione per il secondo, viceversa, un ragguardevole passo indietro. Bono, ex socialista vicino a Giuliano Amato, si muove sempre con un occhio attento al padrone politico di turno. In particolare, negli anni in cui a governare è quel centrodestra che lo ha defenestrato, Bono reagisce coltivando un rapporto preferenziale con la Lega di Umberto Bossi. Nel 2010 il tesoriere della Lega Belsito, quello dei 49 milioni di euro per intenderci, nato a Genova ma di origine vibonese come Bono, diventa vicepresidente di Fincantieri proprio nel momento in cui si accende lo scontro con la FIOM di Landini, da poco segretario, perché l’ad vorrebbe ridimensionare o chiudere 3 degli 8 stabilimenti italiani, tra cui, appunto, quello di Sestri Ponente. Belsito, secondo Bono, in Fincantieri non avrebbe ‘ricoperto alcun incarico operativo’, mentre secondo il giornalista del Sole24Ore (e collaboratore del NYT) Claudio Gatti avrebbe svolto il ruolo di intermediario con la marina libica per la vendita di alcuni pattugliatori – secondo i giudici, in cambio di un congruo ‘riconoscimento’ (GradoZeroBlog060914, è il blog del giornalista). E si sarebbe adoperato anche per far assumere l’ex autista e capo della sicurezza di Bossi come dirigente, poi però andata in fumo. Secondo il quotidiano La Verità oggi Bono intratterrebbe i propri rapporti con la maggioranza di governo attraverso Stefano Buffagni – che pare stia a Di Maio come Luca Lotti stava a Renzi – e un rapporto diretto con Salvini, forse a ricordo dei rapporti di un tempo, per quanto riguarda la Lega. Ma allo stesso tempo starebbe imbarcando anche Andrea Manciulli, deputato toscano del PD e presidente della delegazione parlamentare italiana presso la NATO, nonché amico personale dell’ex candidata socialista alle presidenziali francesi del 2007, Ségolène Royal, come ambasciatore nell’ambito dell’operazione Naval Group, di cui diremo (GianniDragoni050418). A luglio poi Bono ha arruolato perfino l’ex rivale Guarguaglini, uscito da Finmeccanica malconcio nel 2011 dopo una vicenda di tangenti, come consulente per i rapporti coi Paesi del Golfo (forse anche togliendosi una soddisfazione). A questa capacità diplomatica Bono unisce però una certa noncuranza degli effetti delle proprie azioni sull’ambiente circostante, che gli è valsa anche un numero cospicuo di nemici.
Fincantieri pubblica?
Sotto la direzione di Bono Fincantieri, dopo un primo tentativo nel 2006-2007 (Prodi 2) fallito grazie all’opposizione della FIOM prima e all’incipiente crisi mondiale poi, nel 2014 (Renzi) finalmente approda in Borsa, con risultati peraltro abbastanza deludenti. Da allora Fintecna mantiene il controllo col 71%, ma il 29% è posseduto dal mercato. Fintecna è un’azienda del MEF, oggi diretto da Giovanni Tria, uno dei ‘commissari’ di Mattarella nell’esecutivo, che ai richiami del mercato finora si è dimostrato molto sensibile. Inoltre la società che dovrebbe costruire il nuovo ponte a Genova, Fincantieri Infrastructure, come il sito specializzato Startmag120918 ricava dalla lettura dell’unico bilancio (l’azienda è nata il 28 marzo 2017), avrebbe soltanto 7 addetti (1 dirigente, 2 quadri e 4 dipendenti) e finora avrebbe al suo attivo solamente una commessa per la realizzazione di 4 piccoli ponti in Belgio (poco più di 100 metri), mentre in arrivo ci dovrebbe essere un altro ponte da 1300 tonnellate sul Ticino a Vigevano. Dunque la società potrebbe operare al massimo come stazione appaltante, distribuendo la realizzazione dei vari lotti dell’opera a ditte private, una strategia in cui peraltro Fincantieri con la gestione Bono si è specializzata. Le sue navi infatti ormai da tempo sono realizzate da una forza-lavoro costituita per due terzi da ditte d’appalto, perlopiù piccole e provenienti dal Meridione e dall’estero. Al cantiere di Sestri Ponente i dipendenti diretti di Fincantieri ormai si sono ridotti a circa 650, perlopiù impiegati e addetti ai servizi di contorno alla produzione (guardiafuoco, vigilanza ecc.), mentre le navi vengono costruite materialmente dalle ditte d’appalto, che nei picchi della produzione portano il numero dei lavoratori del cantiere fino a 2500-3mila unità, con una composizione della forza-lavoro che arriva a superare le 50 nazionalità, dai saldatori croati agli addetti ai rotoli del Bangladesh. Questa strategia, che si è dimostrata efficace in termini di riduzione del costo del lavoro, non lo è stata altrettanto però per quanto riguarda il controllo del processo produttivo, con riflessi sia sul prodotto sia sulle condizioni di lavoro, su cui negli anni passati è intervenuta anche la magistratura e si era parlato anche di possibili infiltrazioni criminali nello stabilimento di Marghera (VeneziaToday180314).
Come riporta AGI130918, dopo la pubblicazione di un articolo su IlFatto130918 (paywall) che, oltre alla vicenda delle risate di Bono sotto il Ponte, si occupava proprio di Fincantieri Infrastructure, il ministro Toninelli ha fatto sapere che alla ricostruzione potrebbe partecipare anche Italferr, società di ingegneria di Trenitalia, che si occupa (ironia della sorte) di Alta Velocità, inclusa la linea della Val di Susa. Italferr ha realizzato alcuni ponti ferroviari in Italia e all’estero, peraltro di dimensioni e con caratteristiche sensibilmente diverse da quelle dell’opera che dovrà essere costruita a Genova. L’anno scorso la società si è aggiudicata la gara per la progettazione e la realizzazione di un ponte strallato in India, l’Anji KhadBridge, la cui lunghezza, 750 metri, secondo quanto riportato dai siti Italferr e FS, si avvicinerebbe a quella del Morandi (circa 1100 metri), anche se secondo i dati ricavati da fonti indiane l’opera in realtà sarebbe lunga 290.
Lo scontro con l’ex Finmeccanica
C’è una vicenda che insinua qualche dubbio sul controllo esercitato effettivamente dal Governo sulle proprie aziende ed è quella dello scontro in atto tra la stessa Fincantieri e l’ex Finmeccanica, oggi Leonardo, diretta dal genovese Alessandro Profumo, ex ad di Unicredit e presidente di MPS. Vediamo di ricostruire la vicenda dall’inizio, una vicenda che – per inciso – fa luce anche su un argomento, quello delle impervie relazioni diplomatiche di questo ultimo anno tra l’Italia e la Francia (Libia, Niger), di cui mi sono occupato altrove (PuntoCritico040918).
Da tempo nel mirino di Fincantieri ci sono i Chantiers de l’Atlantique, gioiello della cantieristica francese di proprietà di STX France, che in passato lo Stato non ha esitato a nazionalizzare parzialmente (Sarkozy) pur di salvarli nei momenti di difficoltà. Quei cantieri servono al gruppo italiano per realizzare l’airbus dei mari, un progetto europeo per la costruzione di navi da crociera di nuova concezione. A febbraio Bono si era assicurato il 50% di STX, dopo un iter travagliato che aveva visto l’ex presidente francese François Hollande dare il via libera, poi, durante la campagna elettorale per le presidenziali, quasi rimangiarsi gli impegni. Alla fine si è giunti alla firma dell’accordo, ma a giugno il neoeletto Macron, ancora una volta, ha deciso di bloccare l’operazione e successivamente di proporre all’Italia uno scambio: Parigi darebbe il via libera definitivo all’ingresso di Fincantieri in STX se in cambio l’Italia darà vita, insieme alla Francia, a un’alleanza industriale per la produzione di navi militari, protagoniste Fincantieri (che oltre alle navi da crociera è specializzata proprio in quel segmento) e la francese Naval Group. Il problema è che il 25% di quest’ultima è in mano a Thales, cioè la Finmeccanica francese.
Fincantieri oggi produce navi per la Marina Militare, ma di fatto costruisce solo il guscio, mentre è costretta d affidarsi a ditte specializzate, tra cui le aziende del Gruppo Leonardo, per quanto riguarda la sistemistica e l’armamento. Dopo l’avvio dell’operazione con Naval Group però Bono sta facendo di tutto per emanciparsi dalla holding della Difesa e rendersi autosufficiente nei rapporto con Thales tagliando fuori Profumo, che non sembra gradire. Ad agosto questa strategia lo ha portato a effettuare un vero e proprio colpo di mano, acquistando il 98,5% di Vitrociset, società romana leader nei settori della sistemistica e ICT e dell’aerospaziale. Ma un mese dopo Leonardo, azionista all’1,5% della società, esercitava il proprio diritto di prelazione sottraendone il controllo a Bono, che a quel punto sarebbe andato su tutte le furie, telefonando proprio a Buffagni e a Salvini per cercare di mettere in salvo il suo acquisto. Invano. Sempre secondo La Verità la decisione di Leonardo sarebbe stata particolarmente gradita a Washington, dove la crescita dell’influenza francese in ambito militare è come un pugno in un occhio. Bisogna ricordare tra l’altro che anche in Fincantieri del resto le esigenze atlantiche sono ben rappresentate. Presidente del gruppo Fincantieri (e dell’ISPI) è Giampiero Massolo, ex capo del DIS, l’organo che coordina i servizi segreti italiani e candidato a Ministro degli Esteri prima con Monti e poi con lo stesso Conte, che secondo alcuni sarebbe stato messo lì proprio per garantire gli affari americani della società.
D’altra parte la collaborazione con Naval Group, oltre che risentire della recente evoluzione delle relazioni tra Roma e Parigi a proposito di immigrazione e Libia, preoccupa alcuni settori del capitalismo italiano per le ricadute negative che essa potrebbe avere per l’Italia sia dal punto di vista economico sia da quello militare. Lo stesso Guarguaglini, prima di essere ‘assunto’ da Bono esprimeva, sempre sul blog di Gianni Dragoni, alcune ragionevoli obiezioni, da uomo del mestiere, alla strategia di Fincantieri. Per quanto riguarda l’airbus dei mari – diceva l’ex capo di Finmeccanica (GianniDragoni 270917) – ‘Non è un’espressione azzeccata. Gli aerei commerciali sono una produzione di serie su larga scala, le navi da crociera sono pezzi unici, un lavoro di alta sartoria o gioielleria. Le navi da crociera non si possono paragonare a Airbus. Perché l’attività di Airbus, la costruzione di aerei commerciali, prevede uno sforzo finanziario notevole da parte della società costruttrice per lo sviluppo di un nuovo prodotto. Innanzitutto va studiato bene il mercato, le esigenze delle aerolinee e quali nuove tecnologie utilizzare e bisogna valutare quale quantità di aerei si presume di vendere. Poi, durante lo sviluppo, inizia la commercializzazione. Occorre ottenere una mole di ordini che permetta una produzione elevata, il tutto per riuscire ad ammortizzare i costi di sviluppo e successivamente allestire un’assistenza postvendita adeguata’. Al contrario nel segmento cruise – spiega ancora Guarguaglini – ‘Una nave da crociera invece è ordinata da uno specifico armatore. Il quale chiaramente impone il proprio stile. Perfino un armatore che possiede più linee impone stili diversi. Infatti l’armatore più famoso, Micky Harrison, non accetterebbe mai che le sue linee abbiano navi uguali. Per esempio nel suo gruppo la Holland American Line ha uno stile diverso da Carnival, che è diverso dalla Costa. Gli armatori si aspettano l’unicità del prodotto, un costruttore che abbia un’alta tecnologia per soddisfare i desideri dei clienti finali, che sono i crocieristi. Alta affidabilità nel costruirla e nel consegnarla. Nella nave da crociera i costi di progettazione vengono recuperati tutti nel costo della nave, in genere gli armatori ne ordinano da due a quattro. Pertanto il costruttore si può paragonare a un sarto di alta qualità e capacità. E Fincantieri è sicuramente la società migliore del momento in questo. Gli altri hanno fatto dei tentativi, per esempio i tedeschi, ma non hanno raggiunto lo stesso livello’.
Ancor più efficaci appaiono le osservazioni di Guarguaglini sull’alleanza con Naval Group, che dipinge correttamente come un’alleanza squilibrata a beneficio della Francia: ‘i francesi, anche escludendo le portaerei, hanno un mercato interno superiore del 50%-70% all’Italia. Inoltre hanno una capacità elevata di vendere in giro per il mondo, grazie al supporto del governo francese. Dal punto di vista tecnologico non sono inferiori alla Fincantieri (…) DCNS (vecchio nome di Naval Group, NdR) ha sempre avuto una capacità sistemistica che Fincantieri non ha. E’ abbastanza strano che in Italia si pensi di poter prendere il controllo di queste attività’. Insomma – conclude questa volta Dragoni – ‘mettere insieme le due attività ed esercitare “insieme” il controllo significherebbe probabilmente consegnare ai francesi il controllo sulle attività italiane nelle navi militari. Insomma, la controfferta francese per dare il via a Fincantieri all’acquisto di STX rischia di essere una trappola per l’industria italiana cantieristica e anche della difesa’.
Chi controlla?
Non essendo appassionato di complottismo trovo questa storia interessante non per le trame dello scontro tra Bono e Profumo. Né posso con certezza affermare – come sembrerebbe suggerire l’articolo su Il Fatto del 13 settembre che abbiamo citato – che la diffusione della foto che inguaia l’ad di Fincantieri sia anche opera di ambienti vicini a Leonardo per metterne in crisi l’immagine. Potrebbe anche semplicemente trattarsi di un tentativo di mettere il Governo in difficoltà rispetto all’affidamento diretto di un’opera importante senza passare attraverso i meccanismi di gara previsti dalle norme europee. Il motivo per cui questa storia riveste un interesse è piuttosto che essa fa luce – per riallacciarmi all’osservazione di partenza – su una situazione molto più complessa di quanto potrebbe apparire (e di come la mette il Governo). Ne viene fuori come anche la gestione di aziende controllate o di proprietà al 100% degli Stati sia spesso poco trasparente e guidata da esigenze che poco o nulla hanno a che fare con quelli della collettività, si tratti di interessi personali, di cricche che operano più o meno alla luce del sole o di gerarchie politiche e militari che ragionano in termini di potenza. Non si tratta ovviamente di dedurne che pubblico e privato in generale si equivalgono, che sarebbe una sciocchezza. Tuttavia il problema di come i lavoratori e i comuni cittadini, invece che i boiardi di Stato, possano esercitare un effettivo controllo democratico sull’economia, inclusi anche ambiti sensibili come la Difesa, è in campo ed è tutto da risolvere. Magari bisognerebbe che qualcuno avesse il coraggio di cominciare a porlo. A partire da sinistra.
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