Grandi imprese
Alitalia, cronaca di un disastro annunciato
Mentre il governo interviene per salvare la banca più antica del paese, lo stesso si agita – o se vogliamo usare dei termini più politically correct usa la propria moral suasion – per far sì che altre banche (nella fattispecie Intesa e Unicredito) usino i soldi degli azionisti per salvare per la terza volta, di nuovo, la moribonda Alitalia. Mentre nel primo caso la posizione del Governo potrebbe anche essere compresa – forse anche condivisa, benché in un’economia di mercato efficiente, chi sbaglia, paga – nel caso di Alitalia sono convinto che l’intervento governativo (e delle banche) sia solo un accanimento terapeutico, ma più che per ragioni finanziarie per ragioni essenzialmente industriali. Come cerco di spiegare nel seguito, Alitalia, così com’è, rappresenta un unicum in Europa e non risponde in alcun modo alle logiche del mercato aereo, per lo meno, così come strutturato oggi. Siamo, se non ricordo male, al terzo giro di salvataggio in meno di dieci anni e ancora una volta vengono ignorate le logiche industriali. La prima fu con i “Capitani Coraggiosi” che il buon Berlusca mise in campo, sempre usando la moral suasion e guarda caso in periodo pre-elettorale: pur di mantenere in Italia la proprietà (chissà poi perché?) della “compagnia di bandiera”, quando il Governo Prodi era riuscito a rifilare la “patacca” ad Air France, che avrebbe addirittura pagato un paio di miliardi di euro per averla. La seconda fu quella, di appena un paio d’anni fa, dell’entrata trionfale di Etihad sponsorizzata dalle banche creditrici e da Montezemolo che, infatti, ne è poi diventato Presidente. Oggi siamo al terzo giro. Ancora una volta assistiamo alla moral suasion del governo, affinché altri (in questo caso le banche) coprano buchi che, senza interventi strutturali di cambio di direzione, sono comunque destinati a riaprirsi a breve. Mi chiedo – ahimè retoricamente – perché, alla luce di quanto accaduto negli ultimi dieci anni, nessuno voglia imparare da quanto altre compagnie hanno già vissuto. È infatti evidente che il trasporto aereo è un settore globale per definizione e che quindi non si possano addurre scuse di peculiarità del nostro mercato: il futuro di Alitalia dipenderà dunque solo ed esclusivamente dalle logiche di competitività industriale che rappresenteranno la discriminante tra la sopravvivenza o meno della compagnia. Mi permetto di prenderla un po’ alla lontana, ma credo che la cronistoria del settore possa essere utile per molti di coloro che in questi giorni si affannano al capezzale della “compagnia di bandiera” (chissà poi perché debba essere definita così visto che è privata?). Negli anni ‘80 anni in USA nasce per la prima volta una compagnia low cost, la People Express; a quel tempo vivevo a New York e ricordo l’entusiasmo con cui molti, io tra questi, prenotavano viaggi sulla West Coast con poco più di 100 dollari quando andarci con Pan Am o con TWA – che allora erano le “compagnie di bandiera” USA – ne costava oltre 500. People express fallì qualche anno dopo probabilmente per eccesso di investimenti in una crescita troppo rapida che cozzarono con le crisi del settore degli anni 90, ma nel frattempo aveva aperto una breccia nel mercato del trasporto aereo. Un mercato fino ad allora di tipo oligopolistico considerato di élite e per ricchi, che fu scosso da una ventata di libera competizione che non si è mai arrestata.
Negli anni successivi fattori esogeni e di mercato (la prima guerra del golfo, il boom dei prezzi petroliferi, le crisi economiche del Far East e del Sud America) ma anche molti errori manageriali in termini di mancato adeguamento della struttura dei costi ad un mercato diventato iper competitivo, crearono ferite spesso incurabili nei principali attori del mercato aereo tanto che, alcuni trai nomi più blasonati – Pan Am, TWA, Varig solo per citarne alcuni – sparirono del tutto, mentre altri British, United, American, Delta furono costretti a pesantissimi tagli nella struttura dei costi spesso ottenuta solo grazie al passaggio da procedure concorsuali (il Chapter 11 in America). Altri, ad esempio Swissair, Sabena e KLM fallirono pur senza sparire e vennero fagocitate da uno dei tre principali operatori veramente globali che vennero a formarsi sul mercato Europeo: British, Lufthansa e Air France. In quel periodo in Italia si stava costruendo l’alta velocità, elemento che il management di Alitalia sottostimò, ma che alla fine risultò letale per la “gallina dalle uova d’oro”: la tratta Roma-Milano. Lo stesso management, forte della logica (aberrante) del controllo nazionale, anziché cercare un partner complementare alle proprie, limitate forze e caratteristiche, si limitò ad un accordo parziale di scambio azionario, prima con KLM e poi con Air France, pretendendo di presentarsi al tavolo delle trattative come un pari grado (basteva guardare network e dimensioni della flotta per capire quanto tale affermazione fosse illusoria). Nel frattempo erano (ri)apparse sul mercato le low cost: EasyJet, Ryan Air, solo per nominare quelle più conosciute, che, a differenza dei grandi vettori internazionali, avevano scelto la strategia del punto a punto, tagliando tutto il tagliabile, utilizzando scali minori, del tutto impensabili per chi ha esigenze di spostamenti rapidi ed efficienti, ma che, con un’abile segmentazione di mercato – riuscivano ad offrire al cliente low cost il minimo indispensabile salvo poi caricare a prezzi tutt’altro che low qualsiasi extra rispetto al puro trasporto. In questo modo tali compagnie sono riuscite a conquistare un mercato i cui volumi hanno continuato e continuano a crescere. Da qui il dramma industriale di Alitalia: troppo povera e con una flotta e quindi un network troppo limitato, anche prima delle ultime rinunce, per palesarsi su un mercato europeo avviato verso un assetto tripolare (British, Lufthansa, Air France) come cacciatore, si è per troppo tempo auto esclusa dal consolidamento, rifiutando di essere integralmente acquisita da uno dei tre big (cosa che nel frattempo è accaduto a Iberia, Swiss, LOT, Sabena, Luxair); al contempo afflitta da una struttura di costi insostenibile, soprattutto quelli di un personale tutt’ora abituato a condizioni che in altre compagnie non sognano nemmeno per proporsi come low cost come ha invece fatto Sabena. A questi problemi industriali se ne sono aggiunti diversi, diciamo di origine politica: prima lo sviluppo di Malpensa che, in una prima fase, addirittura prevedeva il trasferimento anche dei voli basati a Linate allo scalo varesino (zona Lega Nord per intendersi). Poi la scelta opposta di concentrare i voli a lungo raggio a Fiumicino (in zona politicamente più vicina ad altri partiti) con l’unico risultato di aver così perso anche quella già sottile quota di mercato tra i viaggiatori d’affari, che, se debbono per forza fare uno scalo, tra Fiumicino e Francoforte, Parigi o Londra, non hanno dubbio alcuno. Da ultimo, come parte dell’accordo con Etihad, la teorica promessa di aprire Linate ai voli verso Abu Dhabi, promessa che avrebbe dovuto essere propedeutica alla suddivisione del globo tra le rotte verso l’oriente, a gestione Etihad e di quelle verso le Americhe, a gestione Alitalia. Ecco dunque che il salvataggio di Alitalia, sempre che sia ancora possibile, non può che passare da una soluzione industriale che ne modifichi radicalmente il profilo competitivo ed industriale e non potrà in alcun modo venire dall’ennesimo pannicello caldo di tipo finanziario. Due sono le logiche di business oggi prevalenti sul mercato. Il primo, è il modello low cost che, soprattutto nel mercato europeo, lavora con rotte punto a punto. Per poter competere su questo mercato Alitalia dovrebbe tagliare radicalmente i suoi costi operativi, rinegoziare il contratto con personale viaggiante e di terra, digitalizzarsi, rinegoziare le tariffe aeroportuali dei suoi principali hubs (Linate, Fiumicino e Malpensa) ed iniziare a volare non più sui principali aeroporti europei ma su quelli di seconda fascia. Il numero degli aerei dovrebbe aumentare (ma chi ci metterebbe i soldi per acquistarne di nuovi?) e tutto il posizionamento di mercato cambiare. Siamo, anche politicamente e sindacalmente, pronti a creare la Ryanair italiana?
L’alternativa sarebbe quella di entrate a fare parte di uno dei tre grandi gruppi. Essendo rimasta una delle poche “zitelle” sul panorama europeo, prima di pensare che questa sia una soluzione percorribile, bisognerebbe capire chi, tra i tre cavalieri, potrebbe essere interessato a farsi carico di Alitalia ed a quali condizioni. Probabilmente l’unico residuo elemento di possibile interesse per i (recalcitranti) pretendenti, potrebbe essere il mercato dei viaggiatori di affari, soprattutto del nord Italia, che ancora non sono fidelizzati ad uno dei tre gruppi. Potrebbe esistere in verità una terza ipotesi, tutta da capire e studiare, che se non erro già il governo Prodi aveva cercato di percorrere e che chiamerei “l’ipotesi cinese”: fare di Alitalia un vettore – verosimilmente di proprietà di una compagnia cinese – focalizzato, se non quasi del tutto dedicato, alle tratte Europa-Cina, area questa dove i volumi di viaggiatori sono in crescita esponenziale. In questo caso le rotte europee resterebbero operative ma soprattutto come base per alimentare il flusso che dagli hubs principali partirebbe da e verso la Cina. Ci vorrebbero ovviamente investimenti cospicui per l’acquisto degli aerei a lungo raggio che andrebbero a servire non solo le destinazioni cinesi tradizionali ma anche e soprattutto quelle delle grandi magalopoli cinesi dell’entroterra. Non va poi sottostimato il problema della concorrenza europea che, come ben sappiamo, ha bloccato la partecipazione di Etihad al 49% al fine di evitare che Alitalia perdesse la qualifica di linea europea. Visto che di fatto con l’ “ipotesi cinese” si cercherebbe di andare a fare concorrenza (soprattutto a Lufthansa), questa è una partita che non andrebbe sottostimata. Da ultima resta la soluzione draconiana che porterebbe Alitalia al fallimento ed a sparire dal mercato (come ad esempio accaduto a Varig in Brasile ed ad Olympic in Grecia), ipotesi che in questo momento non andrebbe esclusa per definizione. Comunque la si voglia mettere il futuro di Alitalia senza cambi radicali che però sono di tipo industriale e non finanziario, pare segnato. Cercare di allungare ulteriormente l’agonia di un vettore ormai fuori dal tempo e dal mercato, genererebbe solo un aggravio di costi e probabilmente allontanerebbe una soluzione effettivamente percorribile. Come in ogni crisi aziendale prima i problemi si affrontano seriamente più si rende possibile una soluzione che, comunque, non sarà indolore.
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