Grandi imprese

Addio Bernardo Caprotti, il primo vero padrone made in Brianza

30 Settembre 2016

Il traguardo dei 91 anni Bernardo Caprotti non lo ha tagliato per una settimana, ma non sarà – non sarebbe – questo a crucciarlo: che di traguardi sensazionali ne ha tagliati tanti, e quelli che non ha raggiunto e che hanno pesato sulla sua vecchiaia sono ben altri, ben più gravosi di un piccolo dettaglio anagrafico. Con Bernardo Caprotti muore il simbolo, il rappresentante di una generazione italiana enorme: di quelli che la mamma non ne fa davvero più, ma da un pezzo.

Aveva vent’anni alla fine della seconda guerra mondiale, e veniva da una famiglia di imprenditori che, già allora, poteva prima farlo studiare legge e poi mandarlo a farsi le ossa di là dall’Oceano, negli Stati Uniti, a guardare il mitologico mercato da vicino, là dove c’era, e a guardarne i processi industriali e quelli finanziari da dentro. Persa nelle nebbie che avvolgono le cose troppo lontane, la vita giovanile di Caprotti la ritroviamo italiana, italianissima: nella Brianza – cui lui sempre aveva detto di appartenere – che macina Pil a lavorare nell’azienda di famiglia, ad affiancare i Rockfeller nella creazione di quella che sarà poi Esselunga, a fare a botte con la politica e con la giustizia italiana, fino al patteggiamento del 1996 e ai notissimi litigi con le Coop Rosse, esplosi con la pubblicazione del libro Falce e Carrello, il suo duro atto d’accusa allo Coop Rosse finito a stracci nei tribunali, e con Caprotti per lo più soccombente.

Dettagli, e sia detto senza alcuna ironia, in una carriera da imprenditore semplicemente enorme, come enorme è il patrimonio netto che non può portare con sè ma resta in terra, a testimoniare il talento, la tenacia, il lavoro, la voglia di fare incarnata fino a quando ha avuto forza. Oltre due miliardi di euro, per un colosso vero, costruito in mezzo secolo o poco più, assecondando i tempi, sfidando il rischio degli insuccessi, capendo sempre meglio dei concorrenti dove stavano gli umori del mercato, e avendo sempre la forza di captarli, di capirli di impiegarli a proprio profitto. Un emblema di quella “fame” che fa speciali gli imprenditori speciali, quelli che non si fermano al primo benessere e neanche al secondo. Nel caso di Caprotti, specialissimi, perché appartenenti alle stirpi di chi già poteva vivere di rendita fin dalla nascita e invece no: ha scelto, fino all’ultimo, la vita di chi vuole di più, infinitamente di più, e non per ostentarlo, ma per arrivare un gradino sopra gli altri, molto più in alto. Fino ad esautorare i figli – in Italia, sì, proprio in Italia – ormai sulla soglia degli ottanta anni e morire, di fatto, senza aver trovato acquirenti o venditori nell’impresa.

Tanto era presente a tutto il vecchio Caprotti, con la sua Esselunga che, lavorando nei templi dell’informazione italiana, a qualche giovane cronista capitava, meno di dieci anni fa, e quindi con Caprotti ormai ottuagenario, di poter racccontare, documenti alla mano una storia succosa, per quanto piccola, che riguardava il suo gruppo. La storia era questa: alcuni collaboratori delle Coop Rosse – si scopre – avrebbero effettuato intercettazioni illegali ai danni dei dipendenti delle Coop stesse, in particolare in Lombardia. Siamo alla fine del 2009, e a inizio 2010 lo scoop è di Libero, che racconta una storia non chiara, e certo non rassicurante. In sostanza, chi doveva garantire la sicurezza delle Coop in realtà sorveglia illegalmente i suoi dipendenti e, in qualche modo, perfino Pierluigi Bersani fu informato del fatto. Quel che nessun racconta, e quel che venne a sapersi nella pancia dei templi della grande informazione, è che quegli stessi collaboratori che avevano “denunciato” gli eventuali illeciti in cui erano coinvolti, pochissimi mesi dopo erano passati a lavorare per qualcun altro: coincidenza, proprio per Esselunga. Quell’ultima notizia, confermata addirittura dall’entourage di Caprotti, non fu mai pubblicata. Erano quegli stessi giorni, peraltro, quelli in cui anche grazie al decisivo e meritorio contributo di Caprotti, a Milano, veniva inaugurato il binario 21, memoriale della tragedia della Shoa che ancora oggi svolge una funziona non solo memorialistica ma anche di concreta e preziosissima accoglienza.

I due elementi non sono in relazione, naturalmente, ma spiegano che la vita di Caprotti, come quella di tanti campioni del Novecento, è stata tante cose insieme. È stata talento ed è stata potere spregiudicato. È stata beneficienza “alla vecchia maniera”, ed è stato controllo anche brutale della reputazione e del potere, sempre alla vecchia maniera. È stata tenacia e voglia di arrivare oltre ogni ragionevolezza, pazienza di lavoro, considerazione di inutilità per i sindacati, fame della testa anche quando quella del corpo era finita o non era mai iniziata. È stata incapacità di allevare o creare eredi, tanto che alla sua morte, avvenuta non improvvisa e non precoce, non sappiamo che destino avrà il più importante gruppo della grande distribuzione italiana: e il problema che fino a ieri era anche suo, da domani è tutto “nostro”. Alla fine della sua epoca sappiamo cosa non ci appartiene, con qualche orgoglio, della parabola di Caprotti. Le cose che però farebbero bene a tutti noi possiamo tenercele e portarle nel futuro. Un paese in cui chi ha la sua fame e il suo talento arriva dove merita, dopotutto, è pur sempre un grande paese.

(Il Mago di Esselunga, spot firmato da Giuseppe Tornatore e Bernardo Caprotti, da cui è tratta l’immagine di copertina)

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