Grandi imprese
Addio Bernardo Caprotti, il primo vero padrone made in Brianza
Il traguardo dei 91 anni Bernardo Caprotti non lo ha tagliato per una settimana, ma non sarà – non sarebbe – questo a crucciarlo: che di traguardi sensazionali ne ha tagliati tanti, e quelli che non ha raggiunto e che hanno pesato sulla sua vecchiaia sono ben altri, ben più gravosi di un piccolo dettaglio anagrafico. Con Bernardo Caprotti muore il simbolo, il rappresentante di una generazione italiana enorme: di quelli che la mamma non ne fa davvero più, ma da un pezzo.
Aveva vent’anni alla fine della seconda guerra mondiale, e veniva da una famiglia di imprenditori che, già allora, poteva prima farlo studiare legge e poi mandarlo a farsi le ossa di là dall’Oceano, negli Stati Uniti, a guardare il mitologico mercato da vicino, là dove c’era, e a guardarne i processi industriali e quelli finanziari da dentro. Persa nelle nebbie che avvolgono le cose troppo lontane, la vita giovanile di Caprotti la ritroviamo italiana, italianissima: nella Brianza – cui lui sempre aveva detto di appartenere – che macina Pil a lavorare nell’azienda di famiglia, ad affiancare i Rockfeller nella creazione di quella che sarà poi Esselunga, a fare a botte con la politica e con la giustizia italiana, fino al patteggiamento del 1996 e ai notissimi litigi con le Coop Rosse, esplosi con la pubblicazione del libro Falce e Carrello, il suo duro atto d’accusa allo Coop Rosse finito a stracci nei tribunali, e con Caprotti per lo più soccombente.
Dettagli, e sia detto senza alcuna ironia, in una carriera da imprenditore semplicemente enorme, come enorme è il patrimonio netto che non può portare con sè ma resta in terra, a testimoniare il talento, la tenacia, il lavoro, la voglia di fare incarnata fino a quando ha avuto forza. Oltre due miliardi di euro, per un colosso vero, costruito in mezzo secolo o poco più, assecondando i tempi, sfidando il rischio degli insuccessi, capendo sempre meglio dei concorrenti dove stavano gli umori del mercato, e avendo sempre la forza di captarli, di capirli di impiegarli a proprio profitto. Un emblema di quella “fame” che fa speciali gli imprenditori speciali, quelli che non si fermano al primo benessere e neanche al secondo. Nel caso di Caprotti, specialissimi, perché appartenenti alle stirpi di chi già poteva vivere di rendita fin dalla nascita e invece no: ha scelto, fino all’ultimo, la vita di chi vuole di più, infinitamente di più, e non per ostentarlo, ma per arrivare un gradino sopra gli altri, molto più in alto. Fino ad esautorare i figli – in Italia, sì, proprio in Italia – ormai sulla soglia degli ottanta anni e morire, di fatto, senza aver trovato acquirenti o venditori nell’impresa.
Tanto era presente a tutto il vecchio Caprotti, con la sua Esselunga che, lavorando nei templi dell’informazione italiana, a qualche giovane cronista capitava, meno di dieci anni fa, e quindi con Caprotti ormai ottuagenario, di poter racccontare, documenti alla mano una storia succosa, per quanto piccola, che riguardava il suo gruppo. La storia era questa: alcuni collaboratori delle Coop Rosse – si scopre – avrebbero effettuato intercettazioni illegali ai danni dei dipendenti delle Coop stesse, in particolare in Lombardia. Siamo alla fine del 2009, e a inizio 2010 lo scoop è di Libero, che racconta una storia non chiara, e certo non rassicurante. In sostanza, chi doveva garantire la sicurezza delle Coop in realtà sorveglia illegalmente i suoi dipendenti e, in qualche modo, perfino Pierluigi Bersani fu informato del fatto. Quel che nessun racconta, e quel che venne a sapersi nella pancia dei templi della grande informazione, è che quegli stessi collaboratori che avevano “denunciato” gli eventuali illeciti in cui erano coinvolti, pochissimi mesi dopo erano passati a lavorare per qualcun altro: coincidenza, proprio per Esselunga. Quell’ultima notizia, confermata addirittura dall’entourage di Caprotti, non fu mai pubblicata. Erano quegli stessi giorni, peraltro, quelli in cui anche grazie al decisivo e meritorio contributo di Caprotti, a Milano, veniva inaugurato il binario 21, memoriale della tragedia della Shoa che ancora oggi svolge una funziona non solo memorialistica ma anche di concreta e preziosissima accoglienza.
I due elementi non sono in relazione, naturalmente, ma spiegano che la vita di Caprotti, come quella di tanti campioni del Novecento, è stata tante cose insieme. È stata talento ed è stata potere spregiudicato. È stata beneficienza “alla vecchia maniera”, ed è stato controllo anche brutale della reputazione e del potere, sempre alla vecchia maniera. È stata tenacia e voglia di arrivare oltre ogni ragionevolezza, pazienza di lavoro, considerazione di inutilità per i sindacati, fame della testa anche quando quella del corpo era finita o non era mai iniziata. È stata incapacità di allevare o creare eredi, tanto che alla sua morte, avvenuta non improvvisa e non precoce, non sappiamo che destino avrà il più importante gruppo della grande distribuzione italiana: e il problema che fino a ieri era anche suo, da domani è tutto “nostro”. Alla fine della sua epoca sappiamo cosa non ci appartiene, con qualche orgoglio, della parabola di Caprotti. Le cose che però farebbero bene a tutti noi possiamo tenercele e portarle nel futuro. Un paese in cui chi ha la sua fame e il suo talento arriva dove merita, dopotutto, è pur sempre un grande paese.
(Il Mago di Esselunga, spot firmato da Giuseppe Tornatore e Bernardo Caprotti, da cui è tratta l’immagine di copertina)
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