Energia
Tocca adesso allo scacchiere Artico?
Con la guerra in Ucraina indietro tutta sull’ambiente
Da quando ha preso il potere ad oggi il Satrapo Russo lo ha consolidato attraverso tre fasi: 1- la fase del riassetto economico-finanziario con la stretta alleanza di alcuni stati ex- Sovietici come Azerbajian e Kazakhstan mediante il patto di Cooperazione Federativo del 2002 (CSTO); 2- la morsa stretta sull’Europa tramite il tridente di fasci di Oleodotti a nord, centro e sud del vecchio continente; 3- la messa in sicurezza del giro d’affari del cosidetto mondo degli affari, ossia il gruppo degli oligarchi di stretta osservanza. Un percorso politico-affaristico che nulla a che vedere con l’ideologia post-comunista e che è espressione di un più scontato assalto al potere.
La trasformazione dell’URSS in Federazione Russa aveva però implicato l’ingresso del mondo ex sovietico nei confini molto più dilatati della globalizzazione ed imponeva un immediato ingresso competitivo nel mercato globale. Dunque le risorse più disponibili – gas, oil, materie prime del sottosuolo- ed un mercato europeo sempre più vorace di energia fossile sembravano la soluzione ai problemi economici che la Russia da tempo non riusciva a sanare.
Inizia la tessitura delle rete degli oleodotti,a direzione est –ovest, dapprima con la costruzione degli oleodotti centrali (Yamal, Brotherhood, Soyuz), si attivano i legami con la Germani che poi porteranno alla costruzione del North Stream dapprima 1 e successivamente 2.
La partita con l’Europa diventa per la Russia putiniana un subdolo processo di induzione alla dipendenza del gas che fa pendant con il regolamento di conti avviato con i paesi di Visệgrad che aderiscono alla NATO. Nella partita a scacchi per il corridoio meridionale, nel 2011 con la morte di Gheddafi e la non imprevedibile caduta di Berlusconi, viene meno anche il South Stream su cui i russi puntavano molto. Un tramonto parallelo al Nabucco del quale restano alcune infrastrutture che si congiungeranno con l’altra pipeline rimasta in progettualità: il gasdotto Transadriatico, o TAP, progettato per collegare il confine tra Grecia e Turchia all’Italia meridionale attraverso l’Albania, il compito di veicolare gas azero verso l’Europa, tramite la concessione del Presidente dell’Azerbajian Ilham Aliyev. Così il 28 giugno 2013, il Consorzio Shah Deniz II sceglie il TAP per il trasporto del gas dell’Azerbajian in Europa preferendolo al progetto concorrente Nabucco West. Il contratto prevede una fornitura-record pari a circa 130 miliardi di Euro.
Alleati come Lukashenko in Bielorussia e Aliyev in Azerbajian consolidano con un collante politico-economico la tenaglia a tre bracci che Putin assicura all’Europa, da Nord, al Centro fino al Sud che lambisce il Mar Nero. Strutturati così gli oleodotti e assicuratosi l’appoggio a nord dell’Europa Classica, a trazione tedesca, a Putin non resta che consolidare la sua presenza nel Mediterraneo con le seguenti mosse:
1- spostare interessi petroliferi, a sud bypassando l’Ucraina, annettendo la Crimea con la guerra iniziata nel 2014;
2- consolidare il rapporto di alleanza con Aliyev, fornitore di gas ed con Erdogan, che concede la Turchia come presidio di controllo nel Mediterraneo;
2- spostare il baricentro finanziario delle società petrolifere russe a Malta, derivandolo da Cipro;
3- consolidare la presenza militare nel Mediterraneo per il controllo diretto degli oleodotti dell’Est Mediterraneo dopo essersi assicurato i porti di Mariupol’ e Rostov nel Mare d’Azov dove la Flotta Sud della Marina Russa, è al sicuro e pronta ad agire, a differenza di quella del mar Artico, troppo distante per essere efficace anche a nel mar Nero.
4- Ultimo ma non minore target il carbone. Riannodare con Cina e India il mercato del carbone è, e resterà per i prossimi tempi, uno degli scopi primari di Putin.
5- Così nel conflitto ucraino prevalgono motivazioni ai più sconosciute. Un esempio è costituito dalle riserve minerarie di carbone. L’Ucrania è il 15° paese produttore di coal, la Russia il primo. Tuttavia proprio in epoca di transizione ecologico-energetica, potrà sembrare superato il mercato del carbone. Ma il mercato orientale, Cina in testa, continua ad utilizzarlo con la noncuranza di chi possiede solide basi industriali e con un ritmo di esportazione in continua crescita. Le riserve minerarie di carbone dell’Ucraina occupano vasti territori del Donbass e di Donetsk. La pervicace attenzione della Russia su questi territori è dominata dall’acquisizione di quelle aree che aumenterebbero il plafont a disposizione per il mercato asiatico. Tab. 1
6- Nessuna preoccupazione del Kremlino per la devastazione ambientale cui è stata sottoposta quell’area sin dal 2014. Essa rappresenta un tassello della politica espansiva della Russia. Ne è esempio quella verso la Cina, tradotta in numerosi atti concordatari, che vanno sotto il nome di Razvitie, Sviluppo. Una sorta di sineddoche, una parte per il tutto che identifica la nuova linea ferroviaria transiberiana di 9 mila km ma sottende a interscambi petroliferi tra Gazprom e Sinopec (China Petroleum & Chemical Corporation) e verosimilmente ad accordi per il carbone.
7- L’occupazione di parte del Donbasss nel 2014 e il successivo stallo con continui scontri a fuoco di artiglieria tra l’esercito ucraino e i separatisti sostenuti dalla Russia hanno portato la regione sull’orlo di una catastrofe ambientale. Questa non è ancora scongiurata malgrado linee di de-escalation istituite frettolosamente per impedire il bombardamento degli stabilimenti chimici dove sono stipati centinaia di migliaia di litri cubi di rifiuti tossici, grazie anche ad un monitoraggio continuo da parte dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). Secondo una valutazione del governo olandese,[1] nel 2018 l’Ucraina ha prodotto 289.5 milioni di tonnellate di rifiuti, di cui il 75% è stato prodotto da fonti minerarie. Secondo il Ministero dell’ambiente e delle risorse naturali ucraino, ci sono 23.727 imprese potenzialmente pericolose, di cui 2987 sono magazzini che immagazzinano pesticidi altamente tossici. Nel Donbass, secondo il rapporto indipendente segnalato da Diego Herrera e finanziato dall’ambasciata britannica, sono presenti 4.000 siti potenzialmente pericolosi in aree ad alta densità di urbanizzazione, in cui si contano 7 milioni di persone, (1).
Tutte queste manovre, da risiko ad alta matrice politico-militare e finanziaria, hanno dunque origini lontane e progetti antichi ma vengono attuate pochissimo tempo dopo l’uscita della Merkel, l’unico politico europeo che probabilmente avesse potuto tener testa allo Czar Vladimir. La ex cancelliera aveva posto le basi per un supply di gas & oil nel momento in cui stava riducendo l’apporto energetico del nucleare e avviava la Germania alla transizione energetica. Così facendo aveva creato le basi per una maggiore dipendenza europea nei confronti della Russia. La zampata dello Czar è arrivata nel momento di maggiore debolezza energetica europea quando l’unica che avrebbe potuto fermarlo era andata via e chi è rimasto non ha capito bene cosa si stava annunciando.
In sintesi la guerra all’Ucraina, iniziata nel 2014 con il pretesto delle concessioni di transito dell’oil & gas, è diventata in un colpo solo riedizione della potenza militare nel Mar Nero con un duplice obiettivo.
1- Controllo militare del Mediterraneo Orientale, dei giacimenti Leviathan, Tamar e Aphrodite al largo offshore delle coste libanesi e israeliane, controllo manu militari degli oledotti a partenza azera ( TANAP e TAP);
2- Controllo dei traffici petroliferi dalla raffineria libica di Zawyia, affidata al fedele Erdogan;
3- Controllo delle attività finanziarie dei forzieri di Malta.
Fig. 1 I principali giacimenti di gas nel Mediterraneo Orientali con una riserva attorno ai 135 trilioni di m3
Se quanto sopra è ammissibile, lo Czar non si fermerà qui. Consoliderà lo spostamento del baricentro dei mercato energetici verso l’oriente cinese e consoliderà la sua bilancia commerciale con l’esportazione di carbone, gas e petrolio di cui l’Europa è onnivora e che, a dispetto dei ogni buon proposito di transizione ecologica, continuerà a ingurgitare fossili.
Prossimo target? Probabilmente Svezia e Finlandia, che, a differenza della Norvegia entrata nella NATO all’atto della sua fondazione, 1949, stanno valutando la necessità dello scudo atlantico per difendere una lunga linea rossa di confine tra Finlandia e Russia, ben 1.340 km in verticale Nord-Sud. Quell’area artica serva Putin per veicolare il greggio artico. Una lunga linea di confine verticale, una sorta di meridiano politico, che fa pendant con i paralleli 17° ( confine Vietnam) e 38° quello famigerato della Guerra della Corea.
Lo scacchiere Artico non è meno importante di quello mediterraneo.
Chi si aggira nel Mare Artico?
Statoil, la Compagnia norvegese, Lundin e OMV hanno già realizzato scoperte per oltre un miliardo di barili nel Mare di Barents dal 2010, e la nostra ENI sin dal 2016 ha iniziato le estrazioni di petrolio da Goliat, la prima piattaforma della zona. La lista si allunga di giorno in giorno, vista la continua richiesta e la volontà del Governo norvegese di soddisfare tutti. L’area, come si vede, è prevalentemente esposta verso il versante russo e quindi appare logica la presenza di Gazprom e Rosneft. Secondo quest’ultima, che ha avviato perforazioni nel Mare di Laptev, Artico Orientale, in quell’area sarebbe sepolto il 30% del gas ancora presente sulla Terra e il 13% del petrolio.
Secondo Lorenzo Vita, il Mare di Laptev, un tempo inesplorato, oggi è divenuto terra di esplorazione sottomarina vuoi per la ritirata e lo scioglimento dei ghiacci “..vuoi perché il Golfo di Chatanga è tra i luoghi meno accessibili nell’Artico russo…”. Situata a est della penisola di Taymyr, la zona di licenza è aperta per la navigazione solo due mesi nell’anno. Le stime dei ricercatori sul prossimo futuro dimostrano come sia possibile che questi periodi di navigazione possano aumentare, rendendo più facile il collegamento con il continente.
La Russia è consapevole che l’Artico è una sfida cui non può giungere impreparata. La strategia di Mosca è di riuscire a sfruttare il più possibile l’eventualità di un progressivo aumento delle temperature unito alle scoperte scientifiche utili allo sfruttamento delle risorse artiche.[2] Condividiamo, con lo stesso Vita, la prospettiva che anche mercati asiatici si rivolgano al petrolio artico, data la confusione che regna sovrana nello scacchiere eurasiatico-mediorientale. India e Cina ben presto si rivolgeranno alla Russia per utilizzare quelle che sembrano riserve inesauribili.
Tra i primi atti dalla sua rielezione al IV mandato, Putin si assicura il mercato francese. Nel maggio 2018, sigla un accordo di ferro con la Francia di Macron: la russa Novatek venderà alla francese Total il 10% del pacchetto azionario di Arctic LNG-2. Lo scopo: coinvolgere i francesi nel progetto Artico e al contempo assicurarsi il mercato transalpino per nuovi contratti di gas. Non mancano gli attivisti di GreenPeace che hanno provveduto all’occupazione della piattaforma petrolifera “Transocean Spitsbergen”, ma che per le Società non saranno mai un problema. Davide contro Golia? Già, appunto chi è Goliat?
Goliat
A 80 km dalle coste norvegesi di Hammerfest, nel punto più alto della Norvegia, Goliat è una opera dell’ENI, una piattaforma circolare che stazza ben 64 mila tonn. Atta all’estrazione di 100 mila barili al giorno, appartiene ad una joint tra StatOil norvegese al 35% e all’ENI Norge che ne possiede il restante 65%.
I competitor non mancano come si vede dalla cartina dello scacchiere fornita dal Norvegian Petroleum Directorate.
Già dal 2012 Rosneft e ENI firmano una joint venture per un investimento di 70 miliardi di dollari per i depositi offshore del Mare di Barents e 55 miliardi di dollari nella produzione offshore del Mar Nero con una quota ENI del 33.3% nella joint venture. La società italiana si sarebbe fatta carico della prospezione geologica dei depositi offshore con riserve recuperabili stimate a 36 miliardi di barili di equivalente petrolifero, (2).
Mentre Rosneft parteciperà anche ai progetti internazionali di ENI, in qualità di partnership strategico, le due società svilupperanno congiuntamente il deposito Val Shatskogo nel Mar Nero e i blocchi Fedynsky e Central Barents nell’Artico. Un impegno qualificante visto che il blocco di Fedynsky nel Mare di Barents comprende nove depositi con riserve pari a 18,7 miliardi di barili, il blocco centrale Barents comprende tre depositi con riserve di 7 miliardi di barili e quello di West Chernomorsky (Val Shatskogo) comprende sei campi con circa 10 miliardi di barili di equivalente petrolifero (3).
Transizione addio o arrivederci?
Il colpo di coda dei paesi più popolosi al mondo e meno sensibili ai problemi ambientali ha assunto il volto feroce della guerra perché non restava altro che un rimedio estremo per bloccare l’ineludibilità della transizione.
Il calcolo che le sanzioni si sarebbero riversate come un boomerang sui Paesi dell’UE si è rivelato esatto e tutto lascia prevedere che l’arretramento ambientalista, sia pure forzoso, rallenterà per almeno un quinquennio lo sviluppo delle Fonti di Energia Rinnovabile.
(1) Fonte Diego Herrera Environment and Conflict Alert Ukraine: A first glimpse of the toxic toll of Russia’s invasion of Ukraine. Paxfor peace. Nederland. 9 marzo 2022
(2) Vita L. La Russia riscopre l’Artico. Occhi della guerra, 07 luglio 2017.
(3) Ferrara A., Colella A., Nicotri P. Oil Geopolitics, le condotte insostenibili. Agora&CO, Lugano, 2019
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