Energia
Risiko energia, intervista a un insider
La crisi energetica alimentata prima dall’inaspettata accelerazione economica postpandemica e poi dalla guerra hanno posto all’attenzione pubblica e collocato al centro del dibattito politico un tema che, per poter esser affrontato in modo serio, richiede la conoscenza anche di aspetti tecnici, storici, economici e in cui confluiscono molteplici punti di vista e considerazioni di varia natura, ciascuno con un suo peso specifico e mai fissabile una volta per tutte nel tempo. In un dibattito politico che tende sempre più a rifugiarsi negli slogan e nelle semplificazioni ci è sembrato utile chiedere a una persona che lavora da trent’anni nel settore di fornirci i principali elementi di conoscenza necessari a comprendere cosa sta succedendo, la posizione dell’Italia nel mercato dell’energia e quella transizione energetica che tutti presentano come la chiave risolutiva di tutti i problemi del mondo, ma di cui non si capisce quanto sia slogan e quanto concretamente attuabile e, soprattutto si tacciono le contraddizioni. A questo insider, che intervistiamo in forma anonima, chiediamo innanzitutto di darci un quadro della situazione italiana.
Cerchiamo di inquadrare il problema a partire dai fondamentali: com’è composto il paniere energetico italiano e quanto importiamo?
Oggi il fabbisogno energetico italiano è coperto per quasi il 60% dal termoelettrico, prevalentemente grandi centrali a gas. L’Italia ha anche una buona produzione di energia idroelettrica, circa il 17% del fabbisogno complessivo, ma questo settore ha un andamento legato al clima e per gli investitori è poco appetibile perché resta incerto come verrà affrontato il problema delle concessioni in scadenza. Idroelettrico, solare, eolico rappresentano rispettivamente, a spanne, 40%-20%-20% della produzione non termoelettrica e il rimanente deriva da fonti minori, come biomasse, geotermico ecc. Ci sono anche alcune centrali a carbone, gestite da ENEL o da gruppi privati, in parte ferme o ancora in attività ma a ritmo ridotto per i noti problemi di inquinamento. Di recente il governo ha chiesto di riprendere la produzione o di aumentare i ritmi anche in questi impianti per compensare la riduzione dell’offerta a seguito della guerra in Ucraina. Qui già viene a galla uno dei principali problemi dell’Italia: dipendere così tanto dal fossile fa sì che la produzione di energia elettrica sia direttamente correlata alla disponibilità di metano che arriva prevalentemente via tubo. La produzione nazionale, infatti, copre soltanto una piccola parte del fabbisogno, 4 miliardi di metri cubi a fronte di oltre 62 miliardi di metri cubi importati dall’estero, in particolare circa il 40% dalla Russia, il 25% dall’Algeria e il resto da Qatar, Libia e Norvegia. Infine l’Italia è collegata tramite elettrodotti con Francia, Svizzera, Slovenia, Grecia, da cui importa circa il 10% del fabbisogno già in forma di energia elettrica.
Il secondo aspetto che ci sembra rilevante è la struttura proprietaria del settore. Chi controlla la produzione e la distribuzione di energia?
Nel 1999 il decreto Bersani ha liberalizzato produzione, acquisto, vendita e distribuzione. Per quanto riguarda la produzione ENEL ha dovuto cedere quote di mercato attraverso la creazione nel 2000 di tre aziende, le cosiddette GenCo, che in seguito sono state cedute. Parallelamente gli investitori privati hanno ricevuto l’autorizzazione per costruire nuove centrali. Nel termoelettrico ENEL mantiene comunque un ruolo preponderante: è il più grande produttore termoelettrico, seguito da gruppi come Edison, ENI Power e da aziende più piccole, come IREN, A2A, Acea e altre di dimensioni ancora minori, in sostanza le ex municipalizzate dei comuni. Per quanto riguarda la distribuzione primaria di energia in alta tensione è gestita in regime di monopolio da Terna, una società quotata in Borsa con Cassa Depositi e Prestiti primo azionista al 30%, che cura trasmissione e dispacciamento. È un compito molto delicato, perché, dal momento che l’energia non è stoccabile in grandi quantità, comporta la gestione di un mix di fonti e bisogna fare in modo che il sistema sia in equilibrio in tutto il paese 24 ore su 24 ed evitare che in ciascun punto il fabbisogno superi la quantità di energia effettivamente disponibile e si producano dei blackout. Grazie all’utilizzo di sofisticati sistemi informatici questo compito viene svolto in modo efficiente e di solito quando si verificano dei problemi riguardano le reti locali, dove l’energia viene portata in bassa tensione per alimentare aziende e abitazioni private e che sono di proprietà dei distributori locali. Il più grande tra questi è E-distribuzione, staccatasi da ENEL anch’essa a seguito del decreto Bersani, che controlla il grosso della rete in bassa tensione, seguita da società controllate dalle multiutility che ho già citato: ACEA, A2A, IREN ecc. Queste società, oltre che possedere le reti locali e i contatori e curare la distribuzione, sono responsabili degli investimenti per lo sviluppo della rete. Questo è un altro dei tasti dolenti, perché stiamo elettrificando tutto, ma facciamo fatica ad avere la potenza necessaria a sostenere tutto ciò che viene elettrificato.
Qual è stata, se c’è stata, la politica energetica italiana a partire dagli anni Novanta?
Dal 1999 al 2007 i passaggi principali sono stati dettati proprio dal Decreto Bersani, che a sua volta recepiva una direttiva europea che prevedeva la completa liberalizzazione del settore procedendo per gradi. Prima c’è stata la suddivisione dell’ENEL in diverse società, per separare produzione, distribuzione e commercializzazione. Una separazione non solo amministrativa: quando lavoravo in ENEL a un certo punto è stata creata una vera e propria separazione fisica tra gli uffici di quelle che ormai erano società distinte per evitare che ci fossero scambi di dati. Poi c’è stata la vera e propria liberalizzazione della produzione, dell’acquisto e delle altre attività: prima sono stati autorizzati solo i grandi gruppi, poi tutti i soggetti titolari di Partita Iva, quindi attività commerciali e condomini, mentre dall’1 luglio 2007 il mercato è completamente liberalizzato e quindi anche un singolo individuo può muoversi liberamente sul mercato. Parallelamente, dal 2001 al 2010, sono stati fatti grandi investimenti sulle grandi centrali a gas per abbattere l’inquinamento, dal momento che il metano riduce in modo sensibile le emissioni. Oltre alle centrali a metano sono comparsi i primi grandi progetti centrati sulle fonti rinnovabili. All’idroelettrico, che in Italia è presente sin dall’Ottocento, si sono affiancati i grandi parchi eolici, il fotovoltaico e attualmente l’obiettivo della politica energetica è perseguire un mix di fonti diverse, con l’obiettivo della decarbonizzazione e dell’abbattimento delle emissioni. D’altra parte, per rispondere alla tua domanda, nei 23 anni successivi al decreto Bersani una vera e propria coerente politica energetica non c’è mai stata, tutti i governi hanno agito seguendo indirizzi differenti, non sempre con una continuità logica. Diciamo che ci si è adeguati a macrocorrenti di pensiero internazionali, a volte con risultati paradossali. Pensa, ad esempio, agli incentivi sproporzionati al fotovoltaico, che hanno portato a raggiungere gli obiettivi prefissati in anticipo drogando il mercato e provocando contraddizioni analoghe a quelle che oggi sta creando il superbonus. Negli ultimi 4-5 anni il tema della transizione energetica, soprattutto nell’UE, è diventato assai sentito e ha ispirato nuove linee guida che sono alla base delle attuali scelte.
La guerra sembra aver impresso un rallentamento o addirittura un ripensamento…
In realtà mi pare che la guerra non abbia spinto a mettere in discussione gli obiettivi o la necessità di una politica comunitaria, ma abbia posto un altro tipo di problema, cioè possiamo rinunciare e, se sì, come affrontiamo il venir meno di una fonte fossile fondamentale per l’Europa come il metano?
Allora veniamo proprio alla transizione energetica. A volte la sensazione è che la politica come sempre la utilizzi come una formula magica capace di risolvere tutti i problemi, quando in realtà ne risolve alcuni ma ne crea di nuovi, soprattutto se la gestione viene lasciata al mercato. Cosa è fattibile e cosa no?
Partiamo da un presupposto oggettivo: il tema del clima c’è e ha dei risvolti preoccupanti. Da tempo si parla di mutamenti climatici, ma oggi siamo arrivati a un punto in cui gli effetti dei mutamenti climatici li vedi. Perciò la riduzione delle emissioni è effettivamente un obiettivo corretto. Il punto è come raggiungerlo e qui ci sono due livelli su cui incentrare l’analisi. Il primo riguarda le tecnologie, cioè cosa possiamo fare davvero con le tecnologie a disposizione? Se rinunciamo a carbone e metano, considerato che le fonti rinnovabili non sono programmabili né stoccabili in quantità sufficiente – illuminare Milano e Roma di notte con l’energia rinnovabile è impossibile – resta il nucleare, che però non gode di grande popolarità, soprattutto in Italia. Questo è un punto su cui spesso la politica sorvola per timore di andare contro l’opinione pubblica. Poi ci sono potenziali nuove fonti come l’idrogeno. Il cosiddetto idrogeno verde, che ha zero emissioni e può essere usato anche per autotrazione o al posto del metano, viene prodotto a partire da acqua ed energia da fonti rinnovabili attraverso il processo chimico dell’elettrolisi. In Italia SNAM ci sta lavorando, ma ci sono grossi dubbi in termini di efficienza economica e anche ambientale, che riguardano ad esempio il trasporto di un gas, che, va detto, è altamente infiammabile. Insomma ci sono diverse alternative tecnologiche, ma bisogna capire dove vogliamo andare. Poi ci sono le contraddizioni che sottolineavi tu. Le rinnovabili, ad esempio, pongono un problema di disponibilità di spazio. Per un Kw di fotovoltaico il consumo di terreno è di 5 metri quadrati. Se si tratta di alimentare una città come Milano, con una centrale da 800 megawatt, fai tu il conto. E bisognerebbe anche chiedersi quanto costi in termini ambientali produrre un pannello fotovoltaico. L’altro aspetto è economico: queste fonti hanno un costo di produzione basso ma richiedono investimenti elevati, per cui servono incentivi e meccanismi di agevolazione che i vari Stati stanno predisponendo e richiedono anche un elevato coordinamento. Le attuali tensioni sui prezzi rendono tutto più complicato. Da settembre osserviamo una crescita apparentemente senza limite dei prezzi energetici, che stanno diventato poco sostenibili per l’economia di un paese ed è difficile pensare di poter affrontare questo momento senza fermarsi un attimo e fare un punto della situazione. Il fatto che nucleare e metano siano state inserite nella proposta di tassonomia elaborata dalla Commissione Europea credo risponda a questa esigenza. Infine c’è un aspetto geopolitico. Ci sembra di uscire dalla dipendenza del mondo legato al fossile, ma ci mettiamo in mano alla Cina e agli altri paesi nelle cui mani sono concentrate la maggior parte delle materie prime necessarie alla transizione.
E per quanto riguarda i tempi?
In teoria l’Italia dovrebbe dotarsi di 60-70 Gw di nuova capacità entro il 2030. Questi obiettivi sono stati fissati in base a una previsione sulla riduzione delle emissioni calcolata in minori consumi di tonnellate equivalenti di petrolio, tramite elettrificazione alimentata da un mix di fonti rinnovabili. A seconda di come è composto il mix si calcola la potenza necessaria, tenendo conto che la produzione varia a seconda della fonte. Con l’eolico in media produci per 2.000-2.200 ore l’anno, col fotovoltaico in Italia, facendo una media tra Sicilia e Alto Adige, si scende a circa 1.400 ore, tra un quarto e un sesto delle ore complessive in un anno. Insomma se produci per meno ore hai bisogno di più potenza. Ma il problema è che stiamo andando a un ritmo tale per cui per raggiungere gli obiettivi ci vorranno 30 anni.
Del nucleare cosa pensi?
Il nucleare è una tecnologia su cui dovremmo puntare in una logica di elettrificazione e riduzione delle emissioni. Ci sono centrali nucleari di nuova generazione con tecnologie sicure e con produzione di scorie molto ridotte. Il ragionamento è semplice. Se la chiave è: “riduco le emissioni soltanto elettrificando”, allora devo trovare un modo per produrre energia senza emissioni, sennò non faccio altro che spostare il problema dove non lo vedo.
Quando parlavo di programmazione energetica pensavo anche a una programmazione dei consumi, che significa non solo evitare gli sprechi, ma anche scegliere forme di produzione industriale e in generale strategie economiche parametrate sulla capacità di produzione e approvvigionamento elettrici.
In realtà negli accordi sul cosiddetto Green New Deal si parla anche di efficientamento energetico e anche livello industriale e sia in ambito pubblico che nelle abitazioni private. Per quanto riguarda i grandi interventi sono previsti meccanismi incentivanti che remunerano gli investimenti fatti per ridurre le emissioni: sono i cosiddetti TEE, titoli di efficienza energetica, che le aziende virtuose ricevono per ogni tonnellata equivalente di petrolio, hanno un valore economico e possono essere scambiati e valorizzati mediante una piattaforma. La tecnologia può fare molto, ma la sua efficacia varia a seconda delle situazioni. Di recente, ad esempio, Arvedi è diventata la prima azienda siderurgica al mondo a emissioni zero, grazie al fatto che utilizza solo forni elettrici con energia di origine certificata. Ottenere lo stesso risultato in un bitumificio, naturalmente, è più difficile. Nei contesti urbani e abitativi la situazione è ancora più difficile perché abbiamo un patrimonio immobiliare molto datato. E anche lì ogni scelta ha possibili controindicazioni. Puoi ridurre le emissioni sostituendo le caldaie condominiali con pompe geotermiche, ma i costi sono talmente elevati da richiedere aiuti statali che fanno debito pubblico. Oppure puoi togliere le caldaie e mettere delle pompe di calore e in questo modo elettrifichi ma bisogna vedere come produci l’energia elettrica che alimenta le pompe e magari lo fai oggi e tra un anno ti ritrovi con i prezzi dell’energia decuplicati, come sta succedendo oggi. Insomma tutto ciò che riguarda la politica energetica è materia estremamente complessa.
Intervista tratta dalla newsletter di Puntocritico.info del 12 luglio.
Immagine: Minghong, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons
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