Ambiente
Cosa salviamo e cosa buttiamo del risultato di questo referendum
È finita. Il quorum non è stato raggiunto. I dati ufficiali sui risultati parlano di un’affluenza attorno al 32% degli aventi diritto, ben lontana dal quorum previsto dalla Costituzione per rendere valido ed efficace il risultato. Un risultato che vedrà comunque un’ampia prevalenza dei sì, così che circa il 25% degli italiani maggiorenni totale si è espresso per l’abrogazione della norma che prevedeva la possibilità, per le compagnie già operanti, di sfruttare i giacimenti entro le 12 miglia marine fino all’esaurimento dei giacimenti stessi e dunque oltre la scadenza delle concessioni attualmente in essere.
Da questa campagna referendaria, partita in sordina e accesasi improvvisamente sotto i colpi delle inchieste giudiziarie che hanno portato alle dimissioni dell’ex ministra Federica Guidi, restano sul tavolo diversi elementi di esperienza e conoscenza che meritano di essere fissati.
Anzitutto, e per cominciare, nonostante un tema referendario specifico e, nel complesso, marginale rispetto agli equilibri energetici complessivi del paese, va registrata comunque una partecipazione a livelli dignitosi, nonostante (o forse anche grazie a) gli altissimi inviti all’astensione – Matteo Renzi, e sul punto torneremo ovviamente più sotto – o gli autorevolissimi avalli della sua legittimità, come quelli arrivati dal presidente della Repubblica “ombra” Giorgio Napolitano. Si dirà che questa partecipazione dignitosa consta comunque nel mancato raggiungimento del quorum e non esattamente di misura, visto che mancano quasi dieci milioni di voti all’appello richiesto dalla Costituzione. È evidentemente vero, e però, considerando a mente fredda la specificità del quesito referendario rimasto in campo e l’ormai consolidata disaffezione degli italiani per referendum così tecnici, non si può non registrare il dato rilevante di circa 15 milioni di italiani che si mobilitano per andare a votare. E di altri molti milioni, difficile ad ora quantificarli, che decidono di non andare a votare, ma non per pigrizia o indifferenza, ma mettendo in atto una legittima strategia finalizzata a far mancare il quorum. Che lo abbiano fatto sulla base di pura analisi razionale dei fatti, o per mera obbedienza al leader pd e capo del governo, o per un mix di entrambe le cose, questa resta in ogni caso una scelta pienamente politica, e come tale deve essere considerata. Perché – diciamocelo pure – dato il perimetro e il contesto, il raggiungimento del quorum era pura e semplice illusione.
È stato, indubbiamente, un referendum che ha consentito di crescere alla coscienza di molti cittadini italiani. In pochissimi sapevano, prima, cosa fossero le “trivelle” – anzi le piattaforme -, e oggi sicuramente sono tanti di più. Sotto e più a fondo delle cadute di gusto, delle politicizzazioni, delle strumentalizzazioni, c’è stato comunque un dibattito vero e serio, la passione di chi si è battuto per il sì e molti buoni argomenti portati a sostegno dell’abrogazione e altrettanta serietà in molti che invece hanno sostenuto la necessità di mantenere la norma così com’è. Naturalmente, fa molto più rumore la polemica strumentale, soprattutto se aizzata o cavalcata dal premier e da chi gli è vicino, o il tweet improbabile di qualche politico più realista del re – che non c’è più in Italia, e proprio grazie a un referendum -, ma un paese con ogni probabilità più cosciente e maturo, più consapevole di una debolezza energetica, da un lato, e di una vulnerabilità ambientale, dall’altro, non sono risultati da trascurare. Sono, anzi, elementi su cui una buona politica, in rapporto franco e aperto con i legittimi interessi rappresentati, costruirebbe invece architravi di futuro, di politiche che verranno, di nuove idee e di nuove azioni. Soprattutto, cercherebbe davvero di pensare concretamente alla sostenibilità energetica di domani, e magari affiderebbe a regole generali sensate il rapporto tra concessionario e concedente, e la sua durata nel tempo.
Purtroppo, il bicchiere mezzo vuoto è proprio rappresentato dal corpo grosso della classe dirigente politica, che ci è sembrato meno adeguato – e non è bello – della parte più cosciente del corpo elettorale, indipendentemente dall’appartenenza a uno dei tre fronti possibili. Sull’accozzaglia di opposizioni e qualche pezzo di minoranza interna che hanno scelto di fare campagna per il voto al referendum per “mandare a casa Renzi” non vale la pena di perdere troppo tempo. La strumentalità dell’argomento scelto, la evidente inverosimiglianza della strategia, l’incoerenza con quanto scelto detto fatto e legiferato appena ieri, lo stesso sistema di alleanze internazionali perorate da vecchi e nuovi putiniani, la virulenza becera di chi magari era stato compagno di viaggio e di partito fino a poco tempo fa, lasciano davvero sconcertati e senza parole. E però, il basso livello degli avversari, non deve far dimenticare che chi ha chiamato una lunga ordalia su di sé, e ha concepito questo referendum come un primo passaggio minore di un lunghissimo referendum che culminerà in quello istituzionale di Ottobre, è stato proprio Matteo Renzi.
Lo stile comunicativo della casa, la strategia di fondo di consolidamento del consenso, è ormai noto, e confermato sostanzialmente a ogni passaggio interno o esterno al suo partito e alla coalizione. Ogni voto, ogni direzione, ogni assemblea, ogni assise in cui si voti su qualunque cosa, viene interpretata operosamente dal capo come un voto su di sé. Che sia irrituale istituzionalmente (è il caso del referendum sulle riforme) o che sia sproporzionato per i temi in campo (è il caso di questo referendum), il messaggio che parte dalla centrale renziana e viene diffuso dai suoi rumorosi corifei è sempre più o meno questo: o con Matteo o contro Matteo. E poi, che si vinca poco o tanto, vai di sfottò. Va bene, è propaganda, magari un po’ greve, e non può scandalizzare in quest’epoca di politica fata (o sfatta) così.
Quel che però meriterebbe una riflessione sommessa, perfino un’autocritica, come si diceva una volta, è se questo approccio strategico abbia senso duraturo per gli obiettivi di governo, di progetto e di potere che chi detiene potere e governo, oggi, si prefissa per domani e dopo. In poche parole, ci si chiede qui se questo continuare a chiamare referendum manichei su se stessi, la propria azione, la propria antropologia, non consenta sì di vincere tante battaglie lungo la strada, ma finendo per consentire alle truppe avversarie (nemiche o interne, ancora) di trovare prima o poi la massa critica che sarà sufficiente a vincere, un giorno, magari lontano, magari no, la guerra. Chi ha votato “contro Renzi”, questa volta, è il 25% dell’elettorato attivo. Il 30% se consideriamo che, anche chi ha votato no, ha espressamente scelto di votare contro l’indicazione del segretario-premier. Con bassa affluenza e alta tensione, magari quando la posta in gioco sarà più alta e chiara, è facile fare i conti di quanto può rischiare, lo stesso Renzi. Senza chiedere aiuto a qualche esagitato fedelissimo, e magari fidandosi di qualche perplesso e ragionevole amico ministro, Renzi prenda in mano la calcolatrice, per capire meglio il perimetro del potenziale dissenso. Come sempre, in questi casi, ha solo da guadagnarci.
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