Energia

“Lo Stato Parallelo”: l’Eni tra petrolio, politica e sicurezza di stato

13 Agosto 2016

L’Eni è un colosso industriale controllato dallo Stato italiano, ma è anche uno stato nello stato. Così scrivono i giornalisti Andrea Greco e Giuseppe Oddo che hanno pubblicato per Chiarelettere la lunga inchiesta “Lo Stato Parallelo”, proprio sul cane a sei zampe.

Il gruppo petrolifero è infatti molto di più che un’azienda. Il suo amministratore delegato conta più del ministro degli Esteri ed esercita un enorme potere che gli deriva dalla gestione di investimenti, flussi di cassa, acquisti, dividendi allo Stato, il tutto per decine di miliardi di euro. I più grandi casi di corruzione e scandali sono nati qui, dall’Ente che più volte attraverso le sue strategie, prima filoarabe poi filorusse, ha messo in crisi i nostri rapporti con gli alleati occidentali. Enrico Mattei, fondatore di Eni – scrivono gli autori – è morto in circostanze sospette, un suo ex presidente, Gabriele Cagliari, coinvolto in Tangentopoli, si è suicidato in carcere, gli ultimi due amministratori delegati sono indagati per corruzione internazionale. L’Eni quindi non è solo una potenza economico-industriale, ma dal dopo-guerra è uno snodo fondamentale delle vicende italiane: impresa al servizio dello Stato capace, all’occorrenza, di piegare lo Stato ai propri interessi; attore influente della nostra politica estera, che fa da apripista a relazioni con paesi tutto tra che democratici come Congo, Libia, Nigeria, Kazakistan e altre dittature africane, mediorientali e asiatiche ai primi posti nella graduatoria mondiale della corruzione.

In quasi cinque anni Greco e Oddo hanno intervistato ex funzionari, addetti ai lavori, politici, studiosi (qualcuno si è negato), verificando bilanci e documenti di ogni tipo, anche privati. Ne è nato un racconto corale e approfondito degli ultimi sessant’anni del nostro paese: dalla Dc di Fanfani e le aperture di Moro alle giravolte di Berlusconi, grande alleato di Putin. Il libro indaga scrupolosamente sulla storia dell’Eni e analizza i rapporti tra il colosso industriale nato per garantire l’approvvigionamento energetico del paese e lo Stato, suo azionista di riferimento.

Di seguito un estratto dal saggio-inchiesta di Andrea Greco e Giuseppe Oddo, Lo Stato Parallelo (ed. Chiare Lettere).

 

Il rapporto con la sicurezza di Stato

Fu veramente una gaffe la dichiarazione di Matteo Renzi alla puntata di Otto e mezzo del 3 aprile 2014? Il presidente del Consiglio, davanti a una esterrefatta Lilli Gruber, ammise: «L’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti». L’indiscrezione suscitò sconcerto e incredulità, perché l’Eni era per la prima volta indicata in modo esplicito da un capo di governo come articolazione dello Stato per l’acquisizione di informazioni strategiche per la sicurezza nazionale. Poco importava che l’affermazione fosse vera o verosimile, contava la sua percezione da parte del pubblico. Quindi, o Renzi non aveva chiara la distinzione tra le attività informative che tutelano la sicurezza della Repubblica e il ruolo di una società per azioni a controllo pubblico, il cui capitale appartiene per due terzi ai maggiori fondi internazionali, oppure aveva pronunciato un’enormità a fini di utilità politica, giocando d’astuzia, com’è suo solito, nel pieno delle manovre per il rinnovo del vertice dell’Eni.

Questa seconda ipotesi si fece strada nei giorni immediatamente successivi al 3 aprile, quando i giornali indicarono tra i possibili candidati alla successione di Scaroni il capo del Dis Giampiero Massolo. Quale che fosse la verità, l’episodio rivelava un’ambiguità nelle operazioni e nelle nalità dell’intelligence nonostante il governo Prodi avesse riformato otto anni prima l’ircocervo delle agenzie informative e delle loro storiche stratificazioni.

Che l’inopportuna sparata di Renzi non fosse proprio frutto di improvvisazione o di ingenuità risultò evidente qualche mese dopo da una campagna di comunicazione istituzionale dell’Eni dove il concetto sibillinamente espresso dal premier era ampiamente ripreso e sviluppato dalla società: «Una fattiva ed efficace partnership tra Eni e lo Stato, nelle sue varie articolazioni, è di sicuro interesse. Tale formula è volta principalmente a regolamentare la cooperazione e la collaborazione tra le forze dell’ordine, le forze armate, gli organismi di informazione per la sicurezza e la funzione security aziendale. Le partnership pubblico-private permettono di inquadrare in maniera trasparente i rapporti tra impresa e pubblica amministrazione […]. Tuttavia, in Italia, non è stato definito in maniera chiara quale tipo di collaborazione e cooperazione debba esservi tra le funzioni di security delle aziende e le istituzioni dello Stato deputate all’ordine pubblico, alla sicurezza e alla difesa. Eni è pienamente convinta che la formula debba essere implementata ed è certa che tale collaborazione permetta di costruire un sistema-paese dove le professionalità aziendali si integrano con quelle della pubblica amministrazione per il raggiungimento di un obiettivo comune: la sicurezza delle persone».

In sostanza, l’Eni vedeva con favore una forma di collaborazione stretta tra le proprie attività di informazione e di sicurezza e gli apparati dello Stato preposti a queste funzioni, e solleci- tava il legislatore a «implementare la formula» di una possibile partnership pubblico-privata. Non il semplice transito di uf ciali delle forze dell’ordine nelle strutture dell’Eni, come era sempre avvenuto, ma uno scambio organico, permanente, «fattivo» tra la security del gruppo e i servizi segreti, che configurasse una svolta nelle relazioni tra l’Eni e lo Stato.

Francesco Cossiga, mentore della prima riforma dei servizi segreti italiani (1978), aveva convinto diversi suoi interlocutori, futuri protagonisti di questa storia (da Amato a Bernabè), della necessità che ogni rapporto tra intelligence e imprese dovesse essere indiretto e sempre mediato dalla politica. Una prassi comune nei paesi più evoluti, da quelli anglosassoni alla Francia alla Spagna. Nei resoconti dei protagonisti emergeva però una dissonanza: ciò che altrove si configurava come schema relativa- mente preciso, cui derogare nei casi in cui la ragion di Stato lo consigliasse, in Italia fu declinato al ribasso, empiricamente.

Un esempio fu il tentativo di Berlusconi, annunciato nella campagna per le politiche del 2001, di integrare nelle ambasciate, accanto alla loro tradizionale funzione diplomatica, quella di promozione commerciale del sistema-Italia. La stessa gestione all’impronta valse anche per le cruciali relazioni dello Stato con l’Eni.

Fin dalla ne degli anni Novanta, tra le istituzioni e l’azienda era cominciato un confronto di idee su come adeguare il rap- porto tra il gruppo e l’intelligence. L’interim della Farnesina a Berlusconi, nel 2002, fu la palestra di un nuovo esperimento che avrebbe dovuto favorire l’avvicinamento tra il direttore del Sismi Niccolò Pollari e il responsabile della sicurezza dell’Eni Di Petrillo.

La società avrebbe dovuto ospitare incontri con i funzionari dei servizi, avrebbe dovuto illustrare loro le proprie attività di security, con l’obiettivo di una «reciproca sensibilizzazione», ci dice un addetto ai lavori con il tipico lessico da polizia giudiziaria.

Ma l’idea non ebbe alcun seguito ed è un’altra implicita conferma del fatto che, nel decennio 1996-2006, i rapporti tra l’Eni e l’intelligence furono ridotti all’osso: un pugno di richieste discrete da parte dei servizi e altrettante operazioni in comune per recuperare personale sotto sequestro all’estero o per rimpatriare cittadini italiani da paesi in guerra come la Libia. «Questa gente non sapeva niente di cosa facessimo – ci spiega un alto dirigente della sicurezza dell’Eni, riferendosi a quel periodo – semplicemente perché non gliene importava niente, tranne rari casi e solo in un’ottica di potere. Le poche volte in cui avremmo voluto condividere con loro le nostre informative sui rischi nei paesi in cui operiamo, si mostrarono disinteressati».

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