Energia

L’idrogeno, una rivoluzione (anche geopolitica) nel libro di Alverà

4 Agosto 2020

Pubblichiamo il settimo capitolo del libro scritto dall’ad di Snam Marco Alverà, Rivoluzione idrogeno, Mondadori, in libreria da oggi. I proventi del libro spettanti all’autore saranno devoluti in beneficienza.

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“Il mio sogno è creare una partnership con l’Africa per generare e conservare una grande capacità di energia, trasformarla in idrogeno e trasportarla in altre parti del mondo e in Europa attraverso le infrastrutture esistenti. Non è così difficile cambiare le reti attuali del gas in reti per idrogeno.” (Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, ottobre 2019)

Petrolio e gas hanno  un ruolo chiave nella geopolitica internazionale dal 1912. Quell’anno Winston Churchill, primo ammiraglio della Royal Navy, decise di convertire la flotta da carbone a petrolio per tenere il passo con le veloci navi tedesche. Riteneva che la velocità delle nuove fregate Regina Elisabetta dovesse essere di almeno 25 nodi per sfuggire ai nemici. Una velocità impossibile da raggiungere con il carbone, che ha una densità energetica più bassa. Inoltre la logistica del carbone rendeva impossibile il rifornimento in mare. La graduale conversione della flotta al petrolio fece diventare una priorità strategica la logistica della produzione, dello stoccaggio e della distribuzione del petrolio. Una delle ragioni che nel 1914 spinsero Churchill a nazionalizzare la compagnia petrolifera Anglo-Iranian (antenata della attuale BP) fu proprio la necessità di garantire forniture alla Royal Navy per 20 anni. Dal canto suo, nella seconda guerra mondiale, Adolf Hitler fece di tutto con le operazioni Barbarossa e la Battaglia del Caucaso per mettere le mani su Baku e Astrakan e le ghiotte riserve petrolifere del Caspio. Nell’estate del 1941 Inghilterra e Unione Sovietica invasero l’Iran deponendo il re di Persia Shah, accusato di essere vicino a Hitler.

Guerre, colonialismi, corse alla creazione di sfere di influenza regionali e globali spesso hanno avuto, come scopo ultimo, l’accesso a fonti energetiche. La narrativa sulla “guerra fredda dell’energia” ha visto gli Stati Uniti contrapporsi a Russia e Iran e corteggiare Arabia Saudita e altri stati del Golfo Persico per interessi energetici. Il recente aumento della produzione nazionale americana dovuto allo shale ha portato a un avvicinamento tra sauditi e russi, produttori storici che oggi si trovano a fare i conti con un mercato inondato da petrolio e gas di scisto.
Quella che era un’inondazione è diventata uno tsunami con l’emergenza Covid, che ha ridotto i consumi di petrolio di circa un terzo, e portato temporaneamente a prezzi negativi negli Stati Uniti. La sofferenza dei produttori americani ha mutato gli equilibri, portando gli USA dalla stessa parte del tavolo dei produttori tradizionali. Da qui un evento storico: all’inizio di aprile 2020, il presidente Donald Trump ha telefonato al suo omologo russo Vladimir Putin, chiedendogli di trovare un accordo con l’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman per tagliare la produzione e far risalire i prezzi. L’accordo è stato fatto, con un taglio anche da parte dei produttori americani che per la prima volta, dopo aver osteggiato l’OPEC, si sono ritrovati a cooperare con gli storici antagonisti. Alla base del diverso approccio alla politica internazionale intrapreso dall’amministrazione statunitense c’è l’essere passati da grande paese importatore di olio e gas a principale produttore e grande esportatore di idrocarburi dopo il successo della rivoluzione shale.

Nel pensiero comune, la dipendenza energetica è un fattore negativo: a nessun paese piace essere legato a doppio filo a un altro per risorse così essenziali. Spesso la dipendenza energetica è percepita come un gioco che conferisce ai paesi produttori un immeritato vantaggio competitivo dal quale i paesi consumatori dovrebbero affrancarsi. Un esempio più recente sono le iniziative messe in atto dall’Unione europea per ridurre la propria dipendenza dal gas di provenienza russa, che attualmente soddisfa oltre un terzo dei consumi dei paesi membri. La sicurezza degli approvvigionamenti è uno dei temi in cima all’agenda politica dell’Unione europea e di ogni paese importatore di energia.
La domanda che ci si pone oggi è se le energie rinnovabili possano allentare queste tensioni. Per molti analisti, infatti, uno dei motivi che rendono interessanti l’energia solare ed eolica è proprio la possibilità di produrla localmente, garantendosi autosufficienza. Ciò è almeno in parte destinato ad accadere: la distribuzione delle risorse energetiche sarà senz’altro più equa.
L’idea di passare da un sistema energetico integrato a uno completamente locale o nazionale è però meno conveniente di quanto possa sembrare. In primo luogo, l’elettricità rinnovabile non può essere prodotta localmente ovunque, in ogni caso non nei quantitativi necessari a raggiungere le zero emissioni nette. In molti paesi semplicemente non ci sono spazi sufficienti.  Inoltre, un insieme eterogeneo di sistemi energetici locali e nazionali, ciascuno con le proprie caratteristiche specifiche, e con una limitata capacità di commercializzazione internazionale, sarebbe negativo per la concorrenza che è fondamentale per abbassare i prezzi, per le economie di scala e per la sicurezza degli approvvigionamenti che oggi si basa su una solidarietà energetica tra paesi se ci sono problemi in uno di essi. Infine, perseguire l’autosufficienza energetica non ci libererebbe dai problemi di carattere geopolitico: al contrario, rischia di aumentare le tensioni.

La dipendenza energetica, infatti, non è solo quella di chi ha bisogno di energia. Anche chi la vende dipende da chi la compra. Paesi produttori come Algeria, Libia, Egitto e, in misura minore, quelli dell’area del Golfo Persico, hanno un problema comune: l’esplosione demografica, una moltitudine di giovani con aspettative crescenti. Tale situazione mette sotto pressione i bilanci, interamente finanziati dalla vendita di petrolio e gas naturale. Cosa accadrebbe se questi paesi vedessero i profitti derivanti dalla produzione di idrocarburi diminuire fino ad azzerarsi? Il rischio concreto è che il loro delicato equilibrio interno possa essere compromesso, con ricadute negative sui flussi migratori e sulla sicurezza. È una preoccupazione avvertita anche nell’Unione europea, un’area che dispone di risorse energetiche limitate e che dipende quasi interamente da un piccolo numero di paesi produttori confinanti, come quelli del Nord Africa, la Russia e la Norvegia. Come dimostrano le recenti tensioni sul fronte dell’immigrazione, l’Unione europea potrebbe avere grandi difficoltà nella gestione di eventuali squilibri nei paesi vicini.
L’idrogeno è una soluzione in grado di combinare la lotta ai cambiamenti climatici con la cooperazione regionale e l’abbassamento delle tensioni geopolitiche. Grazie all’idrogeno può diventare realtà l’utilizzo a costi contenuti di fonti rinnovabili provenienti da aree del mondo con ampia disponibilità di sole e vento ma lontane dal punto di consumo. La IEA ha calcolato che per il Giappone sarebbe più conveniente importare idrogeno verde dal deserto australiano o dal Medio Oriente piuttosto che produrlo localmente. L’Europa potrebbe importarlo da Nord Africa, Norvegia e Russia, il medesimo trio che attualmente la rifornisce di combustibili fossili. Ciò potrebbe bilanciare la progressiva riduzione delle importazioni di gas e petrolio e prevenire possibili tensioni.
I sei paesi del Gulf Cooperation Council (Arabia Saudita, Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti) hanno già lanciato alcuni tra i maggiori progetti al mondo per l’energia solare per decine di Gigawatt. Quando tali iniziative verranno associate a un programma altrettanto ambizioso sull’idrogeno, i paesi del Golfo potranno mantenere una leadership energetica. L’abbondanza di territorio per vasti impianti fotovoltaici, la posizione geografica strategica e le grandi competenze industriali e intellettuali nel settore oil and gas rendono quest’area un polo naturale dell’idrogeno. Ciò potrebbe compensare la riduzione degli introiti da gas e petrolio. Si stima che se il 20% del territorio degli Emirati Arabi fosse utilizzato per impianti solari per la produzione di idrogeno verde da esportare, si potrebbero raggiungere gli stessi introiti attualmente garantiti da gas e petrolio.

Il passaggio graduale a un’economia dell’idrogeno consentirebbe alle imprese locali nel settore oil and gas di avere nuove opportunità di business, stringere accordi e partnership con aziende del settore dell’energia pulita e di conservare, se non addirittura aumentare, i posti di lavoro attuali. L’infrastruttura esistente rappresenta un fattore chiave per accelerare lo sviluppo dell’idrogeno e dunque un vantaggio competitivo per i paesi che attualmente esportano petrolio e gas. Naturalmente, un mercato globale dell’idrogeno potrà essere sviluppato solo attraverso una cooperazione internazionale, che coinvolga sia i paesi produttori sia quelli consumatori, oltre alle organizzazioni internazionali come OPEC, IEA e IRENA.
Gran parte dell’infrastruttura esistente per il trasporto dell’energia è già per sua natura transnazionale e può incoraggiare la cooperazione, come ha dimostrato l’esperienza dell’importazione di gas naturale dalla Russia e dal Nord Africa. Questo sistema potrebbe perfino spingere i paesi più riluttanti a unirsi allo sforzo globale contro il cambiamento climatico.
L’Unione Africana e la valorizzazione dei deserti. Uno dei temi cruciali nell’affrontare la sfida sul cambiamento del clima è quello della sua riconciliazione con la crescita economica. La soluzione che adotteremo non dovrà solo essere in grade di risolvere il climate change ma dovrà anche tener conto di un’altra sfida globale: quella contro l’ineguaglianza.
Come già sottolineato, la produzione di energia rinnovabile consentirebbe all’Unione europea di importare energia verde e avvicinarsi al raggiungimento degli obiettivi nazionali di abbattimento delle emissioni. Come conferma una recente analisi di Hydrogen Europe, il Nord Africa, e in particolare la zona del Maghreb, offrono un immenso potenziale per questa importazione. Le risorse di energia solare sono abbondanti nella regione e il deserto del Sahara ha un’immensa capacità di generazione, sia dal solare sia dall’eolico. Ma quello che conta di più è che siamo già connessi: il Maghreb esporta gas naturale dall’Algeria e dalla Libia, con numerosi collegamenti di gasdotti verso Spagna e Italia. Queste connessioni via pipeline hanno una capacità di oltre 60 GW. Inoltre, ci sono due cavi per il trasporto di elettricità, ciascuno con una capacità di 0,7 GW, tra il Marocco e la Spagna.

Per l’Africa e l’Europa sarebbe quindi molto interessante sbloccare il potenziale di esportazione di energia rinnovabile nel Nord Africa, se i paesi del Maghreb convertissero questa elettricità in idrogeno e trasportassero l’energia attraverso la rete esistente. Come abbiamo già evidenziato, una parte di quella del gas naturale potrebbe essere convertita per accogliere l’idrogeno. Sarebbe un’opzione più economica rispetto alla costruzione di cavi elettrici per trasportare energia rinnovabile in Europa.
Queste considerazioni possono aiutare a innescare partnership più strette tra gli europei e i loro vicini africani, uno sviluppo che potrebbe inaugurare l’integrazione della “dimensione africana” nel Green New Deal europeo. Ciò libererebbe i colli di bottiglia che si sono già determinati nella rete elettrica in Europa, che rischiano di ostacolare la capacità di fornire più energie rinnovabili nel sistema energetico.

Il primo vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Frans Timmermans, ha già dichiarato il suo sogno di vedere uniti Europa e Africa in una collaborazione energetica per sviluppare l’enorme potenziale delle rinnovabili. L’idrogeno è uno strumento fondamentale per realizzarlo. In questa geopolitica dell’idrogeno anche l’Italia potrà avere un ruolo di primo piano grazie alla sua posizione geografica, alle sue capacità imprenditoriali e alla sensibilità delle sue istituzioni al tema dei cambiamenti climatici.

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