Ambiente
Le criptovalute al centro dei pensieri di India e Cina, ma consumano troppo
Durante la conferenza virtuale di Davos del World Economic Forum 2022, il primo ministro indiano Narendra Modi ha esortato paesi e aziende a una cooperazione globale per affrontare le sfide poste dalle criptovalute. Come l’inflazione o il cambiamento climatico, sarebbe una questione che le singole nazioni non possono affrontare da sole: “il tipo di tecnologia a cui sono associate le criptovalute rende le decisioni prese da un paese inadeguate ad affrontare le sfide che esse pongono. Dobbiamo avere un pensiero comune” ha affermato, aggiungendo che è necessario attrezzare le organizzazioni multilaterali perché possano fronteggiare queste nuove sfide condivise.
È una tematica che Modi tocca spesso negli ultimi mesi. A dicembre, nel corso di un vertice ospitato negli Stati Uniti, aveva detto che le criptovalute andrebbero usate per potenziare la democrazia e a novembre, al vertice annuale sulla tecnologia emergente di Sydney, aveva esortato i paesi a collaborare affinché i Bitcoin non cadano nelle “mani sbagliate”.
Ma soprattutto, l’India è impegnata a formulare un quadro normativo che potrebbe diventare legge intorno ad aprile.
La direzione sembra quella presa dalla Cina. Inizialmente era stato annunciato un possibile divieto totale dell’utilizzo di criptovalute (causando un grosso crollo dei Bitcoin in autunno). Ora l’obiettivo del “Cryptocurrency and Regulation of Official Digital Currency Bill” presentato dal governo indiano sembra piuttosto quello di una regolamentazione, vietando i pagamenti (non sarà quindi più possibile comprare online) e limitando le transazioni fra privati, per creare invece una valuta digitale ufficiale di Stato emessa dalla la Reserve Bank of India: proprio come la Cina. Pechino in realtà ha fatto di più: addirittura ha bandito qualsiasi criptovaluta salvo quella statale. Non sembra improbabile che l’India possa in futuro fare lo stesso, magari in maniera più graduale.
È interessante che il primo ministro indiano nel suo discorso abbia fatto riferimento al cambiamento climatico, comparando il “problema” criptovalute al riscaldamento globale anziché notare che il primo è parte del secondo.
Le misure prese da India e Cina sono volte a dominare il mercato e al massimo a proteggere gli investitori, ma una delle caratteristiche principali delle criptovalute è quella di avere costi energetici immensi. La Cina aveva effettivamente vietato l’estrazione di Bitcoin (per quanto, nonostante le politiche repressive, se ne estragga ancora il 20% del totale mondiale) arrivando recentemente a definire il mining come “obsoleto” nell’aggiornamento di un documento del 2019 in cui già Pechino si impegnava a virare l’economia verso modelli più sostenibili. In realtà, se lo vietava all’interno dei propri confini, era allo stesso tempo fra i maggiori estrattori in altri territori, per esempio l’Iran, dove il mining aveva causato ingenti problemi di approvvigionamento energetico a privati, aziende e ospedali iraniani [ne avevamo parlato qui]. Anche il Kazakistan, protagonista di scontri cominciati per l’aumento del carburante (sempre di energia si parla), si era trovata spesso nei mesi scorsi con le luci spente. E anche lì i blackout erano causati in parte proprio dal dispendio energetico dei server di criptovalute, tanto che avevano dovuto chiedere sostegno alla Russia.
In un momento in cui molte delle tensioni globali si giocano proprio sull’aumento dei prezzi di energia e carburanti (già i gilets jaunes erano iniziati così), destinare risorse energetiche così cospicue a una moneta virtuale è quantomeno discutibile, a prescindere che si tratti di monete private o statali.
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