Energia
Il petrolio non rende più: il Golfo fa pace con Israele e le sue start up
I simboli, a volte, sono importanti. Alla fine di settembre scorso, la BP (British Petroleum), che è una sorta di azienda-storia del petrolio, ha reso noto di aver investito un miliardo di euro in due impianti eolici con l’acquisto del 50% della società norvegese Equinor, specializzata nel settore delle rinnovabili. La dirigenza di Bp ha inserito nella sua strategia di moltiplicare per venti la sua capacità eolica entro il 2030, salendo da 2,5 a 50 gigawatt.
Nel suo rapporto annuale, infatti, Spencer Dale, capo economista della BP, ha affermato che la visione dell’azienda del futuro energetico mondiale è diventata più verde a causa di una combinazione della pandemia Covid-19 e del ritmo accelerato dell’azione per il clima, che ha accelerato il “picco del petrolio”, che anche nel migliore scenario possibile, il 2019 è stato un punto di svolta nel prezzo del petrolio.
Anche le concorrenti della BP sembrano della stessa opinione. A conferma di come le grandi ‘sorelle’ del petrolio, Total e Royal Dutch Shell in testa, siano lanciate verso un futuro senza petrolio. E oggi, dopo l’uscita della EXXON (un’altra ‘sorella del petrolio), nell’indice Daw Jones della Borsa di New York resta solo la Chevron. L’intero settore energetico, che un decennio fa valeva il 12% del mercato azionario statunitense, oggi ha un peso inferiore al 2,5%.
Come raccontato anche in un altro articolo per Gli Stati Generali, interessa capire come i paesi del Golfo Persico ripenseranno il loro futuro. Perché il loro passato e il loro presente, che hanno portato le società dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti nel giro di un secolo da essere poveri borghi di pescatori e carovanieri a diventare economie top globali, è stato il petrolio. Ma il futuro è incerto.
I futures (contratti di acquisto a data futura con un prezzo prefissato) del greggio si attestavano a “meno” 40 dollari al barile a giugno 2020. I prezzi, che avevano raggiunto un picco storico di 148 dollari al barile subito prima della recessione del 2008 (contribuendo a quella crisi), sono scesi sotto i 40 dollari malgrado la ripresa dell’attività economica in Cina. E nel rapporto di BP si scrive che i membri del cartello petrolifero dell’Opec, guidato dall’Arabia Saudita, sopporteranno il peso maggiore del calo della domanda.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il fiscal break even oil price, cioè la sostenibilità fiscale degli oil producers, necessita di un prezzo al barile più elevato che può andare dai circa 40 dollari del Qatar ai 157 dollari dell’Algeria. Il valore che per la federazione degli Emirati Arabi Uniti assicurerebbe un pareggio di bilancio è di 69,1 dollari al barile, in leggera crescita rispetto ai 67 dollari al barile del 2019.
Per comprendere lo shock sull’economia degli Emirati Arabi Uniti, qualche numero: Abu Dhabi, il principale dei sette emirati per grandezza, produce il 95% del petrolio di tutta la federazione e con le maggiori riserve di idrocarburi (stimate in 92 miliardi di barili) dalle quali dipendono il 50% del suo PIL e il 57% delle entrate fiscali, quote in media più elevate rispetto alla media degli EAU (rispettivamente 30% e 45%). Il 2020 sarà caratterizzato da una contrazione del Prodotto interno lordo di circa il 5% per poi recuperare nel 2021. L’attuale corso del petrolio e la necessità di far fronte agli effetti della pandemia con stimoli fiscali e monetari, porteranno il deficit fiscale ad ampliarsi da un sostanziale pareggio dell’ultimo biennio a un -3,5% del Più nel 2020.
Per l’Arabia Saudita, che per reagire al mercato ha sfiorato l’incidente diplomatico con il fido alleato Donald Trump, quando il presidente Usa aveva minacciato sanzioni il 6 marzo scorso dopo l’annuncio del paesi dell’Opec di un taglio dei prezzi per un aumento della produzione ad aprile. Alla fine è stato trovato un accordo – ribattezzato big oil deal – tra Usa, Russia e Arabia Saudita, il 12 aprile 2020, per la storica diminuzione del pompaggio di 9,7 milioni di barili al giorno, tagliando circa il 10% della produzione mondiale. L’accordo, però, ha denunciato il nervosismo di Riad che si è mosso senza sentire gli altri produttori. Cosa mai accaduta in passato.
L’austerità, sia in Arabia Saudita che negli Emirati, è stata la prima mossa, con tagli fino al 21% della spesa pubblica, ma potrebbe non bastare. Come per ora non è bastata la storica decisione, del 2018, dei due paesi di introdurre per la prima volta nella loro storia l’IVA al 5% su beni, servizi e importazioni. In Arabia Saudita, dopo solo due anni, è arrivata al 15%.
In questo quadro si inserisce l’accordo che Emirati Arabi Uniti e Bahrein hanno siglato con Israele, all’ombra della benedizione Usa. Al di là del credito elettorale e politico che hanno incassato Trump in campagna elettorale e Bibi Netanyahu travolto dagli scandali, cosa ha spinto EAU e Bahrein – con la silenziosa partecipazione dell’Arabia Saudita – a un accordo che a livello di opinioni pubbliche del mondo arabo è vissuto malissimo?
Secondo molti osservatori, e secondo quanto emerge dal documento Vision2030, che rappresenta una sorta di roadmap saudita per l’emancipazione da un’economia dipendente dal petrolio, tra le altre cose, c’è il miraggio dell’importazione del modello della ‘start up economy’ israeliana.
Una narrazione che, da sempre, accompagna Israele: piccolo e senza risorse naturali, lo stato ebraico ha puntato da tempo a essere una Silicon Valley internazionale. Ma sarà davvero così? E davvero l’economia del modello start up, in particolare nel campo high tech e sicurezza, sono un futuro possibile per le economie del Golfo?
“Occorre ragionare sul fatto che – e non è solo un problema israeliano – in generale i sistemi di start up si creano quando c’è un intervento strutturato da parte dello Stato. In Israele, ad esempio, c’è la Israel Innovation Authroty (IIA) che si occupa di supporto di vario tipo alla start up economy, tra business e ricerca e sviluppo. Un massiccio investimento statale per un modello costoso e rischioso, in particolare nel settore High Tech”, commenta a Gli Stati Generali Clara Capelli, economista, ricercatrice del Cooperation and Development Network, esperta d’area che ha lavorato e vissuto a Tunisi, Beirut e Gerusalemme. “In generale, servirà un attore istituzionale che si fa carico dei rischi e ne condivide parte con i privati. L’altra grande componente è il capitale finanziario privato che decide dove puntare in venture capital con alto rischio. Servirà anche quello per puntare su questa idea di sviluppo.”
Ecco quindi una prima, grande, criticità: se l’idea è di cambiare con un’emancipazione dal ‘pubblico’ un’economia dove – con i proventi del petrolio – lo stato sosteneva la popolazione in Arabia Saudita e negli EAU, puntare sulle start up potrebbe richiedere ancora più ‘pubblico’, in una fase dove le casse potrebbero essere vuote. E anche l’impatto sul lavoro, a livello occupazionale, non è detto che sia straordinario. “Quella delle start up non è una filiera come quella, per esempio, dell’automobile, che genera un grande indotto. La ricaduta in posti di lavoro sarebbe difficilmente significativa”, aggiunge Capelli, ed è un dato rilevante in paesi che – magari con la classica ‘disoccupazione nascosta’, cioè le assunzioni inutili nelle aziende petrolifere di stato – hanno creato la piena occupazione per i nativi.
Infine, l’economia delle start up, al di là della narrazione, ha poi significato un duraturo e diffuso benessere per l’economia israeliana? “Secondo uno studio del Central Bureau of Statistics israeliano del 2018, che prendeva in esame un periodo dal 2011 al 2016, sono state il 37% le start up israeliane fallite. In generale, come modello, si tratta di imprese che durano poco, spesso falliscono, creano poco lavoro e sono molto stressanti. Il rischio imprenditoriale nel settore, oltre che per i costi di ricerca, è molto alto, anche per l’investimento in capitale umano, che nei paesi del Golfo andrà valutato. Si parla troppo dello stay hungry, stay foolish come filosofia, per vendere un’idea di futuro in cui siamo tutti imprenditori di noi stessi, ma è rischioso, non tutti ce la fanno, e quello delle start up non è un tipo di mercato che permette a tutti di starci dentro e di starci bene.”
L’accordo tra EAU e Bahrein e Israele, con la benedizione Usa e la regia saudita, ha avuto una grande risonanza internazionale e ha rappresentato un grande prezzo politico da pagare per gli stati del Golfo, ma almeno rispetto all’investimento economico verso il modello dell’economia delle start up israeliano potrebbe non rendere molto bene.
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