Energia

Il governo punta sul Nordafrica: le imprese lo seguiranno?

10 Novembre 2015

Un tempo gli italiani erano di casa in Nordafrica. Alcuni tra i più noti artisti nostrani sono nati sulla riva sud del Mediterraneo. Ad esempio i poeti Giuseppe Ungaretti e Filippo Marinetti, entrambi di Alessandria d’Egitto; le attrici Sandra Milo e Claudia Cardinale, di Tunisi; il cantante Franco Califano (“er Califfo”), originario di Tripoli; il pittore Mario Schifano, anche lui libico, ma di Homs; e infine Dalida (al secolo Iolanda Cristina Gigliotti), nata al Cairo da genitori calabresi, che fu Miss Egitto nel 1954, e poi fece ritorno in Europa per lanciare la sua carriera di cantante.

Gli esempi citati non erano casi così eccezionali. Tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX, paesi come Algeria, Libia, Tunisia ed Egitto ospitarono numerose comunità di italiani. «Al momento dell’unità d’Italia, nel 1861, in Tunisia c’era una forte presenza di immigrati italiani, specie contadini e pescatori – dice agli Stati Generali Massimo Campanini, docente di storia dei paesi islamici presso l’Università degli Studi di Trento –. Allora l’Italia era un paese molto povero, essenzialmente agricolo. Perciò in molti, soprattutto dal sud Italia, andavano a cercare nuove possibilità proprio in Tunisia». Che, in fondo, anche allora distava appena 150 chilometri dalle coste siciliane.

«Ho vissuto con la mia famiglia a Tripoli per i primi quindici anni della mia vita – racconta Marina, sessantenne siciliana residente in Veneto –. Mio padre aveva una buona posizione in una fabbrica automobilistica, ce la passavamo molto bene dal punto di vista economico, e a me piaceva la vita là. Quando però Gheddafi ha fatto il golpe siamo stati cacciati, insieme a molti altri italiani, e la nostra casa e i nostri beni sono stati espropriati. Finché “il colonnello” è rimasto al potere non sono mai potuta tornare nel paese della mia giovinezza. Ora potrei andarci… Purtroppo però non credo che sia il miglior momento per farlo».

La malinconia con cui Marina ricorda la Libia (e che la spinge ancora oggi a cucinare spesso il cuscus), riflette una familiarità molto diversa dalla diffidenza con cui tanti italiani guardano ormai ai paesi arabi. Guerre, attentati, terrorismo e immigrazione sono diventate pressoché le uniche ragioni per cui i media parlano di Nordafrica e Medio Oriente. Invece la simpatia dei nordafricani verso gli italiani non è mai venuta meno. Ed è assai più forte di quella riservata a inglesi, francesi e americani (i primi e i secondi per il loro passato coloniale, i terzi per la storia più recente). Certo, bisogna ammettere che a colonizzare Tunisia ed Egitto gli italiani ci avevano perlomeno pensato. «Negli anni ‘60 e ‘70 del XIX secolo, per realizzare il suo sogno di diventare la sesta potenza europea – continua Campanini – l’Italia doveva avere una politica coloniale. Pensò prima alla Tunisia, dove c’era già una forte presenza di italiani, ma come ben sappiamo il paese fu colonizzato dai francesi nel 1881. Poi cercò di farsi strada in Egitto, ma di nuovo le sue ambizioni rimasero frustrate, perché fu il ben più potente Regno Unito a occupare il paese nel 1882».

Antonio è un libero professionista torinese che di recente è tornato in Italia (suo malgrado, tiene a precisare) dopo aver vissuto in Egitto quasi vent’anni. «Stavo benissimo lì. Ma lavoro nel turismo, e purtroppo dalla rivoluzione del 2011 il settore non si è mai ripreso. Ho aspettato tutto il tempo che ho potuto, sperando che i turisti tornassero, ma non si riesce a vedere la fine di questa crisi», racconta. Secondo lui i paesi arabi mediterranei potrebbero essere dei partner privilegiati per Roma. «È un peccato che l’Italia non abbia mai davvero giocato tutte le sue carte in Nordafrica. Libia a parte, qui siamo molto benvoluti, e abbiamo un patrimonio di presenza e vicinanza culturale davvero significativo».

In effetti l’Italia non fa molto per valorizzare la sua prossimità, storica ma anche geografica, con il Nordafrica. Ad esempio, non si è mai pensato di promuovere lo studio dell’arabo nella scuola italiana, magari come terza lingua facoltativa, benché sia parlato da circa 200 milioni di persone solo nel Mediterraneo. Ancora, in confronto alla Francia, in Italia gli autori arabi sono meno tradotti. Lo spiega agli Stati Generali Elisabetta Bartuli, tra le principali traduttrici di letteratura araba in Italia e docente del Master in mediazione intermediterranea (MIM) della Ca’ Foscari di Venezia.

«Rispetto a cinque anni fa si traduce di più, ora nel nostro paese si pubblicano circa 10 titoli arabi l’anno – dice Bartuli –. Quello che manca di più, in realtà, è la promozione di questi libri. I media parlano pressoché ogni giorno del Medio Oriente, ma quasi mai della letteratura araba disponibile in italiano, mentre farla conoscere un po’ meglio potrebbe contribuire a un miglioramento della conoscenza reciproca. Eppure tra la gente c’è davvero molta curiosità a riguardo, e lo dimostra il fatto che a ogni evento di presentazione di un libro, con o senza l’autore, la sala è sempre piena. C’è molta voglia di capire il mondo arabo».

A livello politico, comunque, Roma vanta relazioni piuttosto strette, soprattutto con il Cairo. Non solo l’Italia resta il maggior partner commerciale dell’Egitto, ma nell’ultimo anno Renzi ha cercato di consolidare la nostra presenza in Nordafrica. «Fin dalla presidenza del Consiglio europeo dell’anno scorso il Mediterraneo è stato messo in cima alla lista delle priorità – spiega agli Stati Generali Silvia Colombo, esperta di politica mediorientale e ricercatrice presso l’Istituto affari internazionali (IAI) –. E tra i paesi mediterranei c’è particolare attenzione verso Libia ed Egitto. In effetti è impossibile capire la crescita delle relazioni diplomatiche e politiche tra l’Italia e il regime di Al Sisi senza tenere conto di quanto sta accadendo in Libia, e del ruolo del Cairo nella crisi libica, sia dal punto di vista politico che da quello della sicurezza».

Sia chiaro, non sono relazioni che partono dal nulla. «I rapporti tra Roma e il Cairo sono sempre stati molto solidi – continua –, quella che stiamo vedendo è un’intensificazione di queste relazioni. L’Italia sta investendo sull’Egitto, e solo il tempo e i fatti ci diranno se questa decisione sarà un successo o meno. In fondo l’Egitto di oggi non è certamente quello di cinque o dieci anni fa. Oggi il suo ruolo regionale è molto ridefinito, direi ridimensionato».

La vicinanza tra i due paesi è parsa ulteriormente rafforzata alla fine dello scorso agosto, con la scoperta, da parte dell’Eni, di Zohr, il maxi-giacimento di gas che potrebbe rivelarsi il più grande finora scoperto nel Mar Mediterraneo. Secondo le stime dell’azienda, Zohr, che si estende per circa 100 chilometri quadrati, potrebbe contenere fino a 850 miliardi di metri cubi di gas. Un tesoro di cui l’Egitto, sempre più affamato di oro azzurro per il suo fabbisogno interno, ha un disperato bisogno. Secondo gli esperti, la scoperta di Zohr è stata una doccia fredda per le aziende israeliane e cipriote che con l’Egitto avevano firmato delle lettere di intenti per rifornirlo di gas, rispettivamente dai giacimenti di Leviathan e Afrodite.

«Certamente questa scoperta influisce sul mercato regionale – dice da Cipro James Cockayne, caporedattore di MEES, una delle principali pubblicazioni del settore –. In fondo sia per i giacimenti israeliani che per quelli ciprioti il primo mercato naturale sarebbe stato l’Egitto, mentre ora è molto meno probabile che lo sarà». C’è invece scetticismo sulla possibilità che grazie a questa scoperta l’Egitto torni ad esportare gas come faceva prima della primavera araba, ai tempi di Mubarak. «Non sono affatto convinto che ciò possa accadere – continua Cockayne –. Prima di tutto perché l’Egitto è un grande consumatore di gas e in molti, me compreso, ritengono che se ora deve affrontare questa scarsità di gas e frequenti blackout, è proprio perché ne ha esportato troppo in passato. Inoltre, dalla caduta di Mubarak, il gasdotto che collega Egitto e Giordania è stato oggetto di ripetuti attacchi da parte dei gruppi estremisti che infestano il Sinai, e che probabilmente oggi sono anche più numerosi. Non c’è alcuna ragione di credere che, se il gasdotto dovesse tornare pienamente operativo, smetterebbero di sabotarlo».

In ogni caso, la scoperta di Zohr fa capire una cosa: il Mediterraneo riserva ancora parecchie sorprese (positive), a chi si prende la briga di interessarsene sul serio. Resta da vedere se nella nuova Italia a trazione renziana, le imprese vorranno seguire l’esempio che viene da Palazzo Chigi.

 

 

 

 

 

 

 

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