Economia
Uber e sharing economy, non è tutto oro quel che luccica
Sgomberiamo subito il campo dagli equivoci. Qui non si tratta di dar ragione ai tassisti, tantomeno a quelli – come ne esistono – disonesti, scortesi e inefficienti; ma neanche a quelli che proprio grazie alla concorrenza di Uber – giudicata sleale in decine di città e Paesi del mondo, non solo in Italia dal Tribunale di Milano – hanno colto l’occasione per migliorare alcuni aspetti del servizio offerto. E neanche si tratta di giustificare il presunto ritardo normativo da “Italietta” arretrata, che vorrebbe tutelare un servizio preistorico come quello del tassì anziché proiettarsi nel futuro. Anche perché questo compito, cruciale nel dirimere l’annosa vicenda Uber, spetterebbe e spetta – prima che al legislatore italiano, come chiesto ieri dall’Authority – alla Commissione europea, che secondo quanto sostenuto dal Financial Times ad aprile ci starebbe seriamente pensando, per porre fine al caos di corsi e controricorsi nei singoli Paesi.
Si tratta invece di capire se e come il ride sharing, branca della più acclamata e conosciuta sharing economy, o banalmente il passaggio in macchina dietro compenso, stia davvero migliorando le nostre vite e offrendo un servizio trasparente e vantaggioso. “La startup che inghiotte i taxi: una killer experience”: così l’ha definita Marc Andreesen, pioniere di Internet in quanto cofondatore di Netscape, esaltando il mito della “distruzione creativa” teorizzato da molti imprenditori della Silicon Valley. Per il momento, il vantaggio è però tutto della società fondata nel 2009 a San Francisco dall’eccentrico guru Travis Kalanick e finanziata grazie soprattutto a un investimento da 250 milioni di dollari da parte di Google Ventures: nel maggio di quest’anno Uber ha raggiunto la valutazione monstre di 50 miliardi di dollari, che la proietta verso una quotazione in Borsa da record. Per avere un parametro, Uber vale oltre il doppio delle autonoleggio Avis e Hertz messe insieme, che danno lavoro in tutto a quasi 60.000 persone. Il tutto mentre i tribunali di mezzo pianeta si stanno accorgendo che il servizio offerto dalla app va regolamentato: nell’estate 2014 Uber era infatti presente in 130 città nel mondo, adesso secondo il sito di Uber sono oltre 200, ma senza tenere conto dei Paesi in cui la app viene bloccata con una situazione che evolve – in negativo – di settimana in settimana. L’Italia si è dunque da poco aggiunta a Spagna, Francia e Germania, dove è battaglia da mesi tra ricorsi e contro-ricorsi: il nodo è sempre quello delle licenze, che in Italia sono regolate dalla legge sulla mobilità del 1992, sulla quale sarà necessario intervenire. Intanto però il servizio incriminato, UberPOP, quello che più direttamente è in concorrenza con i taxi, è già stato sospeso – ma in alcuni casi continua a operare abusivamente – anche in Paesi come Brasile, India, Australia, Sudafrica, Corea del Sud, Messico, Thailandia e nella città di Fukuoka, in Giappone.
Per non parlare degli stessi Stati Uniti: in Nevada e a Eugene, in Oregon, la sospensione è già definitiva, mentre in Alaska, Texas, Florida e nello stato canadese dell’Alberta è guerra aperta, con l’app momentaneamente bloccata. C’è maretta anche in alcune città importanti come la stessa San Francisco, San Diego e New York, dove la compagnia, che si vanta di dare lavoro a 20.000 nuovi driver ogni mese nel mondo, sosteneva di garantire a questi autisti la bellezza di 90.000 dollari l’anno. Dato smentito da un’inchiesta del Wall Street Journal, che ha smascherato come questa opportunità di lavoro frutti agli autisti – al netto delle spese da sostenere, compresa la proprietà di una macchina (che nel caso del servizio di alta gamma, UberBlack, deve essere anche di lusso) – al massimo 10 dollari l’ora. Una media da lavoro part time, tant’è vero che molti di loro cercano altre attività da affiancare, come del resto fanno – secondo i dati del Guardian – 7,5 milioni di americani (luglio 2014). “E’ l’ennesimo passo – spiega il quotidiano britannico in un articolo intitolato “Silicon Valley’s gig economy is not the future of work” – verso la frammentazione occupazionale, l’isolamento dei lavoratori e la diminuzione degli stipendi”. Insomma un modello economico effettivamente povero, che secondo una crescente corrente di pensiero dei più autorevoli quotidiani statunitensi può persino definirsi medievale, con un manipolo di grandi aziende nel ruolo dei feudatari e un plotone di “contadini” che ne alimentano il potere, lavorando per loro quasi gratis. “Addio middle class”, tuonano persino alcuni economisti: la vecchia classe media, rappresentata in questo caso dai tassisti o dai lavoratori full time e tutelati di Avis o Hertz, sta diventando proletaria (e precaria).
Questo anche perché il servizio, che talvolta viene percepito dall’utente finale come agile e conveniente, non lo è assolutamente per il lavoratore: inizialmente la commissione applicata da Uber su ogni viaggio era del 20%, ora sta salendo al 25% e in alcuni casi, sempre secondo quanto riportato dal Wsj, la startup californiana sta pensando di portarla al 30% nelle città dove effettua più corse. Una vera e propria tassa che però, come è noto, non viene pagata al Fisco dei rispettivi Paesi ma direttamente alla casa madre, che ne trae tutti i benefici del caso. Ma non è solo questione di soldi: i conducenti arruolati da Uber non hanno nessuna tutela sindacale, nessuna assistenza sanitaria e la società si guarda bene dal tutelarli nelle situazioni scomode, in quanto secondo la agile ma impietosa logica della sharing economy essi non sono impiegati, ma a loro volta utenti dell’app. “Qui non esiste né un sindacato né una comunità di conducenti: gli unici ad arricchirsi sono gli investitori e i dirigenti dell’azienda”, aveva lamentato un 65enne che aveva lavorato due anni con Uber al New York Times, in un articolo che l’autorevole quotidiano aveva iniziato con questo incipit: “It’s Travis Kalanick versus the world, and recently the world seems to be winning”.
In attesa che “il mondo vinca” (e non solo i tassisti, dunque), episodi come rapine e persino stupri non solo si verificano, come puntualmente raccontato dalla stampa americana negli ultimi anni, ma l’azienda non se ne assume alcuna responsabilità. Come nell’increscioso caso della vigilia di Capodanno 2014, quando un’auto di Uber investì, uccidendola, una bambina di 6 anni a San Francisco: l’azienda si affrettò a rimuovere l’account dell’autista, liquidando la terribile vicenda con un comunicato in cui si spiegava che “il conducente non forniva servizi sul sistema Uber durante il momento dell’incidente”. Circostanza difficile da dimostrare tant’è vero che il responsabile dell’incidente, un certo Syed Muzzafar, è stato incriminato di omicidio colposo e ha smentito la versione fornita da Uber: “Stava lavorando per loro – ha dichiarato il suo avvocato -: era in attesa di una corsa”. E questo non è l’unico episodio: inseguimenti con la polizia, con i clienti a bordo, per evitare posti di blocco; rapimenti e molestie sessuali; tentativi di furto in appartamento dopo aver accompagnato il cliente in aeroporto; e soprattutto clamorose scorrettezze sulle tariffe, da far impallidire alcuni tassisti italiani e da far ricredere coloro che considerano il servizio di Uber davvero così onesto ed economico.
Il cosiddetto “surge pricing”, ovvero la repentina impennata dei prezzi approfittando di situazioni particolari, non era evidentemente una prerogativa della vecchia economia dei “tassinari”. Sicuramente è stata una situazione molto particolare l’ondata di gelo che travolse New York nel dicembre del 2013: ad approfittarne però non furono (soltanto?) i tassisti ma l’economia del nuovo che avanza, del “tutto con un semplice clic” e della condivisione. Costretti a chiamare una macchina nella tormenta di neve, ad alcuni utenti è stato concesso “un passaggio” – in alcuni casi di pochissimi chilometri e pochissimi minuti, come testimoniato da tweet e screenshot – per tariffe dai 100 dollari in su (tutti casi documentati dalla stampa americana). E siccome la sharing economy non fa sconti a nessuno, la beffa è toccata anche alla moglie di Jerry Seinfeld, noto produttore televisivo e attore comico (protagonista della sitcom “Seinfeld”, in cui interpreta se stesso): durante la tempesta di neve del 14 dicembre Jessica Seinfeld ha versato a un driver di Uber 415 dollari per accompagnare i figli a un’importante cerimonia familiare dall’altra parte di Manhattan. L’episodio scatenò l’ironia del web (il marito ha un patrimonio da 800 milioni di dollari…) ma allo stesso tempo fece sì che molte altre persone pubblicarono sui social alcune fatture alquanto esose: il Los Angeles Times ha calcolato una media di aumento del 700-800% in molti casi, nei giorni festivi o di maltempo.
Ne esce dunque l’immagine di un servizio sostanzialmente da ricchi, come definito ironicamente dallo scrittore statunitense George Packer, peraltro nato e cresciuto a Palo Alto, cittadina della San Francisco Bay dove si trovava la vecchia sede di Facebook: “Uber e aziende analoghe sono state progettate per risolvere tutti i problemi dei ventenni, contante alla mano”, ha scritto il premio Pulitzer sul New Yorker nel maggio del 2013, quando di lì a poco sarebbe stato inaugurato il servizio Uber-CHOPPER, quello dello “strappo” in elicottero per 3.000 dollari a giro. E soprattutto l’immagine di un’economia che non offre alcuna certezza ai lavoratori, come ammonisce la columnist Natasha Singer sul New York Times parlando di una nuova classe di “lavoratori peer-to-peer e sottopagati”, in riferimento anche ad altre realtà dell’economia interconnessa come il sito di ricerca di lavoro TaskRabbit. Del resto, come sostenuto sempre da Packer, “la stessa Silicon Valley è uno dei posti dove vige la maggior disparità al mondo”. Secondo i dati della Chapman University, l’occupazione dell’area indicata come modello di sviluppo economico del futuro è andata calando costantemente dopo la bolla delle dot-com del 2000, con 40.000 posti persi negli ultimi 12 anni. Non solo: un rapporto della Joint Venture Silicon Valley segnala un aumento del 20% dei senzatetto dal 2011 al 2013 e il livello di povertà è balzato dall’8% del 2001 al 14% del 2013, con le richieste di sussidi alimentari quintuplicate. Questo c’entra forse poco con Uber, ma molto con il suo modello economico. Per dirla con David Byrne, leader storico dei Talking Heads, in un suo intervento sul Guardian nel marzo 2014: “Come sarà la vita dopo internet? Voglio dire, non c’è niente che dura per sempre, giusto?”.
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