Commercio globale
Trump ed il commercio: elementi di economia per un presidente inconsapevole
Le minacce altisonanti che in campagna elettorale avevano permesso a Trump di guadagnare voti preziosi, poi rivelatisi decisivi, nella Rust Belt degli Stati Uniti, ovvero la porzione del paese dove l’eco di illusorie promesse si diffondeva con maggior fragore, hanno trovato nelle scorse settimane la propria concretizzazione formale nei dazi sull’importazione di alcune merci e materie prime cinesi. Su tutte, colpisce il rimarchevole aumento del 25% sulle importazioni di acciaio, del 10% su quelle di alluminio e, qualche mese fa, del 30% sulle importazioni di pannelli solari “Made in China”.
Fino a qui nessuna sorpresa: il presidente degli Stati Uniti ha infatti sempre sostenuto che la delocalizzazione incontrollata, il valore – artificialmente – basso dello yuan e le pratiche commerciali scorrette di Pechino abbiano portato alla progressiva chiusura di migliaia di fabbriche americane, dall’Ohio al Michigan, dalla Pennsylvania al Texas, e alla conseguente perdita di milioni di posti di lavoro.
Neanche dall’altra parte del Pacifico ci sono state sorprese: i media cinesi e l’agenzia Xinhua, strumento di propaganda della nomenklatura pechinese, hanno interpretato i dazi di Washington come uno spregiudicato ed inaccettabile attacco mirato a minare alle sue fondamenta il sistema commerciale globale. ll leader cinese Xi Jinping, appena rieletto con un mandato ad vitam aeternam, ha usato gli attacchi di Trump per rafforzare il messaggio del partito comunista cinese secondo cui gli Stati Uniti sono determinati a fermare adesso più che mai l’ascesa della Cina. “La Cina non ha paura di una guerra commerciale”, ha dichiarato in una conferenza stampa il vice ministro delle finanze, Zhu Guangyao, che ha prontamente aggiunto che la Repubblica popolare cinese, come contromossa, avrebbe iniziato ad imporre dazi su 128 categorie di prodotti provenienti dagli Stati Uniti, inclusi alcuni beni alimentari, come la carne di maiale e soprattutto i semi di soia.
Quali saranno dunque le ripercussioni sui consumatori e sui produttori cinesi e americani? Le politiche protezionistiche sono ancora uno strumento efficace per difendere i produttori nazionali in un mondo interconnesso e globalizzato come quello in cui viviamo?
Introdurre dazi sull’acciaio e sull’alluminio potrebbe teoricamente proteggere l’industria siderurgica americana nel breve periodo, ma rischia di avere effetti negativi causando un “effetto domino” – sull’industria dell’auto e dell’elettronica, per esempio, ma anche quelle dei macchinari industriali e dell’aerospaziale – con conseguente perdita di posti di lavoro nel medio-lungo periodo.
Le simulazioni del Fondo Monetario Internazionale stimano che un aumento del 10% dei dazi Usa ridurrebbe dell’1% il Pil statunitense nel lungo termine e dello 0,3% quello del resto del mondo. Non ci sarebbe dunque un trasferimento di produzione da un Paese all’altro: tutti, alla fine, perderebbero qualcosa.
Mario Draghi, presidente della Bce, ha ribadito che il protezionismo commerciale accompagna con sé una serie di rischi e potrebbe avere ripercussioni da contenere, visto che ha effetti diretti sulle economie dei singoli paesi e che offre la possibilità di ritorsioni (Tit-for-Tat) ed una perdita di fiducia generalizzata nel futuro, che andrebbe a sua volta a scapito della crescita globale.
L’errore fondamentale di Trump – e di tutti quelli che non hanno mai aperto un manuale di “Principi di Microeconomia” o di “Economia Internazionale” – è quello di vedere il commercio come un gioco a somma zero, in cui l’esportazione decreta i vincitori (che non rispettano le regole, nel caso della Cina) e l’importazione i perdenti, che soffrono passivamente gli sbilanci della propria bilancia commerciale.
In realtà, i proventi del commercio internazionale, dell’interscambio sia di materie prime che di prodotti tra le nazioni, derivano dalla specializzazione consentita dal liberoscambio di merci, capitali e know-how che consente, ad esempio, agli I-Phones progettati in California, assemblati in Cina con materie prime che vengono dalla Bolivia, di essere venduti in tutto il mondo dal gigante di Cupertino ad un prezzo dieci volte inferiore rispetto a quello che avrebbero se la produzione fosse interamente “Made in USA”.
Una nazione che riesce a produrre un bene con la minore quantità di fattori gode di un vantaggio assoluto.
Una nazione che ha il più basso costo opportunità per produrre un bene gode invece di un vantaggio comparato.
I benefici del commercio si fondano sui vantaggi comparati e non su quelli assoluti.
Trump dimostra di non navigare con agilità tra i concetti base del modello di Ricardo e del modello di Heckscher-Ohlin. Ma questo non ci sorprende affatto.
La Cina e le altre economie emergenti hanno sì eroso il vantaggio delle economie avanzate in numerose produzioni industriali ma, essendo il vantaggio comparato per definizione relativo, ci saranno sempre beni di consumo che sarà – relativamente – più conveniente produrre in alcuni paesi piuttosto che in altri.
L’interdipendenza ed il commercio tra paesi sono elementi fondamentali perché permettono a ciascuno di godere di una maggiore quantità e varietà di beni e servizi.
Questo non lo dicono solo gli economisti, gli intellettuali, i “professoroni” contro i quali Trump ama inveire, in pieno stile populista, a suon di twit roboanti, ma ce lo insegna la storia stessa.
Quando per esempio il presidente George W. Bush (che in prospettiva comparativa, se paragonato a Donald, appare oggi -rendiamoci conto- come un abile stratega e un sofisticato statista d’altri tempi) alzò i dazi sull’acciaio nel 2002, il Pil degli Stati Uniti subì una flessione pari a oltre 30 miliardi di dollari e circa 200.000 posti di lavoro andarono persi, 13.000 dei quali proprio nell’industria siderurgica.
Vanno ricordati inoltre i risultati disastrosi dello Smoot-Hawley Tariff Act, approvato dal Congresso americano nel 1930, in risposta al crollo di Wall Street. I dazi medi sulle importazioni di beni esteri verso gli Stati Uniti aumentarono dal 38 al 45%. I dazi, inizialmente pensati per proteggere il settore agricolo, furono presto estesi a centinaia di categorie di beni di consumo e provocarono un crollo della domanda interna. Anche le esportazioni di beni prodotti dagli Stati Uniti, che subirono come contromisura aspri dazi innalzati in Europa, crollarono del 60%. Il tasso di disoccupazione nel frattempo triplicava dall’8% al 25% ed in Europa si creava l’humus ideale per il profondo radicamento dei movimenti totalitari.
La teoria economica ci insegna che il vantaggio di un dazio verso delle materie prime o delle merci importate, imposto teoricamente a beneficio dei produttori nazionali e dunque dello Stato stesso, è inferiore nella forma di un aumento del gettito allo svantaggio economico subito dalla generalità dei consumatori e rappresenta dunque un danno per l’economia nel suo complesso.
E almeno questo Donald dovrebbe saperlo.
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