Economia
Quel male italiano chiamato corruzione
Sono passati due secoli e mezzo da quando Voltaire rassicurava Federico II di Prussia – e insieme a lui, gli altri colleghi illuminati che dominavano l’Europa – di non allarmarsi per le verità di cui il popolo sarebbe potuto venire a conoscenza, tanto questo “non legge: lavora sei giorni la settimana e il settimo va al cabaret”.
Oggi, per fortuna, non bisogna più aspettare la domenica per farsi due risate, perché la televisione offre comici e risate quotidianamente; allo stesso tempo il popolo è assai più colto, l’analfabetismo è stato sradicato e l’obbligatorietà scolastica ci ha reso tutti, chi più chi meno, in grado di fare di conto, di leggere, scrivere e posizionare correttamente qualche nome di città su una cartina muta del mondo.
Eppure, nonostante i continui progressi politici, sociali e culturali, noi italiani non siamo ancora riusciti a scendere a patti e risolvere alcuni problemi che limitano e mortificano le capacità economiche e di governo del nostro stano paese a forma di stivale.
Uno su tutti, la corruzione.
Pur segnando qualche miglioramento nel giudizio e nel ranking assegnato all’Italia, il nuovo Indice di Percezione della Corruzione (CPI) pubblicato oggi, relega nuovamente l’Italia in una posizione non certo onorevole: terzultima in Europa e sessantesima nel mondo.
Come anticipato, dei piccoli passi in avanti sono stati fatti: il voto di 47 su 100 preso quest’anno dall’Italia è di tre punti superiore a quello dell’anno scorso e anche in relazione alla nostra posizione in Europa, il terzultimo posto è sempre meglio del penultimo dell’anno scorso e dell’ultimo dell’anno precedente ancora.
Insomma, si può parlare di un bicchiere mezzo pieno, poiché passando dal cabaret allo sport, l’Italia dopo diversi anni di caduta libera fino a raggiungere il fondo, oggi è tornata a sgomitare e combattere per un posto a metà classifica.
Il dato sulla corruzione percepita non è per nulla ininfluente, tanto più in un periodo in cui diventa fondamentale non sprecare le già scarse risorse a disposizione dello Stato. Alti livelli di corruzione si traducono infatti in soldi pubblici “bruciati” per opere o troppo costose, o fatte male o, addirittura, inutili. Ma non solo, anzi, dal mio punto di vista il danno economico immediato è quello che fa forse più impressione, ma non è certo il peggiore.
Pensiamo ad esempio al danno di lungo periodo che la corruzione provoca alle capacità economiche del Paese, al suo tessuto imprenditoriale e più in generale alla competitività. In questo senso fa scuola l’esempio della farmaceutica italiana, che un tempo dominava i mercati ma che dopo “Mani pulite” si è trovata sensibilmente ridimensionata. Come ha fatto notare il professore Vincenzo Atella in un articolo pubblicato qualche anno fa sul post-tangentopoli “chi ha veramente perso sono solo le imprese italiane, mentre le imprese estere hanno regolarmente continuato a fare ricerca in quanto impegnate su mercati globali molto più competitivi”.
Dagli errori del passato dovremmo dunque imparare che il costo della corruzione non lo ha sopportato “solo” chi si trovava a dover acquistare un farmaco a prezzo maggiorato, ma soprattutto le generazioni future che si sarebbero trovare di fronte un mercato del lavoro impoverito se non, in certi casi, desertificato.
Si diceva poco sopra del costo spropositato di opere fatte male o inutili (se ne possono trovare anche di inutili e fatte male allo stesso tempo, per amanti del genere), ma non mancano i casi di opere ormai assurte a livello mitologico a causa dei tempi necessari per la loro costruzione. Ovviamente spiccano in questo senso i 450 chilometri scarsi della Salerno-Reggio Calabria, i cui lavori furono inaugurati dall’allora Primo Ministro Amintore Fanfani nel 1961 e che solo quest’anno, pare, sono stati completati. C’è poi il caso del Mose di Venezia, ben raccontato nel libro “Corruzione” di Serena Uccello, un’opera tanto necessaria quanto avanzata tecnologicamente, che avrebbe – il condizionale è d’obbligo – lo scopo di proteggere la città più bella del mondo dall’acqua alta. L’idea iniziale risale al 1966, il primo bando al 1975, gli arresti per corruzione sono invece cronaca recente, perché nel frattempo l’opera è ancora in fase di costruzione e le mazzette, pare, continuano a girare.
Le grandi opere sono per loro natura particolarmente esposte al rischio di corruzione, vuoi per la complessità tecnica che le contraddistingue, che solo pochi sanno decifrare, vuoi per gli ingenti investimenti pubblici richiesti su cui è difficile effettuare un controllo puntuale, vuoi perché a ben vedere, una grande opera pubblica si può fare solo se c’è un consenso politico. E proprio quest’ultimo punto ci porta a un altro grande tema: l’integrità della classe politica.
Se il CPI punisce l’Italia, dipingendola come un paese dove classe politica e pubblica amministrazione non spiccano certo per trasparenza e integrità, assimilandola in questo più ad alcuni paesi in via di sviluppo che alle grandi potenze dell’occidente e del Nord Europa, qualche motivo c’è.
Per non cadere nell’autoreferenzialità ne riporto alcuni di quelli citati pochi giorni fa dal GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa): tanto per cominciare siamo ancora sprovvisti di una legge sul conflitto di interessi. Se negli ultimi venticinque anni vi è capitato di sfogliare un giornale, avrete certamente notato che il tema è di quelli che regolarmente tornano all’ordine del giorno. Generalmente la dinamica è molto semplice: scoppia uno scandalo che coinvolge uno più esponenti politici, stampa e società civile si indignano, tutte le forze politiche si trovano d’accordo che no, non si può più andare avanti così, navigando a vista, senza una legge che regolamenti i conflitti di interessi di Parlamentari e Ministri. Poi, non appena il caso perde di interesse mediatico e la società civile si indigna per qualcos’altro, la legge sui conflitti di interesse viene nascosta in un qualche cassetto e dimenticata, salvo ritirarla fuori allo scandalo successivo, con la stessa dinamica.
C’è poi la questione del lobbying, o meglio, non c’è, nel senso che l’Italia ancora aspetta una regolamentazione delle relazioni che i decisori pubblici possono o non possono avere con soggetti terzi portatori di interessi. A dirla tutta, in Italia non esiste neppure una definizione di lobbista, figurarsi poi un registro in cui i lobbisti debbano iscriversi e rendicontare le loro attività. Per inciso, il nostro paese è uno dei pochissimi in Europa a non aver ancora regolamentato questa attività, così sensibile per il buon funzionamento del processo democratico.
Eppure descrivevo il bicchiere mezzo pieno e così continuo a vederlo, nonostante non mi senta un inguaribile ottimista. Bisogna però dare atto che la famosa legge Severino, varata ormai più di quattro anni fa, sta cominciando a dare i suoi frutti. Innanzitutto l’aver istituito l’Autorità Anticorruzione ha fornito il nostro paese di un soggetto credibile e capace che grazie anche al carisma di Raffaele Cantone si è imposto negli ultimi due anni come riferimento per il mondo dell’anticorruzione. I poteri speciali conferiti l’anno scorso all’ANAC, in particolare quello che gli permette di commissariare degli appalti su cui ci sono forti indizi di corruzione, è uno spauracchio non da poco per i corrotti e i corruttori.
Anche a livello di pubblica amministrazione, i nuovi obblighi di trasparenza, la richiesta di stilare dei piani anticorruzione contenenti un’analisi dei rischi, la creazione della figura del responsabile per la prevenzione della corruzione, la promozione di una cultura dell’integrità pubblica anche con specifici momenti formativi, sono novità che hanno imposto quantomeno una riflessione all’interno degli enti sulla loro effettiva capacità di prevenire i fenomeni di corruzione.
In definitiva credo che, seppur a piccoli, piccolissimi passi, qualcosa si stia muovendo nella giusta direzione. Anche perché, va detto, l’epoca che stiamo attraversando, a differenza dei ruggenti anni ’80, non permette ulteriori ritardi o errori di calcolo: o si cambia per davvero o ci si dovrà abituare al ruolo di povero paese del mediterraneo, attraente per turisti, imprenditori senza scrupoli e cabarettisti della domenica.
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