Economia
Quel che manca alla recente Legge Delega fiscale
Il fisco – i suoi principi, l’ordinamento delle singole imposte, la “macchina” per amministrarlo – dovrebbe essere l’attività principale di ogni Parlamento (“no taxation without representation”, ci hanno insegnato gli inglesi).
E ci si attende che – almeno in occasione di una Riforma – il legislatore abbia a cuore soprattutto la necessita di agire su quello che per Keynes era uno dei (due) “difetti più evidenti della Società economica nella quale viviamo: la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi” (essendo l’altro “l’incapacità a provvedere alla piena occupazione”).
E, invece, la corsa finale dei Deputati – con i trolley pronti, i treni e gli aerei per le vacanze già prenotati – per approvare dopo anni di dibattito (e tre letture nei due rami del Parlamento) la legge delega per la Riforma Fiscale non ha prodotto risultati all’altezza di tale obiettivo.
Non solo perché il testo che viene consegnato al Governo appare piuttosto contraddittorio.
Vi si trovano, infatti, accostati tra loro anche un po’ casualmente, principi altisonanti (la progressività, ad esempio) e propositi in aperto contrasto con essi (la “transizione verso un’aliquota impositiva unica”), dettagli inadeguati ad una legge delega pensati più in funzione del consenso politico di oggi che del fisco di domani, la volontà di semplificare il rapporto cittadini-amministrazione prima ancora di fissare l’ordinamento futuro e, soprattutto, la promessa – cara ad ogni politico – di ridurre il gettito fiscale complessivo.
Nessuna forza politica, né di maggioranza né di opposizione, si è cimentata seriamente con la sfida – l’unica davvero degna di una Riforma storica – di come orientare la riforma tributaria a ridurre (correggere, attenuare…) “la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi”.
Per comprendere che ce ne sarebbe una qualche ragione, sarebbe stato sufficiente guardare i dati sul gettito Irpef, secondo i quali meno di 100 mila italiani su 20 milioni di contribuenti hanno redditi annui superiori a 200 mila euro.
Una riflessione solo un poco più approfondita avrebbe portato all’attenzione di tutti la necessità di reintrodurre nell’ordinamento una qualche forma di significativa imposta di successione.
Keynes – non la sua vulgata basata sulla spesa pubblica facile, ma il Keynes della “filosofia sociale” del capitolo conclusivo della sua Teoria Generale – ammoniva circa “la confusione esistente nella mente del pubblico, bene illustrata dall’opinione assai comune che le imposte sulle successioni provochino una riduzione della ricchezza capitale del Paese” ma in Italia il tema è diventato un vero tabù e parlarne cosa da giacobini o, peggio, veri e propri bolscevichi.
Quando viene proposto è agitato in modo propagandistico e strumentale – come, da ultimo, ha fatto l’ex segretario del PD Letta, abbinando maggiori tasse di successione all’ennesimo bonus universale.
Non erano certo giacobini i governi che – in occasione della riforma fiscale del 1972 – concepirono imposte di successione basate su aliquote progressive gravanti sull’intero asse ereditario dal 3% al 27%, cui si univa una tassazione sulle singole quote di eredità – con aliquote dal 3% al 33%, sostanzialmente senza franchigie – con una doppia progressività, in relazione al valore e al grado di parentela dell’erede.
La Legge introdotta dal governo Amato nel 2000 – erano i tempi in cui il centro sinistra tentava di recuperare consensi nei confronti della Lega, riducendo le imposte e promuovendo il “regionalismo malato” del nuovo Titolo V – ha fatto del sistema fiscale italiano quello con le imposte di successione più basse. O, meglio, quello con tasse di successione inesistenti.
Le aliquote sono piatte e molto basse (dal 4% all’8%, in funzione del grado di parentela dell’erede), esenzioni e franchigie le riducono ulteriormente e i beni immobili sono valutati secondo anacronistici valori catastali e non ai valori di mercato.
Risultato finale: le imposte di successione sono pagate da pochi e per importi irrisori.
Anziché continuare a tassare in modo sproporzionato imprese e lavoratori sarebbe molto più utile intervenire sui passaggi generazionali delle ricchezze.
Contribuirebbe a dare connotati di maggiore equità all’imposizione fiscale complessiva.
Per capire che non sia cosa giacobina o bolscevica basta rileggere Luigi Einaudi, secondo cui “limitare le ricchezze possedute per eredità può giovare potentemente all’abbassamento degli alti papaveri ed all’ingrossamento del patrimonio pubblico”.
In primo luogo, perché “in una società sana, duratura, i giovani debbono potere partire da situazioni non troppo disuguali” e, dunque “decimando le fortune acquisite da tempo, i nipoti ed i pronipoti di chi formò una fortuna, non possano valersene se non in parte nella gara per la vita”.
Giustizia ed equità sociale, dunque.
In secondo luogo, per spingere ad un utilizzo produttivo delle ricchezze, in modo che “gli eredi di colui che formò una fortuna, mentre sono costretti a trasferirne allo stato una porzione sempre più grande, sino al tutto, ad ogni successivo trapasso a causa di morte, siano contemporaneamente indotti a ricostituire col lavoro e col risparmio la quota che essi debbono consegnare allo stato”.
Poiché il pensiero di Einaudi è poco noto ai politici – di destra e di sinistra – di oggi, basterebbe loro considerare due evidenze incontrovertibili della società italiana.
Siamo una società con una bassissima mobilità sociale e con una elevata diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze.
Siamo una società che invecchia in modo rapido e inesorabile.
Nel 2022 sono nati meno della metà dei bambini nati nel 1944 o nel 45. Con 15 milioni di italiani in meno e qualche “problema tecnico” – le bombe e gli uomini al fronte o in montagna – in più.
Più vecchi e con meno figli significa anche molte più famiglie senza eredi diretti, il che rende ancora più iniquo tassare al 6% il trasferimento generazionale della ricchezza al parente di quarto grado o all’8% quello in favore di altri soggetti, come oggi avviene.
Una riflessione finale sugli effetti benefici – oltre all’equità che sarebbe già ragione sufficiente – di una profonda riforma delle imposte di successione.
La condizione perché sia guidato accettabile un sistema in cui “l’imposta successoria prelievi ad ogni generazione percentuali in media notevoli dei patrimoni costituiti” è quella indicata sempre da Einaudi: la destinazione del suo gettito non a spesa corrente e cioè che “il provento di essa non sia consumato, ma prenda la forma di capitali pubblici, sia investito dallo Stato”.
Del resto, le esigenze di investimento pubblico nelle infrastrutture, materiali ed immateriali, che sostengono lo sviluppo economico e la coesione sociale del Paese sono evidenti agli occhi di tutti e appaiono di gran lunga superiori rispetto a qualsiasi gettito delle imposte di successione per lungo tempo.
Per rispondere all’obiezione di chi ritiene che reindirizzare una parte importante della ricchezza privata a favore del benessere collettivo e della riduzione delle disuguaglianze trasferirebbe troppe risorse ad uno Stato inefficiente, basterebbe introdurre un semplice e banale correttivo.
Prevedere che il passaggio dalle attuali ed irrisorie aliquote ad un sistema di tassazione delle successioni come quello delineato venga accompagnato dalla possibilità, concessa ad ogni individuo, di destinare la differenza tra vecchia e nuova imposta a donazioni e finalità filantropiche a beneficio di università, musei, ospedali, enti di ricerca, organizzazioni impegnate in attività di interesse generale di rilevanza sociale e culturale.
Si otterrebbe l’ulteriore risultato di garantire un profondo riorientamento della ricchezza e una ricostruzione del capitale pubblico del Paese, responsabilizzando i singoli cittadini e senza la necessità di un intervento redistributivo diretto dello Stato.
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