Economia

Prima di domani. Collaborazione, cooperazione e attivismo civico

24 Aprile 2020

Anche in presenza di un sistema pubblico ampio e universalistico come il nostro, l’emergenza Coronavirus con la sua portata e natura sistemica chiama in causa tutti, attori pubblici e privati, e più che mai anche i cittadini.

L’Italia si è scoperta ricca di risorse, umane, materiali, immateriali e economiche, e ha messo in moto una capacità impressionante di mobilitarsi di fronte alla sfida comune. Senza dubbio, la crisi del Covid-19 sta realizzando una grande prova generale di cooperazione, condivisione e solidarietà, facendo uscire queste parole (ed esperienze) dalle nicchie, e portandole a tutti, mettendone alla prova l’inclusività.

Le nostre città sanno che la capacità di attivazione delle nostre comunità è una ricchezza, una vera e propria competenza, una risorsa su cui sappiamo ogni volta di poter contare, ma che in momenti di “pace” spesso dimentichiamo di avere, esercitare e nutrire. Pur non essendo conclusa, questa grande prova può aiutare il mondo della cooperazione, della solidarietà e dell’economia civile a crescere e rafforzarsi, inventando formule nuove a partire dalle esperienze che in questo tempo, per ingegno o necessità, stanno mettendo in campo e testando.

I primi elementi che sembrano emergere in questo periodo in cui pensare è difficile – ed il pensiero sembra essere continuamente superato, frammentato, e a volte completamente spiazzato dalla cronaca nel giro di poche ore – riguardano tre macro dimensioni, a loro volta strettamente interconnesse:

Interdipendenza: la scala dei fenomeni attuali e la necessità di stimolare la capacità di agency della cittadinanza, di resilienza dei sistemi locali e di prossimità dei servizi essenziali.
Collaborazione: la crisi e le nuove opportunità dell’economia collaborativa, co-working compresi.
Cooperazione: neo- mutualismo, governance e piattaforme. Per una nuova economia.

1. Interdipendenza, interconnessione, “glocalizzazione”

Se le 3 parole chiave attorno a cui si è definita la cosiddetta “Co-economy” erano collaborazione, condivisione e cooperazione, oggi, di fronte ad uno shock globale, possiamo inserire un elemento di riflessione ulteriore, che faccia riferimento all’interdipendenza come aspetto determinante, anche nell’agire delle altre dimensioni.

Riguardo alla scala dei fenomeni globali, è apparso evidente come il sistema di coordinamento dell’azione globale di fronte all’iperoggetto “Sars-Cov2” sia stato carente; sia il centralismo come il decentralismo hanno dimostrato i propri limiti (“Cooperare e poi cooperare” ci suggerisce Jared Diamond)  ed in molti casi alle mancanze sistemiche hanno in parte sopperito gli individui, più o meno formalmente organizzati. Ne sono esempio le soluzioni trovate dalle molteplici comunità di pratica diffuse sul territorio e riguardanti più ambiti: ; quelle dei Fablab; così come altre soluzioni condivise che possono essere anche di carattere pedagogico, economico, esperienziale.

Ma la reazione degli anticorpi sociali dell’umanità al virus che stiamo vivendo ed osservando non è un caso isolato né nuovo. Se intendiamo la pandemia globale come “Iper-oggetto”, un altro di questi, già presente e temibile, cui fa riferimento Morton, è il cambiamento climatico.  Un fenomeno pervasivo, in cui siamo letteralmente invischiati, che ci riguarda sia come agenti attivi che passivi e che non si risolve senza un’azione globale, che al contempo non sia anche comunitaria, però.
Nella pandemia, così come nel cambiamento climatico l’uomo può porsi nei confronti di questi iperoggetti solo asimmetricamente, per cui nonostante accumuli sempre più dati su di essi, non può conoscere totalmente l’iperoggetto, anche se ne fa parte. Morton spiega ancora che l’uomo non può cogliere gli iperoggetti nella loro interezza in primo luogo perché questi sono non-locali, e ondulatori temporalmente, cioè distribuiti diffusamente nel tempo e nello spazio. In ogni caso, le capacità di reazione adattativa o trasformativa a entrambi questi fenomeni sembrano passare attraverso soluzioni che si basino su un nuovo concetto di “locale”, su nuovi sistemi di ricerca, innovazione e produzione decentrati, diffusi e distribuiti, che rendano possibile per le persone la partecipazione attiva, l’apprendimento continuo, la riorganizzazione rapida e consapevole della propria azione e delle proprie scelte di vita.

Non si tratta di un ritorno ai localismi, ma piuttosto della riproposizione, non più come esperimento ma come pratica quotidiana ed in evoluzione, di modelli “Glocalizzati”, dove le organizzazioni comunitarie reagiscono ai problemi sociali considerandoli né locali né globali, ma interdipendenti e interconnessi, ed attivando pratiche organizzative che li affrontano contemporaneamente su entrambe le scale. Questo è reso possibile dalla tecnologia, ma anche da un’azione di rete che permette il trasferimento di buone pratiche e l’azione coordinata a livello globale, tenendo insieme le pratiche e la generazione di beni relazionali locali con la rafforzata capacità di un’azione legata ad obiettivi strategici comuni dell’uomo.

2. L’equilibrio tra economia e collaborazione

Da un punto di vista epistemologico, rispetto alla sua nascita, si sono ormai disambiguate le categorie dell’economia collaborativa. Da un lato ci troviamo di fronte a esperienze che vengono dal basso e usano le tecnologie digitali per valorizzare dinamiche collaborative di tipo solidaristico (per questo tipo di esperienze – come dice Marta Mainieri, founder di Collaboriamo, nella nostra intervista – “l’equilibrio tra le parole economia e collaborazione è ancora un equilibrio difficile da trovare”); dall’altro abbiamo i modelli di impresa-piattaforma che utilizzano la tecnologia per sviluppare nuovi mercati, riuscendo a mobilizzare risorse diffuse e a creare nuove modalità di coinvolgimento, ma di fatto anche riproducendo le caratteristiche tipiche del capitalismo finanziario. Una terza prospettiva, se vogliamo, che pur affermandosi fin dalla scorsa decade non è ancora arrivata a maturazione – ma a cui tutti oggi guardano come ad una sorta di panacea – è quella del cooperativismo di piattaforma, che rappresenta il punto di congiunzione tra collaborazione e cooperazione: e che può rappresentare anche il punto di equilibrio tra economia e sostenibilità, attraverso forme di nuovo mutualismo (scambio) e governance (potere/relazione).

Se da un lato, quindi, l’emergenza Covid-19 e le sue implicazioni hanno messo in ginocchio interi settori della sharing economy che si basavano sulla condivisione di asset materiali (appartamenti, auto, uffici); dall’altro “l’emergenza fa crescere la collaborazione” dando grande impulso a tutte quelle esperienze solidaristiche, collaborative e comunitarie che Marta Mainieri ha iniziato a mappare e poi contribuito a strutturare nella piattaforma pubblica Milano Aiuta. La chiacchierata con Marta parte proprio da questa considerazione e si concentra subito nella riflessione su quello che sta accadendo oggi e potrà o dovrà accadere, domani.

Le dimensioni su cui si sofferma sono la gratuità, il rapporto fisico/digitale e la fiducia, tutti aspetti tenuti in piedi dalla presenza di una comunità. La gratuità, il dono, la solidarietà sono stati la prima reazione, se vogliamo anche emotiva, di individui ed organizzazioni che si sono sentiti appartenere alla comunità locale, cittadina o finanche mossi da un moto di orgoglio nazionale. Gratuità come reazione ma anche come spazio di prova, per sperimentare nuovi servizi e modalità di relazione in digitale, che poi potranno misurarsi col mercato e diventare servizi complementari rispetto a quelli forniti in precedenza. Si, perchè nella ricerca dell’equilibrio tra economia e collaborazione, questi prototipi dovranno trovare una qualche forma di sostenibilità economica e dovranno integrarsi nel rapporto con il mondo fisico. Se infatti la relazione digitale riesce a nascere grazie alla presenza di una comunità esistente – che attraverso il digitale può anche crescere e cambiare forma – questa, per trasformare i suoi legami deboli in relazioni comunitarie, dovrà tornare ben presto a confrontarsi con lo spazio fisico: le comunità hanno bisogno di luoghi.
Lo spazio fisico sarà anche una variabile capace di condizionare la fiducia. I servizi collaborativi si basano su uno scambio che è abilitato dalla fiducia tra i soggetti che lo praticano. Se si lavora bene come abilitatori la fiducia online tra community e brand e tra membri della community si mantiene. Mainieri si pone la domanda di cosa accadrà quando torneremo ad abitare uno spazio fisico, tra le regole del distanziamento sociale e la “paura” dell’altro. Probabilmente non avremo più alcuna voglia di condividere l’auto con qualcuno; ci sarà un calo di fiducia nell’altro. Saranno invece le istituzioni, capaci di garantire norme di igiene e sicurezza in luoghi pubblici, a guadagnarne in fiducia?

In generale possiamo osservare che molte delle misure di adattamento all’emergenza stanno ponendo un’enfasi maggiore sulla condivisione dei servizi ma non necessariamente degli spazi. E questa potrebbe diventare una tendenza che rimarrà anche dopo, l’esperienza di questo tempo potrà avere ripercussioni definitive sulle nostre preferenze sociali e scelte di vita, dematerializzando e in parte localizzando molte delle scelte di consumo precedenti. 

Nell’ambito del coworking, ad esempio, è possibile ipotizzare una forte crisi nel breve periodo, ma anche, in un lasso di tempo più lungo, una trasformazione ed una nuova funzione sociale di questi spazi. Se le grandi aziende, scoperti i vantaggi dello smart working, si adopereranno a smaterializzare i propri uffici ed a localizzare una parte delle proprie risorse intellettuali a casa, sarà necessario pensare a nuovi luoghi che rendano possibile l’incontro fisico di queste persone, accelerando l’apertura delle aziende tradizionali a community innovative come quelle che ospitano molti spazi di lavoro condiviso. Gli spazi di coworking non soddisfano solo le esigenze dei lavoratori remoti: sono una struttura di supporto cruciale per le piccole imprese, le imprese individuali, i lavoratori autonomi e altri imprenditori. In particolare, sono un’ancora di salvezza per le piccole imprese che “operano alla periferia” delle economie locali. Per molti di loro infatti, lavorare a casa non fornisce accesso alle risorse relazionali e alle opportunità di cui hanno bisogno. Da qui il ruolo fondamentale dei coworking non solo come piattaforme ma anche come potenziali intermediari a cui – come suggerisce l’articolo di Forbes – enti locali e territoriali dovrebbero rivolgersi per vedere (a) come possono utilizzarli per sostenere l’economia locale e (b) come possono supportarli nel continuare a soddisfare il loro ruolo vitale.

Questi spazi sono già caratterizzati da una forte flessibilità e modularità, fondamentale ad accogliere i cambiamenti organizzativi che segneranno il periodo di uscita dall’emergenza e quello post – emergenziale. La collaborazione, la condivisione, la cooperazione rese possibili da questi spazi potrebbero diventare, a seguito della crisi, la componente forte e caratterizzante di ciò che questi spazi offrono. Meno scrivanie, più spazio per opportunità, servizi, soluzioni, relazione e generazione di nuove idee.

3. Cooperazione: neo-mutualismo, governance e piattaforme

La crisi apre anche nuovi spiragli per la riorganizzazione delle piattaforme e delle modalità di condivisione, con una ritrovata centralità della filosofia Open Source così come del cooperativismo di piattaforma, e più in generale di nuovi modelli che stimolino la partecipazione ed una governance più aperta delle piattaforme, veri e propri beni comuni digitali, la cui importanza è diventata ancora più evidente ora che molti dei beni pubblici fisici ci sono preclusi.

Già nel 2015 ci siamo interrogati, in questa ricerca, su quali fossero i legami e le connessioni tra economia collaborativa e cooperazione. Oggi, le evidenze dei forti punti in comune non si sono ancora tradotte in opportunità concrete di trasformazione, né per un settore, né per l’altro. D’altro canto – ci dice Paolo Venturi, direttore di Aiccon – adesso si intravede ancora di più la possibilità e la necessità che la collaborazione riesca a scalare in cooperazione, attraverso i modelli proposti dal neo-mutualismo e dal capitalismo comunitario. Ossia modelli mirati a migliorare efficienza e appropriatezza del sistema di protezione sociale nel suo complesso, e a rendere i cittadini più partecipi e attivi nella costruzione di tali risposte, non solo come co-finanziatori ma coprotagonisti di un sistema welfare plurale e sussidiario rinnovato.

Un approccio questo però che, prima di essere orientato a soluzioni operative (piattaforme), deve essere un approccio culturale,  politico ed intenzionale, un pensiero forte, capace di valorizzare il mutualismo che nasce dal basso incorporandolo nell’economia, nella società, nel welfare e nelle politiche. 

Nel neo-mutualismo trovano risposta le dimensioni del rischio, della vulnerabilità e dell’interdipendenza; dall’assunzione delle quali non può prescindere alcun processo trasformativo dei nostri sistemi economici e di convivenza. E se il mutualismo è la modalità con cui le persone valorizzano un apporto all’interno di uno scambio, oggi diviene ancora più potente nel consentire di individuare nuove soluzioni intorno ai bisogni e alle relazioni; e questo è il principio fondante della cooperazione. In questo senso il neo-mutualismo oggi può divenire lo strumento con cui riuscire a far scalare la collaborazione ad una dimensione cooperativa; ed in questo senso si capisce quanto la chiave di questo ragionamento risieda nel tema della governance. Una governance aperta, distribuita, democratica che risani gli estremi squilibri del modello di piattaforma capitalista; una governance che non è neutra, che modella la stessa natura delle soluzioni e che sia capace di nutrire il mutualismo attraverso il digitale e il locale, dimensioni attorno a cui lo scambio si infrastruttura.

Questo, secondo noi, ci deve spingere anche a pensare ad un cooperativismo di piattaforma che sappia pensare a forme di governance sperimentali, in grado di impattare non solo sulla costruzione dei modelli, sulla dinamica relazionale e di redistribuzione del valore, ma anche capace di preservare un equilibrio tra ricercare esperienze “collaborative” interne al mercato (ma comunque un mercato regolato e fatto di tutele) ed esperienze di tipo gratuito, solidaristico, volontaristico per evitare la monetizzazione completa delle forme di scambio e relazione umana. 
E’ chiaro che il mondo della cooperazione organizzata, della rappresentanza cooperativa, possa giocare un ruolo importante nell’ abilitare e sostenere modelli di questo tipo. Per appartenenza associativa e territoriale abbiamo voluto confrontarci con il Presidente di Legacoop Toscana, Roberto Negrini, a questo proposito. Egli non registra solamente ciò che l’emergenza sanitaria ovviamente impone nell’immediato (chiusura di alcuni comparti, nuovi protocolli di igiene e sicurezza, modifiche nell’erogazione dei servizi), ma anche cambiamenti più profondi, nella modalità di produzione, che sono e saranno modificati, da una domanda che sarà fortemente cambiata. Se da un lato, ad esempio, bisogna chiedersi se domani il modello delle RSA sarà ancora percorribile o piuttosto bisognerà organizzare un sistema di assistenza domiciliare per gli anziani;  dall’altro il nuovo valore che sta assumendo la dimensione locale nelle abitudini di consumo, ad esempio, ha dato nuova centralità a piccole cooperative di consumatori in aree periferiche e interne che, nella riscoperta della propria funzione comunitaria, stanno ritrovando le finalità della cooperazione. Su queste realtà Legacoop Toscana ha già iniziato, da Gennaio 2020, con il Progetto Toscana, un percorso di capacity building e infrastrutturazione di servizi a supporto della rete di queste piccole cooperative. L’altro modello su cui sia Regione Toscana che Legacoop stanno investendo attenzione e risorse è quello delle cooperative di comunità dove, ancora una volta, mutualismo, localismo e nuova generazione di valore, possono rappresentare una prospettiva di sviluppo economico e sociale più che ragionevole.

E’ di questo parere anche Giampiero Lupatelli, economista, consulente di Legacoop Emilia-Romagna e per la Strategia nazionale per le Aree Interne che, al netto di una dovuta sottolineatura sulla portata ad oggi incalcolabile, ma sicuramente molto significativa di questa crisi, individua, proprio per le condizioni e i bisogni che questa sta generando, ambiti di opportunità per le aree interne e montane. La ricerca di spazi ambientali disponibili, la fuga dalla densità e la crisi del trasporto pubblico, nonchè la remotizzazzione del lavoro, sono le condizioni a cui la pandemia probabilmente ci farà ambire e che potrebbero suggerire come “exit strategy” l’opzione di un ritorno ai territori interni. Non solo, proprio in riferimento al tema degli anziani (che rappresentano la maggioranza della popolazione di queste aree) il tema “locale” e quello del cooperativismo di comunità potrebbero essere la risposta alla crisi del modello di RSA attuale e l’occasione di re-istituzionalizzare il sistema di ospitalità per anziani. Un’operazione complessa, quella per infrastrutturare servizi e rendere più accoglienti le aree interne, che avrà bisogno di investimenti e risorse (che il raddoppio del bilancio europeo a l’impiego dei nuovi Fondi Strutturali nei prossimi 2 anni potrebbe consentire) ma che potrebbe costituire un investimento sociale forte dove la cooperazione comunitaria e l’impresa sociale potrebbero giocare un ruolo determinante.  La cooperazione di comunità si è fatta movimento, sono esperienze ancora fragili ma non più pionieristiche. Si tratta di capire se questo movimento può essere in grado di raccogliere la sfida di una eventuale politica nazionale, d’altro canto – sottolinea Lupatelli – “servono ipotesi strategiche nuove per navigare in un mondo in cui molte attività tradizionali non ce la faranno a sopravvivere e abbiamo bisogno di costruire orizzonti di impresa e sociali nuovi”

 

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