Economia
Moda sostenibile:12,5 miliardi di euro di fatturato mondiale entro il 2030
Punti di forza e pecche della transizione sostenibile per il fashion che rappresenta una opportunità davvero importante per imprese, economia e salute
Risulta innegabile, ormai, come il tema della sostenibilità abbia coinvolto e convinto anche il patinato mondo della moda, che ha avviato un vero e proprio percorso di transizione volto alla tutela ambientale, al sostentamento dell’economia ed alla salvaguardia della salute dei consumatori. Da una connessione stretta con l’universo digitale e della comunicazione, fortemente propositiva e veloce nel raggiungere visibilità, la previsione di un futuro a portata di click, appare quella di compiere acquisti economici e di tendenza , ma che ancora non imprimono la svolta decisiva di sposare in modo tassativo la sostenibilità ambientale. Ogni anno si registra un tasso globale di crescita del settore, pari al 6%, con una riduzione dei prezzi e dei cicli di produzione, ma solo il 3,5% del valore complessivo del mercato, riporta ad attività di economia circolare, come la rivendita, il noleggio, la riparazione.
Studi di settore recenti ed autorevoli, dimostrano come a prediligere e promuovere il circuito della sostenibilità della moda siano le stesse istituzioni estere, come la UE, che ha introdotto una serie di strumenti obbligatori o volontari per rendere la misurazione della ecologia di imprese e prodotti, uniforme, e per cercare di ottimizzare i processi di trasparenza dei vari marchi, sensibilizzando i protagonisti a offrire livelli elevati di qualità. Ad ogni modo, sebbene oggi più della metà delle imprese di moda abbiano sottoscritto obiettivi ecosostenibili, ancora troppo pochi sembrano in grado di dimostrare di darne effettivamente seguito nei loro affari.
Attualmente, le certificazioni di sostenibilità relative al fashion sono oltre 100. Delle quali, più dell’ 80% verterebbe su caratteristiche di prodotti e la loro composizione dei materiali, e meno del 20% atterrebbe ad illustrarne i processi operativi. Di queste certificazioni, ancora poco spazio verrebbe riservato a tematiche ambientali e problemi di ordine sociale collegati. Tra tutte le aziende che hanno abbracciato progetti sostenibili, ve ne è oltre la metà, che si mostra attenta alla questione del cambiamento climatico, in particolar modo, riguardo alla riduzione delle emissioni di CO2 e poi del reperimento ed impiego delle materie prime. Ancora, per ciò che attiene allo smaltimento dei rifiuti, è possibile notare come, la totalità di queste imprese, ne facciano menzione, ma il 48% di esse, è disposta ad illustrare le proprie attività in materia di salute, sicurezza e personale, esibendo un rendiconto generico.
L’ultimo Rapporto di The European House-Ambrosetti, ha stilato alcune proposte utili ad incoraggiare la transizione sostenibile del settore moda. Innanzitutto, un programma di strumenti volontari e obbligatori messi a disposizione dall’Unione Europea, da potenziare, per poter fornire feedback utili al miglioramento qualitativo. Una maggiore flessibilità del Governo, in grado di collaborare attivamente con i protagonisti dell’industria, per stabilire obiettivi, priorità e modalità di azione. Inoltre, il coinvolgimento diretto di associazioni di categoria e alleanze strategiche con industrie del settore, per garantire monitoraggio e analisi imprenditoriale accurati. Ancora, maggiore informazione e campagne di sensibilizzazione in tema di sostenibilità ambientale e sociale, con più responsabilizzazione di due grandi giganti della moda come Italia ( culla del pret à porter) e Francia ( madre dell’ haute couture), in modo da fungere da modelli emulabili dal comparto intero. Il fenomeno della moda green si stA espandendo sempre di più tra i consumatori, costituendo una opportunità che occorre cogliere e far fruttificare perentoriamente, in quanto viatico imprescindibile nella lotta contro l’inquinamento ambientale ed occasione importante per l’economia mondiale.
Da una ricerca condotta da Pwc Italia, si evince che il mercato mondiale della moda sostenibile che, nel 2019 valeva 5,23 miliardi di euro, sia destinato a raggiungere i 6,8 miliardi di euro nel 2023, 8,08 miliardi di euro nel 2025 e 12,5 miliardi di euro nel 2030, ossia una crescita del +139% in quasi un decennio.
Uno degli aspetti più importanti riferibili alla transizione ecologica della macchina della moda, interessa certamente quello della formazione. Una formazione che deve educare e approcciare il futuro designer al rispetto dell’ambiente e delle persone che lo abitano, facendone uno degli imprimatur dei suoi studi e della sua produzione professionale. Anche i brand più importanti dello scenario internazionale hanno svoltato in modo più o meno significativo, nella direzione della sostenibilità, puntando ad accontentare pubblico ed imprimendo perfino agli spettacoli, una impronta etica. Dicendo basta all’impiego di pellicce animali, o smaltendo gli scarti in modo ecologico ed appropriato.
Nel 2019 la storica maison GUCCI ha lanciato Gucci Equilibrium, un portale dedicato ad aggiornamenti sulle pratiche sociali e ambientali della casa di moda. Stessa politica adottata da Burberry, che ha ordinato la distruzione delle pellicce animali rimaste invendute, ovviamente sospendendone l’ulteriore produzione. E poi, The North Face, Dior e re Giorgio Armani . Ma nel nostro Paese, vi sono esempi virtuosi che, pur non facendo parte della grande distribuzione, sono stati pionieri di uno stile di vita, prima che di un modo innovativo di svolgere attività di impresa. Uno di questi è Igam Ussaro, cresciuto professionalmente nell’azienda di famiglia che produceva una linea di abbigliamento ed accessori e commercializzava prodotti di altre prestigiose linee fin dagli anni ’60. Ha avuto la possibilità di vedere da dentro i processi produttivi, e il loro carico in termini ecologici ed ambientali. Queste le premesse che lo hanno convinto, sin da giovane stilista, a cambiare strategia, diventando un pioniere dell’ecomoda, come era stato definito sul dizionario della moda edito da Baldini e Castoldi nella seconda metà degli anni ’90.
Igam ussaro si è concentrato sul modo di progettare un indumento, pensando al suo impatto sulla natura e sull’ambiente. Per esempio, anche i prodotti naturali possono essere più impattanti dei prodotti man made, se i primi sono prodotti dall’altra parte del mondo sfruttando manodopera minorile ed i secondi, sono prodotti dietro l’angolo ed utilizzati per altri settori, ma nel rispetto delle nostre regole. Forte delle conoscenze dell’artigianato artistico di cui l’azienda di famiglia era custode, ha avuto modo di approcciarsi ai materiali di recupero come gli sfridi di lavorazione dell’industria tessile e le materie seconde provenienti dal recupero ed il riciclo di beni post consumo, privilegiando le materie plastiche. Sono della fine degli anni ’80, le prime creazioni ecologiche, ma è dalla seconda metà degli anni ’90 che intuisce la possibilità di realizzare indumenti, sfruttando le caratteristiche termoplastiche di alcuni materiali per realizzare abbigliamento in modo non convenzionale, modellando e unendo le componenti con il calore , senza necessità di cuciture. Appartiene proprio a questo periodo, “ECO FAST DRESS” e subito dopo”Bikini legami“. La metodica è stata brevettata come invenzione industriale ( il livello più alto per un trovato innovativo), modificando lo stato dell’arte nello specifico settore.
Progettare abbigliamento allo scopo di riutilizzarlo ancora come materia prima è stato un tutt’uno. Si pensi che al tempo non esistevano scuole o università, come ci sono oggi, che propongono corsi di laurea per progettare secondo criteri di cui Igam è stato un apripista.
Tra le tante peculiarità artistiche ed imprenditoriali, Igam Ussaro, ha ideato insieme alla sua compagna Cristina Servini, insegnante e pittrice, un format di condivisione commerciale e culturale, “SINESTESIA TRA LE ARTI” dove è possibile visionare le sue creazioni e seguirlo nei suoi numerosi progetti al servizio della divulgazione delle eccellenze italiane.
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