Economia
L’intelligenza artificiale e il paradosso della produttività
Torniamo oggi con la seconda puntata del percorso sull’impatto dell’intelligenza artificiale. Un insieme di riflessioni personali, generate con l’ausilio di macchine e IA – consapevolmente o meno – ma rielaborate antropologicamente, con l’obiettivo di mettere ordine nelle domande e nella speranza di trovare un giorno anche risposte certe.
Alla ricerca della produttività
La seconda puntata del percorso sull’impatto dell’intelligenza artificiale prende spunto dalla frase dell’economista Robert Solow citata nel primo articolo, pubblicato su questo spazio: “You can see the computer age everywhere but in the productivity statistics.” (Puoi vedere l’era dei computer ovunque tranne che nelle statistiche sulla produttività”). Se qualche giorno fa quella frase è stata solo accennata, occorre oggi contestualizzarla e riflettere sul suo significato. Il Premio Nobel usò quella frase nel 1987, per mettere in evidenza un paradosso emerso negli anni ’80, da allora definito “Solow paradox”. Nonostante i rapidi progressi nella tecnologia informatica e la sua adozione in diverse industrie, l’incremento atteso della produttività, misurato da metriche economiche tradizionali, non era immediatamente evidente. L’osservazione di Solow sollevava interrogativi sulla relazione tra innovazione tecnologica e crescita della produttività: mentre i computer e la tecnologia dell’informazione stavano trasformando molti aspetti delle operazioni aziendali e della vita quotidiana, il loro impatto sulla produttività complessiva, almeno nel breve termine, non era così sostanziale come alcuni avevano previsto. Inoltre, nonostante la produttività del lavoro negli Stati Uniti decollò tra il 1995 e il 2000, registrando un’accelerazione doppia rispetto ai vent’anni precedenti, la conclusione della causalità tra i due fenomeni era eccessivamente ottimistica[1] (FIGURA 1).
FIGURA 1 – Correlation does not imply causation
Ci sono diversi fattori che sono stati proposti per spiegare questo apparente paradosso: il ritardo nell’adozione delle tecnologie, le difficoltà nella misurazione della produttività, anche nel rapporto tra aumento di qualità vs di quantità, o la necessità di un approccio olistico all’innovazione digitale[2]. Quest’ultimo aspetto chiama in causa un concetto semplice ma a volte sottovalutato, che ritroviamo anche in indici (FIGURA 2), tra cui quelli per comporre il DESI, utilizzati per certificare oggi, tra le altre cose, l’evoluzione nell’ambito del decennio digitale europeo, che sovente ci condannano: l’innovazione è un processo complesso, multifattoriale, e i suoi benefici nel medio e lungo termine si ottengono intervenendo su leve diverse, che sono tra loro complementari. Sulle ordinate, la percentuale di individui con almeno un livello base di competenze digitali; sulle ascisse la percentuale di imprese, con almeno dieci addetti ed escludendo il settore finanziario, che utilizzano strumenti di IA. L’Italia appare indietro rispetto alla media europea secondo entrambe le variabili.
FIGURA 2 – posizionamento dei paesi rispetto a due indicatori del DESI 2023
Cosa intendiamo per produttività
Facendo un passo indietro: cosa è la produttività? Per semplificare, è la quantità di valore prodotto con una data quantità di input utilizzati oppure a parità di input utilizzati. Può essere misurata in vari modi: ad esempio, è un concetto che si può applicare al lavoro (cioè per ora lavorata) o al capitale impiegato nel processo o, ancora, alla totalità dei fattori, in cui sono contemporaneamente presi in considerazione tutti i fattori di produzione che hanno contribuito a generare l’output osservato[3]. È utile perché spiega meglio di altri indicatori il cd. valore aggiunto prodotto, perché considera tanto quello che esce dal processo quanto quello che entra. In poche parole, e considerando l’argomento di questa riflessione, si prova a guardare agli indici di produttività per capire se i cambiamenti che introduciamo in un processo (es i computer o innovazioni tecnologiche) permettono di produrre di più, in quantità e/o qualità, nello stesso tempo di prima. Non però è questo il momento di classifiche o confronti tra paesi o aziende, per cui è possibile anche soprassedere sui rischi di facili conclusioni[4].
La promessa (o speranza) dell’IA
Arrivando ai tempi attuali, siamo di nuovo di fronte a una grande promessa di esplosione della produttività. Il superamento del paradosso di Solow è dovuto, questa volta, al fatto che l’impatto dell’IA sarà maggiore rispetto a quello di internet o dei computer, che, per alcuni, non erano al livello delle rivoluzioni precedenti. Con l’intelligenza artificiale tutto cambierà in modo radicale e la produttività non potrà stare a guardare. Considerando l’Italia, per esempio, per The European House-Ambrosetti e Microsoft l’Intelligenza artificiale (IA)[5] generativa può favorire una crescita del PIL italiano fino al 18% (a patto che, oltre agli investimenti delle imprese private, ci sia un piano nazionale per la formazione di competenze di IA e per la digitalizzazione delle PMI). Secondo lo studio, inoltre “[…] a parità invece di valore aggiunto generato, l’uso di strumenti di IA Generativa libererà un totale di 5,4 miliardi di ore che corrispondono, per fare esempi concreti, alla totalità delle ore lavorate in un anno da 3,2 milioni di persone.” Spostandoci sul piano globale, per McKinsey (2023)[6] “L’IA generativa potrebbe consentire una crescita della produttività del lavoro compresa tra lo 0,1 e lo 0,6% annuo fino al 2040, a seconda del tasso di adozione della tecnologia e della ridistribuzione del tempo dei lavoratori in altre attività. Combinando l’IA generativa con tutte le altre tecnologie, l’automazione del lavoro potrebbe aggiungere da 0,5 a 3,4 punti percentuali all’anno alla crescita della produttività”. Uno studio condotto da ricercatori dell’Harvard Business School e di altre università, tra cui il MIT[7], ha rilevato invece come “l’intelligenza artificiale generativa può migliorare le prestazioni di un lavoratore altamente qualificato fino al 40% rispetto ai lavoratori che non la utilizzano”. E 40% è anche la percentuale dell’occupazione mondiale esposta all’impatto dell’intelligenza artificiale secondo il report “Gen-AI: Artificial Intelligence and the Future of Work” del Fondo Monetario Internazionale (2024), percentuale che sale al 60% nelle economie avanzate, a causa della prevalenza di lavori orientati alle attività cognitive.
Un altro lavoro molto interessante è la ricerca di Microsoft “New Future of Work Report 2023”, che riassume molte delle ricerche sull’impatto dell’AI sul lavoro, tra cui anche il già citato lavoro di HBS e MIT. Non solo si riduce il tempo di esecuzione del compito, ma l’esperimento evidenza una qualità dell’output superiore del 40% in un progetto di consulenza simulato utilizzando strumenti basati sull’IA. Inoltre, gli utenti sono stati in grado di risolvere problemi simulati due volte più velocemente utilizzando la ricerca basata su large language model (LLM) rispetto alla ricerca tradizionale, anche se in alcuni casi la velocità aumentata ha comportato una precisione leggermente inferiore.
Ma è così davvero? E a quali condizioni?
Le premesse, quindi, sono roboanti. Considerando anche solo i pochi esempi citati sopra, tranne qualche voce discordante[8], il consensus attuale è per un futuro roseo, almeno per i paesi più avanzati e lavoratori già a più alto valore aggiunto. Ma quando tutti sono d’accordo, o sembrano esserlo, la parte più interessante è analizzare e leggere chi non lo è. Cercando i punti in comune tra varie fonti[9], e riprendendo quanto citato all’inizio, è possibile riassumere in:
- ci vuole tempo: è necessario permettere alle persone e al sistema di comprendere le innovazioni e capire come estrarne il massimo valore. Ancora non lo abbiamo compreso a pieno con i computer o con internet, figuriamoci con l’IA. Inoltre, le innovazioni ne stimolano altre, tanto che è il loro combinato che stimola davvero il cambio di paradigma;
- servono competenze: non so se usiamo davvero solo il 10% del nostro cervello (anzi, è una bufala), ma sicuramente non usiamo il 100% del nostro smartphone o del nostro PC. Un po’ perché non ci serve, un po’ perché non sappiamo come usarlo. È quindi necessario accelerare la formazione sulle persone al pari di quella sugli algoritmi: non solo perché è inutile produrre automobili se nessuno sa guidare, ma anche perché rischiamo che i pochi che le sanno usare polarizzino tutto il beneficio derivante da queste tecnologie.
- polarizzazione dei benefici dell’IA: come anticipato nel punto precedente, ora più che mai non creare un gap incolmabile tra chi sa utilizzare questi strumenti e chi no è un imperativo non rimandabile. Numerosi studi – ma anche solo uno sguardo ai valori azionati (FIGURA 3) – hanno messo in luce la crescente disparità tra poche grandi aziende e il resto dell’economia, anche a causa del costo marginale decrescente dei servizi digitali;
- la produttività non è tutto: tutto ciò che non produce ricchezza economica, difficilmente viene colto da questo indicatore, ma non è detto che non ci sia (o che non sia importante);
- migliorare la qualità della gestione delle imprese: la produttività totale dei fattori è multifattoriale. Non possiamo pensare che agendo su una sola delle leve (l’imprenditore, gli investimenti materiali e immateriali, i lavoratori, l’infrastruttura) sia possibile produrre un beneficio duraturo e sostanziale;
- la produttività misura il valore, che può essere somma di più prodotti realizzati nello stesso tempo o di prodotti di migliore qualità e quindi, eventualmente, di maggior valore. E sarebbe questa la strada preferibile.
FIGURA 3 – ultimi 5 anni su mercati azionari
In conclusione
In sintesi, e rimandando alla prossima puntata, in un mondo condannato a crescere all’infinito, almeno fino a che continuerà a crescere il debito, la produttività è un indice a cui guardare, pur se con spirito critico. La domanda è invece: pochi grandi colossi nella loro crescita sono capaci di tirarsi dietro tutto il resto dell’economia, oppure per aumentare la produttività occorre intervenire e supportare anche i “ritardatari”, che sono la maggior parte? In termini relativi poi, possiamo chiederci se i risultati estremamente positivi dei leader lo siano anche in virtù di una crescente distanza dai ritardatari, sempre meno capaci di recuperare posizioni, più che in termini assoluti. Inoltre, la produttività di un paese è il risultato del tutto: dei più produttivi, dei ritardatari e della loro interazione.
La ricerca di questa risposta è una delle domande più profonde dell’economia.
Su questo punto lascio però due interessanti ricerche, che mettono in luce la crescente distanza tra leader e ritardatari nella trasformazione digitale:
- McKinsey & Company (2024), “Rewired and running ahead: Digital and AI leaders are leaving the rest behind”
- Calvino, F., et al. (2022), “Closing the Italian digital gap: The role of skills, intangibles and policies“, OECD Science, Technology and Industry Policy Papers, No. 126, OECD Publishing, Paris, https://doi.org/10.1787/e33c281e-en.
_________
[1] G. Morse, The Real Source of the Productivity Boom, HBR, 2002
[2] Trilplett, J.E.,1999 (The Solow Productivity Paradox: What do Computers do to Productivity? The Canadian Journal of Economics / Revue Canadienne d’Economique, 32(2), 309–334. https://doi.org/10.2307/136425) propone una consecutio più accurata:
- You don’t see computers ‘everywhere,’ in a meaningful economic sense.
- You only think you see computers everywhere.
- You may not see computers everywhere, but in the industrial sectors where you most see them, output is poorly measured.
- Whether or not you see computers everywhere, some of ‘what they do is not counted in economic statistics.
- You don’ t see computers in the productivity statistics yet, but wait a bit and you will.
- You see computers everywhere but in the productivity statistics because computers are not as productive as you think.
- There is no paradox. some economists are counting innovations and new products on an arithmetic scale when they should count on a logarithmic scale.
L’Economist, nel 2000, dedicò uno speciale proprio a questo tema (1 & 2, tra gli altri articoli)
[3] “La produttività totale dei fattori misura gli effetti del progresso tecnico e di altri fattori propulsivi della crescita, tra cui le innovazioni nel processo produttivo, i miglioramenti nell’organizzazione del lavoro e delle tecniche manageriali, i miglioramenti nell’esperienza e nel livello di istruzione raggiunto dalla forza lavoro” Istat
[4] A tal proposito, si rimanda, ad esempio, a un lavoro di Livio Romano e Fabrizio Traù del 2019, pubblicato con il Centro Studi Confindustria: L’industria italiana e la produttività. Cosa significa essere competitivi
[5] “AI 4 Italy: Impatti e prospettive dell’Intelligenza Artificiale Generativa per l’Italia e il Made in Italy”, di settembre 2023
[6] The economic potential of generative AI: The next productivity frontier Secondo McKinsey “I nostri scenari di adozione precedentemente modellati suggerivano che il 50% del tempo dedicato alle attività lavorative nel 2016 sarebbe stato automatizzato tra il 2035 e il 2070, con uno scenario intermedio intorno al 2053. I nostri scenari di adozione aggiornati, che tengono conto degli sviluppi nell’intelligenza artificiale generativa, modellano il tempo dedicato alle attività lavorative. Le attività lavorative del 2023 raggiungeranno il 50% di automazione tra il 2030 e il 2060, con un punto medio nel 2045: un’accelerazione di circa un decennio rispetto alla stima precedente.”
[7] Dell’Acqua, F., et al (2023, Navigating the Jagged Technological Frontier: Field Experimental Evidence of the Effects of AI on Knowledge Worker Productivity and Quality, Harvard Business School Technology & Operations Mgt. Unit Working Paper No. 24-013, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=4573321 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.4573321
[8] Si segnala un interessante articolo di Claudio Marciano su Agenda Digitale (L’Intelligenza artificiale e il paradosso della produttività: il punto sulle ricerche), scritto nel 2021, quando ancora non era esploso l’Hype IA Generativa ma il dibattito era già aperto; si segnalano inoltre: Bruegel; HBS.
[9] Choudhury, P., et al. (2018), Different Strokes for Different Folks: Experimental Evidence on Complementarities Between Human Capital and Machine Learning, HBS
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