Economia
Le transizioni le fa la borghesia
Forse aveva ragione il maestro Battiato quando cantava che “le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso”. Magari anche oggi, anzi particolarmente oggi, nell’era della transizione ambientale alla quale si accodano, possibilmente in buon ordine, tutte le altre: sociale, tecnologica, demografica, ecc. In fondo non sarebbe la prima volta che la borghesia si appoggia sull’attivismo altrui per realizzare i propri obiettivi. Basta guardare ai movimenti ambientalisti: sembrano i perfetti apripista che si accollano il rischio di alimentare nuove sensibilità e sperimentare nuove iniziative che giunte all’ideale punto di maturazione vengono trasformate in aree di mercato compatibili con le logiche del business as usual. Ben più di un semplice “washing”, una vera e propria “messa in produzione” dell’innovazione sociale.
Una variante di questa narrazione emerge dall’altra grande trasformazione di quest’epoca, quella digitale. In un recente e interessante libro – Cloud empires, scritto dal sociologo finlandese Vili Lehdonvirta – la borghesia viene rappresentata come il più promettente agente di cambiamento rispetto a un quadro dominato da piattaforme globali che operano in regime di oligopolio, come imperi che centralizzano e capitalizzano gli effetti rete del web. Una vera e propria inversione dei fini rispetto alle aspettative comunitariste e libertarie dell’internet della prima ora. Ma dove governi, consumatori e lavoratori hanno fin qui fallito, od ottenuto poco, in termini di rivendicazioni per una più equa distribuzione delle risorse della rete, potrebbe essere la “neoborghesia digitale” fatta di software house, imprese creative, società di consulenza ecc. a farcela. Un po’ – sostiene Lehdonvirta – come è successo nel medioevo quando la nascente borghesia negoziò, anche su base conflittuale, maggior autonomia e potere rispetto ai sovrani dell’epoca forte di tre importanti risorse: propensione all’innovazione, possesso di capitale e capacità di rappresentanza.
Il fatto che la classe media sia in espansione in tutto il mondo, soprattutto nelle aree emergenti (Asia soprattutto ma anche Sudamerica), come spiegano bene i dati recentemente raccolti ed elaborati da Il Sole 24 Ore, può far dire che c’è una sorta di “massa critica” rilevante in grado di mobilitare un ammontare sempre più consistente di risorse per la produzione e l’acquisto di beni e servizi della transizione. Non più di qualche giorno fa l’economista civile Leonardo Becchetti sconfortato dalle uscite del presidente della Cop28 a Doha – altro esponente “imperiale” legato alle energie fossili – sosteneva che saranno non tanto i negoziati tra stati che ormai si dimostrano strutturalmente inefficaci anche nella loro versione multilaterale, ma piuttosto “i vantaggi tecnologici e i mercati a vincere la partita delle rinnovabili e le classi medie di ciascun paese (Cina e India in testa).”
“Borghesi di tutto il mondo unitevi” verrebbe da dire. Contribuendo così a promuovere una diversa rappresentazione del capitalismo a fronte di un approccio “woke” delle grandi imprese multinazionali che, come ricordava il padre degli economisti civili Stefano Zamagni, mostra sempre più il fianco rispetto alle loro ambizioni “totaliste” rispetto alla società. Una sfida che chiama in causa anche l’economia sociale perché se è vero che alcune sue componenti minoritarie preferiscono rinchiudersi all’interno di nicchie che la condannano all’irrilevanza, in realtà la sua “maggioranza silenziosa” è parte integrante di quello strato mediano della società con capacità produttiva e, attraverso questa, trasformativa.
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