Economia
Non è più il tempo del debito, è il tempo della crescita
Per anni le discussioni di politica economica all’interno dell’Unione Europea si sono concentrate sul rigore dei conti pubblici. La priorità, anche durante la crisi, era l’austerità, in una prospettiva totalmente anti-keynesiana.
Fin dalla Grande Depressione degli anni ’30, con le politiche del New Deal di Roosevelt, abbiamo compreso l’importanza di politiche anti cicliche per contrastare le recessioni. Tra gli ispiratori di questo paradigma vi fu, e da qui il nome, John Maynard Keynes, matematico convertito all’economia, che nel tentativo di salvare il capitalismo da se stesso propose un nuovo ruolo per lo Stato: aspettando che il libero mercato si salvi da solo si rischia di attendere a lungo.
Con il passare del tempo, anche dopo esser stata inglobata all’interno della teoria mainstream grazie al lavoro di sintesi di Samuelson e Solow, la teoria keynesiana ha subito sempre più attacchi, culminati con la Nuova Macroeconomia Classica e la critica del concetto di moltiplicatore, immersa in aspettative razionali e agenti rappresentativi. Proprio questa involuzione della macroeconomia diede uno dei risultati più importanti per contrastare l’utilizzo del debito pubblico: la famosa equivalenza di Barro Ricardo. Allo stesso tempo nascevano correnti che auspicavano una disciplina fiscale rigorosa, come la Public Choice Theory il cui più noto rappresentante, Buchanan, fu tra i più importanti sostenitori del pareggio di bilancio.
Al tempo della crisi il fronte rigorista si appoggiò su due contributi più recenti. In primo luogo il lavoro di Rogoff e Reinhart, “Growth in a Time of Debt”, uscito nel 2010. L’articolo sosteneva che oltre il 60% di rapporto debito/PIL vi fossero già effetti negativi sulla crescita, mentre oltre il 90% si assisteva a un vero e proprio salasso. Il paper, tuttavia, presentava errori nei fogli di calcolo usati dagli autori, a cui poi furono aggiunte critiche metodologiche.
Gli sviluppi più recenti della letteratura sul tema offrono un quadro meno univoco. Se non si possono escludere- tanto dal punto di vista teorico quanto dal punto di vista empirico- degli eventuali effetti negativi di un elevato livello di debito sulla crescita, l’esistenza di un unico numero magico è stata confutata. Entrano infatti in gioco vari fattori che rendono la questione più complicata.
Un secondo contributo proviene invece dai Bocconi Boys che si fecero sostenitori dell’austerità espansiva, convinti che un arretramento dello Stato con un conseguente taglio delle tasse avrebbe liberato lo spirito rivoluzionario del privato. Anche questi lavori venne presto attaccato da Blanchard per aver sottostimato il valore dei moltiplicatori fiscali avendo così suggerito politiche restrittive che hanno contribuito a peggiorare la situazione.
Anche se il sospetto è che l’attenzione al rigore pubblico nascesse più da un’esigenza moralista, totalmente dogmatica e anti-scientifica, che incolpava unicamente gli stati del Sud dell’Europa dei propri problemi: quanto questo abbia influenzato poi la risposta dialettica, incarnata in Italia dalla coppia Borghi-Bagnai, per cui tutto è colpa dell’Europa e dell’Euro non ci è dato sapere.
Sembra che, dopo la crisi pandemica, la situazione sia cambiata. Nel 2020 per far fronte alle chiusure e salvare il tessuto produttivo, gli Stati hanno messo in piedi mastodontiche manovre che hanno aumentato il debito pubblico. Nessuno, al di fuori di qualche voce isolata, ha però ritirato fuori la storia dell’austerità. Nemmeno Francesco Giavazzi, tra i sostenitori dell’austerità espansiva: sono inequivocabili le sue parole di oggi, in cui definisce il debito “un concetto del secolo scorso”, che seguono un suo intervento simile dell’inizio dell’anno su Il Corriere della Sera.
Sembra esserci un nuovo accordo, all’interno della comunità politica ed economica: il debito non è il problema, il problema è la crescita. Questo aspetto era già stato fatto notare, per restare nel circuito dell’economia mainstream, da Daron Acemoglu al tempo della precedente crisi. Recentemente anche il premio Nobel Joe Stiglitz, divenuto con il tempo più critico degli sviluppi moderni del pensiero economico, ha sostenuto una tesi simile.
Qualche settimana fa, in uno dei suoi ormai soliti commenti a lato, il Presidente del Consiglio ha sposato questa tesi, aggiungendo che il vero tema diventa quindi quali spese favoriscono la crescita e quali no.
Non si può infatti superficialmente ignorare il tema della spending review, che il nostro paese rinvia da tempo: si potrebbe cominciare, proprio per riprendere un vecchio piano di Giavazzi, dalla spesa improduttiva che va al settore produttivo del nostro paese e che non ha alcun effetto nel sostenere l’innovazione e aumentare la produttività.
Quello che emerge, dalla discussione sul debito, è però un ripensamento del perimetro e dell’attività dello Stato. Già da anni, a seguito della crisi del 2008, il tema è tornato a interessare la comunità economica, soprattutto volgendo lo sguardo ad Oriente dove Cina e Corea del Sud stanno pian piano recuperando i ritardi attraverso uno Stato dinamico e pro attivo.
I seguaci dell’austerità celavano un atteggiamento di diffidenza nei confronti dello Stato, quasi facendo emergere supposte qualità morali del privato sul noioso carrozzone pubblico. Una divisione di siffatto tipo, fin troppo manichea, non coglie la natura dei rapporti tra Stato e mercato. Lungi dall’essere avversari, si sostengono a vicenda: è lo Stato a definire le regole del gioco ed è perlopiù lo Stato a elargire beni pubblici, a farsi carico di educazione e sanità che permettono una vita dignitosa alla forza lavoro. Ed è sempre lo Stato a prendere su di sé il compito di stimolare l’innovazione nelle fasi rischiose o di mettere benzina nel motore dell’innovazione- nelle università o nei centri di ricerca pubblici.
Sarebbe sbagliato ritenere che un rinnovato interesse per lo Stato porti necessariamente a politiche progressiste, come ha notato Paolo Gerbaudo. Affinché questo si possa coniugare con una prospettiva di sinistra bisogna appunto chiedersi quali siano i compiti di questo Stato, i rapporti di forza nella società sottostante e gli ideali che come tale vogliamo raggiungere.
Durante la pandemia, ad esempio, abbiamo visto quali sono le conseguenze di un depauperamento del Settore Pubblico ridotto a logiche aziendali. Come ha scritto Rosie Collington sul The Guardian, il New Public Management ha ridotto l’amministrazione pubblica a un mero problema di ottimizzazione- fare di più con meno- svuotandolo di dynamic capabilities.
La questione vaccini ci insegna invece, di nuovo, l’importanza della politica industriale. Ridotta al seggiolino del passeggero nel corso degli ultimi quarant’anni, la sua importanza diventerà ancora più cruciale con il passare degli anni e la pressione della crisi climatica. Non è nient’altro che negazionismo lo sforzo solo sui cambiamenti individuali: per affrontare la transizione servono cambiamenti sistemici richiedono una politica industriale che indirizzi il mercato verso tecnologie più pulite, accoppiata a una retromarcia rispetto al paradigma della flessibilità di questi anni e una rinnovata attenzione nei confronti dei Good Jobs.
Un approccio di questo tipo, a sinistra, permetterebbe altresì di smarcarsi da presunte accuse di decrescita felice o di invidia sociale. Mentre l’attenzione dei policy maker era presa dal debito, il mondo affrontava il dramma della disoccupazione, della crisi climatica, delle disuguaglianze. Questi problemi, che rischiano di acuirsi dopo la pandemia, richiedono un patto per la crescita sostenibile- per far fronte alla crisi climatica- e inclusiva- per attaccare senza tregua quelle disuguaglianze non solo deprecabili dal punto di vista morale, ma altresì perniciose per la crescita. Smetterla quindi di guardare al numeratore- il debito- e concentrarsi sull’orientare il denominatore- la crescita.
Ciò non significa, ovviamente, sposare tesi controverse come quelle della Modern Monetary Theory, che sta avendo sempre più seguaci nel panorama americano. Non serve essere di destra come Mankiw per criticare una teoria come la MMT: anche economisti di sinistra come Thomas Palley hanno mosso critiche sferzanti, accusandola di reinventare la ruota salvo poi essere carente laddove davvero servirebbe.
Se quindi è un bene che il focus passi finalmente dal debito e dal rigore sui conti pubblici alla crescita, è necessario non lasciarsi andare a tendenze di dubbio successo. Siamo in un tempo in cui è data la possibilità del cambiamento: indirizzare la crescita verso obiettivi condivisi. Perché di questo, e non di mera tecnica, è fatta la politica.
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