Economia
Comunità, la keyword del XXI secolo
Il tema non era dei più semplici, a dire la verità. Eppure ce l’abbiamo messa tutta per rendere interessanti e utili le 8 ore trascorse presso Millepiani, il centro di coworking della Garbatella (Roma), dove alcune decine di attivisti, cooperatori e imprenditori si sono trovati per discutere di economia sociale e, in particolare, di come quest’ultima può rappresentare una via d’uscita alle tante domande inevase che 7 anni di crisi economica, fiscal compact e austerity (senza contare la trasformazioni tecnologiche) hanno lasciato sulla nostra pelle e sulla pelle delle nostre comunità.
Uno dei temi discussi all’interno del workshop sull’Economia Sociale e Solidale promosso dalla deputata europea del Gruppo GUE/NGL Barbara Spinelli, e realizzato di concerto con il Master “Lavorare nel non profit: Management, Comunicazione e Finanza”, Università di Roma Tor Vergata, è stato quello del Lavoro e degli spazi collaborativi. Come gli spazi collaborativi, e nello specifico i coworking, possono diventare fattore di inclusione sociale e creazione di di occupazione? Come ripensare le articolazioni del Welfare urbano alla luce delle pratiche collaborative che innervano le nostre società fluide? Gli spazi collaborativi a che titolo e in che forma possono acquisire un’identità e un’autonomia all’interno dell’economia sociale?
Nessuna ricetta magica, è bene precisarlo subito, è emersa in sede di workshop, ma sono affiorate diverse testimonianze e alcune proposte meritevoli di approfondimento in sede legislativa per poter essere ulteriormente precisate, definite e affinate. L’idea chiave, emersa in tutti i tavoli, è quella del Riconoscimento. Riconoscere gli spazi collaborativi, da parte in primo luogo dell’Ente Locale, vuole dire riconoscere le pratiche collaborative come un qualcosa di nuovo nel panorama sociale e, conseguentemente, riconoscere le organizzazioni collaborative – Ezio Manzini docet – come soggettività proprie con cui dialogare, discutere e avviare un confronto sui territori. Riconoscere gli spazi collaborativi vuol dire avere contezza della loro irriducibile eterogeneità, della loro novità e anche del loro ruolo di supplenza nei confronti degli organismi intermedi (che in molti casi hanno ormai abdicato a un qualsiasi ruolo pubblico).
Riconoscere è anche la precondizione per legittimare gli spazi collaborativi nei confronti di altre articolazioni della PA con cui definire sinergie e definire dispositivi operativi (un esempio in tal senso sono i protocolli d’intesa che si potrebbero stipulare tra Centro per l’Impiego e spazi di coworking). Ma è anche l’occasione per ripensare il tema del lavoro che, nella nostra società liquida, cessa di essere l’architrave su cui dare senso e sostenibilità economica ad un’esistenza, così come l’abbiamo conosciuto nel secolo scorso.
La progressiva automazione, la delocalizzazione, la crescita del comparto dei freelance, che stando ad una ricerca promossa dalla Fondazione Kauffman costituiranno il 50% della forza lavoro negli Stati Uniti entro il 2040, ci spinge infatti a cercare nuove parole e nuovi concetti per definire le pratiche che scorrono sugli schermi della contemporaneità. Parole che sappiano includere, spiegare, dare un senso a ciò che ci passa davanti.
Il punto di partenza, o meglio il punto d’arrivo, delle discussioni avviate a Millepiani, è stato il territorio o, per essere più precisi, la comunità che lo abita. Ripensare il lavoro vuol dire allora domandarsi quali attività siano davvero in grado di creare valore per la comunità, producendo un impatto positivo in termini ambientali, sociali e economici. In quest’ottica gli spazi collaborativi, coworking, fablab, social street, orti urbani, banca del tempo costituiscono de facto il laboratorio su cui costruire le risposte ai bisogni della comunità, piccola o grande che sia. Se come suggerisce Richard Sennet “La società moderna tende a depauperare gli individui delle loro pratiche cooperative” gli spazi collaborativi costituiscono gli anticorpi ai processi di individualizzazione che la modernità ha portato con sé. Da qui la proposta di immaginare un cappello, che a prescindere dallo status giuridico delle diverse organizzazioni (cooperative, srl, associazioni, ecc ecc), possa abbracciare gli spazi collaborativi, dando loro un’identità precisa nel discorso pubblico. Di cosa stiamo parlando? Di qualcosa di simile a quello che nell’ordinamento britannico si definisce Community Based Enterprise o più semplicemente impresa di comunità. E, guarda caso, si torna a parlare di comunità. La keyword del nuovo secolo.
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