Economia

Caro Bentivogli, senza politica la blockchain non cambia il mondo

16 Novembre 2018

Chissà che mal di testa, che notti insonni, povero Ricardo! Nel 1820, sul finire della sua vita, David Ricardo era quel che oggi si dice un “uomo arrivato”: facoltoso membro della Camera dei Comuni (eletto in un collegio in cui non aveva mai messo piede) e soprattutto economista influente – tanto influente che, come ricorda qui Giorgio Lunghini, è proprio leggendo le sue opere che De Quincey si liberò dalla schiavitù dell’oppio.

Però, nel preparare la terza edizione del suo capolavoro, i Principi dell’Economia Politica e della Tassazione, una questione continuava ad arrovellarlo. Era  sempre  stato convinto  che “ogni applicazione di macchine a qualsiasi ramo della produzione che avesse l’effetto di risparmiare lavoro fosse un bene generale [1]”. Ma, pensa che ti ripensa, questo confortante convincimento si pian piano sgretolò. Fu così che, nella terza ed ultima edizione, Ricardo aggiunse un nuovo capitolo, significativamente intitolato “Le Macchine”.

David Ricardo

Da studente di Economia, già allora liberale, nella brumosa Pavia dello scorso millennio, mi innamorai di quel capitolo che mostrava insieme una ammirevole onestà intellettuale e una chiarezza analitica difficilmente eguagliabile. La conclusione raggiunta da Ricardo è opposta a quella nella quale aveva finora creduto: non sempre e non a tutte le classi il progresso tecnico necessariamente giova. E dunque “l’opinione della classe lavoratrice secondo la quale l’impiego delle macchine è spesso dannoso ai propri interessi non si basa sul pregiudizio e sull’errore, ma è conforme ai corretti principi dell’economia politica”.

Si può concordare o dissentire, ma quel che Ricardo scrisse duecento anni fa è, nella sua essenza, attualissimo, nel merito come nel metodo con cui l’economista conduce la sua argomentazione, scevra da facili entusiasmi a favore così come da apodittiche condanne “a prescindere”. E pone un problema di straordinaria rilevanza: governare il cambiamento.

E’ proprio sul governo del cambiamento che persone come Marco Bentivogli e Carlo Calenda si sono più volte espressi. Del segretario dei metalmeccanici CISL apprezzo la sua visione del sindacato 4.0 e l’attenzione ai temi dell’innovazione e del progresso. Ritengo che contributi come il “Piano industriale per l’Italia delle competenze”, scritto da Bentivogli con Calenda a gennaio,  siano fondamentali per far sì che il mondo riformista e liberale ritrovi una concreta vocazione maggioritaria, per il bene del Paese. Insomma, lo ammetto: appartengo al Calenda e Bentivogli Fan Club.

Ed è per queste ragioni di stima che quando Bentivogli parla o scrive di blockchain ripenso a Ricardo. Perché su questo tema l’argomentare del sindacalista, solitamente ragionato, cede il posto ad un entusiasmo dai toni tanto lirici quanto acritici; e perché credo sottovaluti in questo caso l’importanza del governo del cambiamento, senza il quale perdiamo di vista la sottile differenza tra un mondo migliore e il panglossiano migliore dei mondi possibili.

Tra i numerosi interventi in cui ha parlato di blockchain, spicca un articolo che Bentivogli ha scritto in estate insieme a Massimo Chiriatti, intitolato “Blockchain, la tecnologia “umanizza” il lavoro”. Sinceramente, a me più che un articolo è parso un peana alla nuova divinità blockchain che libererà Sisifo e Prometeo portandoci in una nuova età dell’oro (e come non scorgere l’eco della terza Pitica di Pindaro laddove si invita a non perdere l’occasione di “espandere la sfera dell’umano”?).

Prometeo: felicissimo con la sua (block)chain

Provo a riportare quelli che a me sembrano i passi salienti: “Le blockchain hanno il potenziale per diventare un paradigma di riferimento per i modelli produttivi e di business in ogni settore. (…) La trasparenza che assicurano questi registri digitali distribuiti, se ben gestita, può fare bene ai consumatori finali e anche ai lavoratori. Le incombenze burocratiche di imprese e lavoro potranno essere ridotte. Le nuove forme di lavoro potranno assumere maggiore visibilità e tracciabilità e potranno essere agganciate a un nuovo sistema di diritti e tutele e tenersi così al riparo da abusi e lavoro nero. (…) Se anche nel sindacato qualcuno pensa che l’iper-notarizzazione delle attività, la fatica, la serialità, l’usura del lavoro siano gli spazi da difendere con i denti, si perderà l’occasione di espandere la sfera dell’umano, cioè  di aprire all’uomo la possibilità di occuparsi delle attività a lui più consone, in una prospettiva di “umanità aumentata”. Dipende da noi”.

Quindi in sintesi: la blockchain sta rivoluzionando tutto e ha un impatto epocale; e questo impatto è di per sé positivo, basta non opporsi. Ebbene, io credo che entrambe le affermazioni siano errate, e che la seconda sia più illusoria e pericolosa della prima.

Diciamo, semplificando, cosa è una blockchain. Lo faccio con le stesse parole dell’articolo: una blockchain è un “registro condiviso, ampiamente distribuito su Internet, in cui mediante tecniche crittografiche si può assicurare l’univocità e validità del dato registrato”. Quindi sono due le caratteristiche rimarchevoli della tecnologia alla base: (a) il fatto che questo registro, questo database, non sia centralizzato ma distribuito e (b) il fatto che tutto ciò che viene registrato nella blockchain non può poi essere contraffatto. Peraltro, sul significato di “validità del dato registrato” corrono molti equivoci. Ne parlerò in seguito.

Un database che non ha proprietario o custode (perché è ampiamente distribuito in rete) e che non abbisogna di autorità neanche per garantire l’integrità e l’infalsificabilità di quanto è contenuto; sembra davvero qualcosa di notevole e la mente corre a potenziali applicazioni: il catasto, il pubblico registro automobilistico, la filiera dei prodotti, in modo da avere garanzia sull’origine degli stessi, il traffico di esseri umani, i voti alle elezioni e così via.

Il fatto è che, per diversi motivi, sulla reale portata e pervasività di impatto della tecnologia blockchain molte voci avvedute dissentono – a mio avviso con ottimi argomenti. A dieci anni dalla sua introduzione è ancora, al più, una promessa, nonostante i miliardi di dollari che si stanno riversando in progetti di sviluppo in tutto il mondo. Ad oggi è una tecnologia con enormi limiti in termini di performance e di sostenibilità energetica. VISA oggi gestisce migliaia di transazioni al secondo con una velocità centinaia di volte maggiore di quella oggi raggiungibile con tecnologia blockchain [2]. E la logica computazionale attraverso la quale la blockchain oggi garantisce una sostanziale immodificabilità delle transazioni registrate ne fa un avidissimo consumatore di energia, oltre ogni limite di sostenibilità.

Peraltro, non per tutti i problemi la blockchain è la scelta giusta. Su “cosa conviene mettere su blockchain e cosa no” preferisco citare la Linux Foundation, all’avanguardia nello sviluppo di questa tecnologia in ambito open source attraverso l’iniziativa Hyperledger. Con ammirevole, ricardiana onestà intellettuale, questi signori, pur essendo promotori della blockchain, nel loro corso “Blockchain for Business – An Introduction to Hyperledger Technologies” dedicano qualche illuminante pagina ai limiti di adottabilità, da loro riassunti nel seguente diagramma che parla da solo:

Insomma, come ha scritto recentemente The Economist: “For all the technology’s potential, though, most attempts to use it remain tentative. (…) The advantages of blockchains are often oversold”.

Nel giudicare i vantaggi e le possibilità offerte da questa tecnologia un errore assai comune è equivocare su cosa vuol dire – per usare le parole di Bentivogli e Chiriatti – che essa assicuri la “validità del dato registrato”. Mi spiego con un esempio: se io metto su blockchain le informazioni di tracciatura dei miei prodotti di agricoltura biologica, nessuno impedisce ad un mio fornitore di dichiarare che non fa uso del fertilizzante Alfa quando invece lo usa. Ciò che la blockchain in concreto garantisce è il fatto che l’informazione, una volta messa a sistema, non possa essere successivamente modificata. Ma se era falsa rimane falsa. Già oggi è così con gli atti pubblici: se io dichiaro davanti ad un notaio di essere stato ieri a Lucca, l’unica cosa che prova l’atto notarile è che io oggi ho pronunciato di essere stato ieri a Lucca. Nulla prova sul fatto che ci sia stato davvero (è ciò che i giuristi, nel loro sibillino e simpatico idioma, chiamano la garanzia dell’estrinseco e non dell’intrinseco). Ciò che è vero per le dichiarazioni fatte ad un notaio vale anche per la blockchain, che quindi non garantisce la verità, ma l’immodificabilità[3].

Quanto sia rilevante questo aspetto lo illustra The Economist con un esempio: quello della società Verisart, che come mission ha quella di ridurre le frodi relative alle opere d’arte attraverso certificati di provenienza “blockchain based”. Ebbene, su quella blockchain un privato cittadino un po’ burlone è riuscito a farsi attribuire La Gioconda di Leonardo. Intendiamoci: il fatto che le informazioni contenute nella blockchain siano sostanzialmente infalsificabili può rappresentare in molti contesti una indubbia caratteristica positiva, che non voglio sottovalutare. Ma infalsificabile non vuol dire vero.

Da questa considerazione, banale quanto importante, discendono importanti conseguenze che dovrebbero raffreddare alquanto l’entusiasmo nella portata palingenetica di questa tecnologia. Non è la blockchain che potrà garantire che nella filiera del pomodoro non venga utilizzata manodopera in sostanziale schiavitù, come purtroppo accade oggi in Italia. Non è la blockchain che garantirà che su una nave un carico di patate non sia invece un carico d’armi – o di schiavi. A “garantirlo”, o provarci, continuerà a servire il riscontro con la realtà e non con una sua rappresentazione. E questo attraverso ispezioni, polizia e magistratura, oppure grazie alla fiducia che alcuni brand di prodotto si sono guadagnati nel tempo, garantendo di non usare schiavi nella loro filiera – insomma le autorità delle quali i profeti della blockchain vorrebbero invece liberarci.

Ho detto che come tecnologia la blockchain è oggi inefficiente, sia in termini di risorse assorbite che di prestazioni conseguite. E ho menzionato alcune ragioni per le quali si può dubitare della sua pervasività. Supponiamo però che il progresso tecnico ponga rimedio all’inefficienza. E’, questa, una possibilità concreta, se si pensa a quante risorse stanno venendo dedicate al problema: in fondo, per fare un esempio di successo, il protocollo IP di Internet oggi regola servizi un tempo impensabili. Supponiamo inoltre che la tecnologia blockchain davvero diventi “un paradigma di riferimento per i modelli produttivi e di business in ogni settore”, che tutto pervade nella nostra vita quotidiana, come crede Bentivogli. Sarebbe un bene o un male? E’ una età dell’oro digitale, quella che ci attende?

La mia risposta è: dipende. Anche qui vedo la necessità di governare il cambiamento, senza entusiasmi acritici. E su questo tema non vedo, da parte di Bentivogli, la dovuta attenzione. E’ un tema indubbiamente complesso. Evidenzio qui solo alcuni aspetti che meritano a mio avviso un approccio più critico:

1.      The past is always tense, the future perfect? Nel cantare le lodi di una tecnologia che rende impossibile la modifica del passato, non dobbiamo dimenticarci i casi in cui modificare il passato è necessario perché è giusto. Il Diritto ci presenta un ingegnoso istituto, quello della nullità degli atti, distinto dall’annullabilità: in alcuni casi gravi e tassativi la legge fa in modo che un atto o una transazione possano successivamente essere considerati come mai avvenuti, rimuovendo tutte le conseguenze degli stessi. Di scuola è l’esempio della violenza fisica nell’estorcere il consenso alla conclusione di un contratto; nulli sono anche gli atti contrari a norme imperative. Come farà una comunità sotto blockchain a regolare questi casi, che sono a tutela della comunità stessa e da cui traggono rimedio, in buona sostanza, i deboli più dei forti? L’ “annullare indietro nel tempo” l’atto e i suoi effetti, come si concilia con la decantata immodificabilità delle scritture sul registro ampiamente distribuito? Lo stesso dicasi delle norme sulla privacy: come nota The Economist, il GDPR di recente introduzione in Europa dà agli individui il diritto di chiedere la rimozione dei propri dati dai server di una società. Ma in una blockchain “standard” questo è impossibile perché le transazioni non possono essere alterate. Accenture ha sviluppato una “blockchain modificabile” a tale scopo, il che rende manifesta una sola conclusione: anche qui il cambiamento va governato, la tecnologia blockchain, adatta per certi usi (ancora in larga parte da dimostrare) lo è meno o non lo è affatto per altri, e da sola non ci porta necessariamente in un mondo migliore.

 

2.      Gli smart contract e la tutela di chi non è smart abbastanza. Gli “smart contracts” sono dei contratti scritti sotto forma di software, che in una blockchain si autoeseguono senza ambiguità. Certamente semplificano e velocizzano, come dicono Bentivogli e Chiriatti, ma davvero garantiscono trasparenza e maggiore giustizia per i consumatori finali e i lavoratori, come loro sembrano suggerire? Davvero mettere un software al posto delle Condizioni Generali di Vendita garantisce meglio l’anziano? E’ vero: già oggi la contrattualistica è  spesso scritta con linguaggio volutamente oscuro e in caratteri microscopici. Ma il software è una migliore garanzia? E perché? Io non credo lo sia necessariamente. Come un contratto, il software può contenere errori o malizie del contraente più forte. Ciò che tutela il contraente debole è – e rimane – la legge, i tribunali, nonché autorità di controllo che spesso in Italia sono risultate dormienti o, a pensar male, colluse. L’idea che abolendo i notai quali garanti della fede pubblica e sostituendo gli avvocati con i softwaristi il mondo migliori è accattivante ma pericolosa e sbagliata. Se non si governa il cambiamento, nel nuovo mondo coraggioso, i contratti “smart”, su una blockchain che non ha bisogno di autorità centrali e prescinde dalla fiducia, ci obbligheranno a trasformarci in avvocati e softwaristi. E chi non è smart abbastanza? Soccombe.

3.      L’importanza della fiducia. Ho scritto che ciò che tutela il contraente debole è in ultima analisi la legge, il tribunale, il gendarme. C’è un altro fattore, al riguardo, che soccorre, e che gli entusiasti della blockchain non considerano, vorrebbero cancellare o ritengono che la blockchain renda inutile: ed è la fiducia. E’ spesso la fiducia che ci fa scegliere da chi comprare. E ai problemi che nascono dalla mancanza di fiducia dovrebbe sopperire la blockchain. Ma è proprio così? Io non credo. Prendiamo un esempio spesso citato (ma non da Bentivogli): l’acquisto di un libro digitale da un autore. Anche se spesso compriamo senza pensarci, oggi occorre la fiducia: nel sistema di pagamento che trasferirà l’esatto importo e non di più; nell’autore, se vende direttamente, o in Amazon, se compriamo dalla grande “A”, che poi ci inviino il libro, ed esattamente quello e non un altro. Bene, chi dice che attraverso la blockchain la fiducia diventa un elemento non più necessario sbaglia. Lo “smart contract” della blockchain può contenere errori o malizie; ciò che viene inviato può non essere ciò che si è comprato. Anche in un mondo dominato dalla blockchain, la fiducia rimane un elemento fondamentale per le transazioni e nella vita quotidiana. E avvocati, tribunali, polizia servono come e più di oggi, e serviranno soprattutto per la difesa dei contraenti deboli e degli svantaggiati per i quali, lungi dall’essere un Eldorado di libertà senza istituzioni di governo, una società in blockchain rischia di tramutarsi in una società in catene.

La nascita della blockchain come fattore abilitante delle criptovalute e l’aura anarchica che essa ispira – una visione di mondo in cui l’autorità non serve più, il Leviatano è sconfitto dal progresso e Hobbes va in soffitta – hanno molto contribuito a farne il fenomeno di cui si parla. E questo ha creato una evidente bolla speculativa. Su Linkedin abbondano i profili in cui le persone si dichiarano non solo “Blockchain expert”, ma perfino “Blockchain enthusiast”. Il CEO di un Gruppo multinazionale mi ha recentemente detto che preferiscono sviluppare progetti con tecnologia blockchain anche in presenza di significativi dubbi sul fatto se sia la più adatta al problema, semplicemente perché fa bene al corso dell’azione in Borsa. Un caro vecchio utilissimo sviluppo con database relazionali non se lo fila nessuno – né finisce sulle pagine di Forbes.

Io non mi spingo a dire che questa tecnologia non abbia utili applicazioni. La storia lo dirà. Certamente ritengo una iperbole il considerare la blockchain un “bene pubblico”, come si legge nell’articolo di Bentivogli e Chiriatti – affermazione oltremodo pericolosa oggi in Italia perché rischieremmo di sentire da qualcuno la proposta di nazionalizzarla. Paradossalmente, proprio la bolla speculativa e tecnologica in atto può rivelarsi utile, spingendo molte imprese ad investire nella tracciatura delle proprie supply chain (tracciatura che peraltro esiste da decenni sotto altre tecnologie) e a rendere di fatto inter-operabili i loro sistemi di transazione – il che porta efficienza e può rappresentare un reale e concreto vantaggio, come Bentivogli giustamente sottolinea.

Ritengo però che sulle sfide portate dalla Quarta Rivoluzione Industriale non serva solo entusiasmo per l’innovazione ma anche governo del cambiamento da questa portato: e alla base di questo non può che esserci un sano, ricardiano spirito critico. E che anche rispetto alla tecnologia blockchain non dobbiamo farci travolgere da pericolose illusioni. Non è lei che umanizzerà il lavoro ma, anche in questo caso, programmi che sappiano trovare equilibri difficili tra flessibilità e precarietà, e visioni politiche che riscoprano anche i “meriti e bisogni” di cui si parlava solo pochi decenni fa, in altri contesti e in una stagione troppo presto dimenticata.

 

 

[1] David Ricardo, Principi di Economia Politica e della Tassazione, cap XXXI: Le Macchine

[2] Preferisco citare una fonte pro-blockchain: https://news.bitcoin.com/no-visa-doesnt-handle-24000-tps-and-neither-does-your-pet-blockchain/

[3] In realtà anche su blockchain il consenso diffuso può determinare la possibilità di modifica, ma a tutti gli effetti la possibilità che un operatore possa agire in modo fraudolento, falsificando un anello della catena, è sostanzialmente nulla.

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