Clima
Cambiare per non sciogliersi
La terrificante tragedia della Marmolada, le immagini devastanti del crollo del ghiacciaio hanno catapultato la crisi climatica al centro della nostra attenzione.
La montagna che si spezza, il rumore della valanga, le urla di chi assiste impotente all’immensità di questo fenomeno, ci hanno sbattuto in faccia cosa significa vivere in un clima che cambia.
Siamo solo all’inizio di un processo che certamente non si fermerà qui, che andrà peggiorando nei prossimi decenni, impattando le nostre società, le nostre vite e quelle di tante altre creature in modo stravolgente.
Gli effetti che stiamo vivendo sono quelli di un clima più caldo di 1,1 gradi rispetto al periodo pre-industriale. Stando alle rilevazioni, il riscaldamento globale ha preso una sostanziale accelerata negli ultimi decenni, mostrandoci il carattere dinamico esponenziale del cambiamento climatico in atto. Alla conferenza sul clima di Parigi, è stata fissata ad 1,5 la soglia di sicurezza entro la quale dobbiamo mantenere il riscaldamento globale per non incorrere in accelerazioni esponenziali ed incontrollabili del fenomeno. Stando alle attuali proiezioni, senza interventi drastici sulle emissioni e a salvaguardia dei cicli di assorbimento dell’anidride carbonica, arriveremo oltre questa soglia già in questo decennio.
Sappiamo infatti che l’ecosistema è un sistema dinamico e complesso, ovvero un sistema che fa interagire fattori diversi in continuo mutamento. Sistemi di questo tipo tendono a comportarsi in modo non lineare, dando luogo ad accelerazioni esponenziali o repentini collassi. All’interno dell’ecosistema interagiscono fattori diversi in continuo mutamento, come per esempio atmosfera, oceani, sistemi biologici (piante, animali, batteri insetti, virus…) e geologici.
Siamo consapevoli anche che l’azione umana ha influenzato profondamente l’equilibrio dell’ecosistema, agendo sui suddetti fattori. E possiamo affermare con un grado di certezza con pochi pari nel campo scientifico (che mai è assolutista, ma lascia sempre aperta la porta alla probabilità minima dell’impossibile), che le emissioni di gas serra in atmosfera di matrice umana sono la causa principale del fenomeno di riscaldamento atmosferico a cui stiamo assistendo.
Come noto, i principali gas emessi a valle dell’attività umana sono anidride carbonica e metano, principalmente a seguito della combustione di combustibili fossili o loro derivati, oppure, nel caso del metano principalmente per l’aumento esponenziale di feci ed emissioni gassose di origine animale per via dell’allevamento a fini alimentari, o per perdite in atmosfera da pozzi naturali e metanodotti.
Questi gas, nel tempo, si accumulano nell’atmosfera, intrappolando il calore all’interno di essa, fenomeno noto con il nome di “effetto serra”. Più quindi Gas a Effetto Serra (GHG) si accumulano in atmosfera, più questa catturerà calore, influenzando la regolazione di temperatura del pianeta.
Questa relazione causale però non è immediata a livello temporale: tra l’emissione del gas in atmosfera ed il suo impatto sul riscaldamento atmosferico vi è uno scarto temporale calcolato attualmente intorno ai 10-20 anni (che va però riducendosi man mano che cresce la percentuale di particelle di GHG per metro cubo di atmosfera), dovuto all’azione di cattura della CO2 ad opera degli oceani, che poi rilasciano il gas gradualmente in atmosfera.
Sappiamo che oceani e foreste sono i principali sequestratori di gas serra dall’atmosfera. Purtroppo però da un lato la crescente quantità di anidride carbonica sequestrata dagli oceani sta acidificando il ph marino, rendendo le loro acque sempre meno adatte ad ospitare la vita, e dall’altro i cambiamenti climatici uniti al crescente sfruttamento forestale stanno indebolendo i sistemi boschivi, e conseguentemente la loro capacità di assorbimento.
Insomma, sappiamo un sacco di cose, con un grado di certezza imparagonabile a tante altre nostre sicurezze scientifiche. E le sappiamo da tanto tempo. Eppure continuiamo a far finta di non sapere nulla, ingigantendo quel 1% di dubbio insito nella natura del metodo scientifico, sorprendendoci poi di fronte al clima che ci presenta il conto.
Il lasso temporale lungo tra causa ed effetto è ciò che principalmente ci rende meno intellegibile la relazione tra le nostre emissioni e i cambiamenti climatici: le mutazioni non si manifestano subito, come il dolore al pollicione dopo una martellata, ma si manifestano tempo dopo, in modo non lineare, all’inizio in maniera quasi impercettibile, poi all’improvviso in modo devastante; in generale quando è troppo tardi per agire sul problema.
Come un tumore che inizia silente, e poi quando vai a farti una visita perché non respiri più è troppo tardi. Come per il brutto male, però, abbiamo segnali che possono permetterci di intervenire in tempo, cambiando stile di vita per mitigare o addirittura curare, se siamo ancora in tempo, il male. Ovviamente più tarderemo, più male staremo, e più dovremo adattare la nostra vita alla convivenza con il male.
Ecco, noi questi segnali di disfunzione del nostro organismo, l’ecosistema, li abbiamo da tantissimi anni: sono infatti passati 43 anni dal Rapporto Charney, redatto da un gruppo di climatologi della MIT per l’allora presidente statunitense Jimmy Carter. Il rapporto si concludeva così:
“Abbiamo la prova irrefutabile che l’atmosfera stia cambiando e che l’uomo stia contribuendo a tale processo. Le concentrazioni di biossido di carbonio sono in continuo aumento, il che è legato alla combustione di risorse fossili e allo sfruttamento del suolo. Dal momento chela CO2 riveste un ruolo significativo nell’equilibrio termico dell’atmosfera, è ragionevole ritenere che il suo aumento provocherà conseguenze sul clima”
Insomma, dagli anni settanta gli esami ci dicono che il nostro corpo ha valori coerenti con uno sviluppo tumorale devastante, che ciò è connesso in modo chiaro al nostro modo di vivere. Eppure noi ci siamo girati dall’altra parte e abbiamo continuato a fumare e mangiare schifezze, a lavorare come matti da seduti e ad usare la macchina per fare tre passi.
E’ un comportamento che tanti hanno: di fronte ad una tragedia ancora lontana nel tempo è più naturale nascondersi per paura, evitare il pensiero. E’quello che fanno i fumatori e i tossicodipendenti, ma è anche quello che facciamo tutti quando rimandiamo l’appuntamento con uno stile di vita più sano, nonostante il corpo ci dia sgradevoli segnali di cedimento.
Stravolgere il nostro modo di vivere non è facile. Spesso infatti sono le condizioni esterne che ci tengono legati alle nostre abitudini malsane. Quante nostre attività dannose ci sono infatti imposte dalla necessità, da un lavoro estenuante che paga spese sempre più alte, dalla disponibilità di tempo per noi stessi sempre più, dal prezzo di una dieta sana?
Quanto è il sistema entro il quale viviamo che ci porta a comportarci in modo tale da ammalarci sistematicamente?
Abbiamo segnali molto chiari del malanno del nostro clima da decine di anni. E da decine di anni sappiamo che il nostro modo di produrre, consumare, vivere all’interno del nostro ecosistema finito è in relazione causale diretta con l’acuirsi del male. E quando vediamo franare la montagna, in genere, significa che purtroppo la malattia è già ad uno stato avanzato.
Sappiamo, in definitiva, che il nostro modo di vivere – il nostro modello socio economico – porta il nostro corpo – il nostro ecosistema – ad impazzire, e che alla fine ci farà crepare male.
Ecco, a differenza del rapporto che noi abbiamo col nostro corpo, verso il quale in ultima istanza abbiamo una responsabilità individuale diretta, l’impatto sul clima è il risultato di azioni aggregate nel tempo: è difficile dire di chi sia esattamente la colpa, di chi ha bruciato più combustibili fossili prima o di chi sta disboscando (e bruciando) ora.
Se per tenere in piedi un’economia che vede nella crescita l’unica unità di misura del benessere continueremo ad emettere sempre più gas serra in atmosfera e a danneggiare i sistemi di compensazione dell’ecosistema, la storia andrà a finire male per tutti, anche per i mercati.
Viviamo come umanità in un ecosistema finito, con risorse limitate, determinati equilibri e con una capacità finita di gestire scarti. Se la nostra economia deve crescere continuamente per rimanere in piedi e soddisfare i suoi bisogni (più che i nostri), e se per crescere continuerà a nutrirsi di risorse naturali scarse, scaricando rifiuti tossici in pozzi sempre più esausti, prima o poi il gioco si rompe.
E’ proprio il nostro modello socio-economico che ci porta collettivamente ad avere un impatto drammatico sul nostro ecosistema e di conseguenza su noi stessi come umanità.
Ecco, fatta tutta questa pappardella, sorge la domanda: quando Draghi dice che “ Il Governo deve riflettere su quanto accaduto (alla Marmolada ndr) e prendere provvedimenti perché quanto accaduto abbia una bassissima probabilità di succedere e anzi venga evitato” sta quindi affermando che intende farsi portabandiera di un radicale cambio di paradigma del nostro modello di sviluppo?
Perché, sia chiaro, finché non saremo in grado di vedere la profonda interconnessione tra ecosistema, società e economia, finché non concepiremo altro valore che quello espresso dal PIL, finché non attueremo una transizione complessa verso un’economia sostenibile e giusta, di fatto staremo continuando a soffiare aria calda sui ghiacciai.
Dobbiamo avere coscienza che la transizione verso un modello economico/finanziario sostenibile sarà un percorso complesso, da affrontare senza ideologie preconcette; necessiterà del coinvolgimento attivo degli attori più impattanti, come l’industria pesante e quella energetica.
Perché il sistema evolva senza collassare sulle spalle dei più deboli, politica, industria, finanza, sindacati e organizzazioni non governative dovranno collaborare in modo realistico e scientifico, avendo chiari gli obbiettivi non più negoziabili e abbandonando le divisioni del passato che hanno contribuito a portarci dove siamo ora.
Parafrasando Greta: la casa brucia, e temo non basti usare l’auto elettrica.
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