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Barisoni: “la sostenibilità non è un optional, mercato e banche la richiedono”

28 Febbraio 2023

Sebastiano Barisoni conduce da tempo su Radio24 una delle mie trasmissioni preferite, “Focus Economia”, in onda tutti i giorni dalle 17 alle 18:30, un orario per me complicato ma il comodo podcast mi consente di ascoltarlo in differita.
Spiega i fatti economici della giornata, utilizzando termini semplici e facendo esempi che rendono una materia, considerata ostica, comprensibile a chiunque.
Per dirla con le sue parole “meglio essere maggiormente divulgativi e farsi capire, che essere più precisi, ma non farsi capire se non da una cerchia ristretta di persone, in sintesi è necessario fare una traduzione inversa, portare le cose dal complicato al semplice.”
È stato semplice contattarlo, ha dimostrato subito una grande disponibilità, ricevendomi nella nuova sede del Sole24Ore.
Ho incontrato un professionista del giornalismo, ma soprattutto un grande appassionato di temi economici e finanziari.

Come e quando nasce la tua passione per l’economia?

Nasce per caso, io mi sono laureato in relazioni internazionali, con un indirizzo più sociologico e per i primi anni della mia attività mi sono occupato di Esteri, come si dice in gergo, andando in parecchie aree di conflitto, in Paesi in via di sviluppo, come Sud America, Africa, Pakistan e Afghanistan. Durante la scuola di giornalismo mi appassionava molto la cronaca nera, quindi nulla a che vedere con l’economia. Durante il primo stage, previsto dalla scuola di giornalismo di Milano, sono stato assegnato non più alla cronaca del Gazzettino ma alle pagine di economia e finanza del Corriere della Sera, questo all’ultimo minuto, creandomi anche un certo sgomento, perché l’economia, pur avendola studiata, non rappresentava il mio pane quotidiano giornalistico. Come spesso accade nella vita, quello che all’inizio sembrava una sfiga si è rivelata un’opportunità, perché in quegli anni, nel 1994, l’economia e soprattutto la finanza personale stavano conoscendo un boom. Era il periodo dei Bot People, il risparmiatore italiano investiva sostanzialmente solo nei titoli di Stato, non aveva particolari interessi di natura economica finanziaria. La minor rendita dei titoli di Stato e l’ingresso nell’euro ha fatto si che si sviluppassero altre forme di investimento, il passaggio dai Bot people a diventare dei veri e propri investitori, ha fatto sì che le pagine di economia e finanza, spesso riservate agli addetti ai lavori o relegate all’interno della politica, diventassero pagine sempre di più ad uso di un pubblico generalista. Molti miei colleghi, provenienti dalla scuola di giornalismo, hanno avuto difficoltà a ricevere offerte, per me quei tre mesi di stage all’interno della redazione di economia e finanza del Corriere, poi ripetuti l’anno seguente nella redazione dell’agenzia di stampa Radiocor, che all’epoca faceva capo a Dow Jones, mi hanno permesso di cavalcare opportunità che si stavano aprendo. Nello specifico la Bloomberg stava aprendo il canale televisivo in lingua italiana e il fatto di avere avuto nel mio curriculum un’esperienza di economia e finanza nelle redazioni, mi ha aiutato molto.

A Radio 24 fin dalla sua nascita, qual è stato il suo percorso all’interno della redazione?

La radio nasce il 4 ottobre del 1999, ero reduce dall’esperienza di tre anni a Londra, sono entrato inizialmente con un contratto di collaborazione per condurre un programma che si chiamava “Salvadanaio”, sostituito oggi dal programma “Due di denari” che si occupava di finanza personale, risparmio, investimenti ecc. Anche in questo caso la fortuna aiuta, anche se non basta. Nel 1999 quando nasce Radio24 esplode fino al 2001 la cosiddetta bolla delle Dot-Com, in pratica centinaia di migliaia di italiani iniziano ad investire in titoli che guadagnano cifre importanti, mi ricordo che Tiscali arrivò a capitalizzare più di Fiat in Borsa. Poi le obbligazioni argentine, insomma nasce l’idea che quella new economy possa portare grande rendimenti, solo dopo si è scoperto che la new economy funzionava esattamente come la old economy. Questo fu importante perché il programma Salvadanaio ebbe molto successo, il mio contratto si stabilizzò e andai a condurre “Focus Economia”, il programma tutt’ora in corso. Successivamente, grazie ai direttori che si sono alternati, Zamboni prima e Santalmassi dopo, ho compiuto tutti i singoli passaggi: redattore ordinario, vice caposervizio, caposervizio, vice caporedattore, caporedattore, nel 2011 sono diventato vice direttore e infine, nel 2013, vice direttore esecutivo.

I tuoi maestri o gli insegnamenti che ancora oggi ti sono utili?

Non nominarli tutti sarebbe sgradevole, ognuno di loro mi ha lasciato qualcosa, sicuramente però l’impostazione del Sole24Ore come gruppo, come attenzione ai fatti e al rigore è merito di Elia Zamboni, colonna portante di tutto il gruppo, è stato vice direttore del quotidiano per molti anni, autore del Lunedì del Sole24Ore e di tutta la parte che riguardava norme e tributi, l’ “Esperto risponde”, cioè il giornale al servizio del cittadino. La parte radiofonica invece la devo moltissimo a Giancarlo Santalmassi, lui veniva dalla direzione di RadioRai, la scuola della Rai aveva un’attenzione particolare ai dettagli, mentre noi eravamo maggiormente impostati sui contenuti venendo dal Sole24Ore, mancava una competenza anche di carattere artistico radiofonico.

Come si è evoluto il mestiere del giornalista di economia dai suoi inizi?

Si è evoluto come tutto il mestiere di giornalista in generale, io ho iniziato dopo l’università alla Nazione, mi ricordo i fattorini che portavano le notizie stampate con il telex e le lasciavano sulle scrivanie, il terminale per chi ce l’aveva, molti lavoravano con la macchina da scrivere, era un terminale non collegato a nulla, serviva solo per scrivere. Ci sono state poi trasformazioni tecnologiche importanti, ma l’aspetto più significativo è stata la rivoluzione causata dai social, fino a 10 anni fa si usava internet che prima non c’era, si comunicava in un altro modo. La prima rete intranet l’ho vista da Bloomberg nel ’98. Sono state innovazioni che possiamo definire di processo, la vera rivoluzione sul prodotto giornalistico è avvenuta con i social. L’accessibilità per tutti alle notizie principali del giorno in forma gratuita, ha trasformato quello che, fino a 12 anni fa, era solo un nostro privilegio, allora ero l’unico ad avere accesso alle agenzie e quando arrivavo in un posto tutti mi chiedevano cosa fosse successo. Adesso tutti hanno gratis le notizie sul telefono o sull’iPad e la notizia in sé non è più una merce rara, in mano solo al giornalista, ma è una commodity, un bene che dai per scontato di avere quasi gratuitamente. Questo ha fatto saltare il monopolio, l’oligopolio dell’informazione che prima era in mano nostra. Oggi in questa fase tu ti salvi se riesci a dare un valore aggiunto che la notizia in sé non ha. Nessuno mi chiede più che cosa sia successo, perché già lo sa, ma la domanda che mi viene posta è “che cosa ne pensi di quello che è successo oggi?”, quindi ti salvi, non perché sei l’unico o tra i pochi ad avere la notizia, ma perché riesci ad interpretarla e a spiegarla. Questo è un compito che il giornalismo spesso ha dimenticato. Quando io ho iniziato, soprattutto in finanza e anche in economia, si parlava alla nuora perché la suocera intendesse, l’idea era quella di riferirsi ad un pubblico abbastanza limitato di addetti ai lavori e soprattutto dovevi dimostrare, anche attraverso la conoscenza e la competenza dei termini, di sapere ciò di cui stavi parlando. Un linguaggio pieno di citazioni dotte, di inglesismi, di tecnicismi, l’importante era dare l’impressione a quella comunità ristretta che tu fossi molto competente. Non è che oggi questa cosa sia venuta meno, la competenza è sempre un pre-requisito, però se devo dare un valore aggiunto è necessario fare una traduzione inversa, portare le cose dal complicato al semplice, riuscire a spiegare concetti comprensibili, solo a una cerchia ristretta di addetti, ad un pubblico più vasto, senza aver paura di quello che in sociologia si chiama “declassamento simbolico” cioè di risultare troppo divulgativo. Meglio essere maggiormente divulgativi e farsi capire, che essere più precisi ma non farsi capire se non da una cerchia ristretta di persone. Poi c’è l’interpretazione della notizia, che per sua definizione è secca, neutra, se riesci a declinarla facendo capire che la stessa possa portare ad uno sviluppo di un certo tipo o ad essere un preludio per qualcos’altro, ecco che vai verso un’interpretazione della notizia, che il semplice fruitore magari non riesce a dare.

Qual è invece l’insegnamento che daresti a un giovane che si approccia a questo lavoro?

Noi a Radio24 abbiamo come slogan “la passione si sente”, questo vale per tutti i lavori. La passione ti aiuta a digerire tutta una serie di ostacoli e a metabolizzarli meglio, questo vale per il medico, per il poliziotto, per il cuoco, per il giornalista, la passione aiuta sempre. 25-30 anni fa avevamo un percorso fatto di molti aspiranti, alcuni provenivano da famiglie borghesi che vedevano nella professione una possibilità lavorativa oppure la dico in una maniera un pò stereotipata, i figli meno portati delle famiglie alto borghesi, coloro che non facevano economia e commercio, non facevano medicina, tentavano con il giornalismo. Lì si apriva un percorso che era fatto di molto praticantato, liste di attesa, ma prima o dopo arrivava una sostituzione di maternità, una sostituzione estiva con un contratto di qualche mese e si entrava finalmente nell’informazione. Oggi non è più così per due motivi: i giornali non hanno più margini, i gruppi editoriali non sono messi particolarmente bene; la concorrenza arriva da ogni parte, pensiamo ai social che operano senza pagare spesso i diritti. Noi al massimo andiamo su tassi di sostituzione, cioè per tre esuberi o tre pre pensionamenti, si fa un’assunzione. Poi c’è il tema concorrenza che arriva da prodotti giornalistici che non appartengono a case editrici, o gruppi editoriali come i blog, i social, i canali youtube ecc. La professione è quindi molto diversa rispetto al passato, se già prima il giornalista voleva dire tante cose, oggi ne vuol dire ancora di più, anche perché è molto difficile affermare che un reporter, un freelance che ha un suo blog o un suo canale social, non stia facendo giornalismo, nel momento in cui offre delle informazioni, solo perché non possiede il tesserino o fa parte di un gruppo editoriale. Il mio consiglio è quello di munirsi di molta pazienza, mantenere la passione per il giornalismo vero, anche perché stiamo assistendo ad una proliferazione dei social e delle fonti informative non controllate. Lo si è visto anche durante la pandemia, dove tutti erano diventati improvvisamente virologi, questo porta una fetta di persone più responsabili a riflettere sulla necessità di consultare le informazioni da qualcuno che ha studiato, un po’ come il santone che si è improvvisato medico, tu tendi ad evitarlo e a cercare un professionista che ha le competenze e gli studi necessari. Noi non abbiamo la verità, la differenza sta nei processi di controllo, non abbiamo più verità di un blogger o di una persona che ha un suo canale YouTube. Noi, per una migliore organizzazione del lavoro facciamo due o anche tre passaggi di controllo, le riunioni di redazione servono a questo, a volte ci si scontra perché nessuno ha la verità rivelata, le riunioni servono a verificare le fonti, verificare l’interesse, il pezzo che viene scritto o registrato viene proposto al caposervizi o al caporedattore, che lo valuta ed eventualmente lo modifica e viene poi riverificato nella riunione di redazione. Solo il fatto che diverse professionalità giornalistiche verifichino e controllino il pezzo, parlo di professionalità con diversi ruoli, diverse sensibilità e forse anche con diverse competenze, fa sì che ci sia un maggior controllo sul prodotto finale. Le vecchie regole giornalistiche sono ancora maggiormente valide, soprattutto se si ha una proliferazione di prodotti definiamoli non certificati.

Nel tuo libro “Terra Incognita” descrivi la differenza fra crisi e rivoluzione economica. Puoi riassumerla e soprattutto ora in che fase siamo?

In entrambe. Le crisi economiche portano ad una grossa caduta dell’attività produttiva, in alcuni settori più che in altri, ma anche un recupero della stessa in un tempo abbastanza breve. Io uso sempre l’esempio della crisi matrimoniale, questa crisi è tale se dura per un periodo limitato di tempo, tu puoi essere in crisi da un mese, sei mesi, un anno, ma non puoi essere in crisi con tua moglie da dieci anni, in questo caso non sei più sposato. Le crisi hanno un inizio e una fine, un po’ come quando il corpo sviluppa gli anticorpi, rigetta la parte più debole e riparte più forte di prima. Nelle rivoluzioni lo scenario è completamente diverso, intanto la rivoluzione non ha un inizio e una fine, è impensabile tornare al mondo di prima, le rivoluzioni rompono i paradigmi, distruggono tutti i riferimenti precedenti, ti portano in un mondo nel quale non hai più mappe, o le hai molto approssimative, non hai più riferimenti astronomici, non hai più la bussola, quindi è inutile aspettare quando terminano, perché hanno periodi lunghissimi. Siamo nella quarta rivoluzione industriale, la terza è durata dal dopo guerra fino alla fine degli anni ’90, quest’ultima non so se durerà 15 o 30 anni. Le rivoluzioni colpiscono tutti i settori, non solo alcuni, come le crisi, inoltre modificano e ridefiniscono l’idea stessa di futuro, quando non hai mappe, devi navigare a vista, quindi il tuo futuro si restringe. Con le mappe sai cosa capiterà anche al di là dell’orizzonte, ma senza mappe l’unico tuo futuro è quello che riesci a vedere, cioè navighi a vista, un futuro molto breve. Questo non deve sorprendere perché è tipico delle rivoluzioni industriali, che poi sono sempre anche rivoluzioni politiche, in cui vai a scardinare i modelli precedenti. La rivoluzione di oggi, la quarta, è dettata dalla rete, non da internet che è un’innovazione di processo, ma dal fatto che tutti noi consumatori abbiamo più informazioni di chi offre un bene o un servizio. Questo non è mai successo prima e va a scardinare tutte le rendite di posizione vale per i giornalisti, vale per chi vende polizze assicurative, per chi vende un pacchetto di viaggio turistico, per chi ha un negozio di abbigliamento per chi vende un’auto, insomma vale per qualunque cosa. Io attraverso la rete dal mio divano, posso guardare tutte le offerte di un determinato bene senza aver bisogno di nessuno. Come si supera? Stiamo ragionando in questo periodo di dittatura dell’algoritmo, la sensazione che crea incertezza è quella di essere schiavi di un algoritmo che prima o poi deve scegliere se il consumatore si recherà nel mio negozio o ordinerà on line. Non ho soluzioni, ma quello che noi vediamo è che, in questo momento, per combattere quella che è la rivoluzione dettata dall’algoritmo è necessario sviluppare le cose che l’algoritmo non riesce a darti. L’algoritmo è grezzo, è stupido, è utile se tu vuoi tutte le informazioni presenti in quel momento su un bene o un servizio. Se voglio avere informazioni su un ristorante l’algoritmo è imbattibile, perché in un secondo mi fornisce tutte le informazioni possibili, giudizi, luogo, orari, ma se voglio trovare un ristorante romantico per mia moglie, la cosa diventa più complicata, questa è la differenza. Meglio chiedere ad un amico che conosce i miei gusti, che condivide con me un’empatia forte, l’algoritmo non è mai empatico. La consulenza è una cosa che l’algoritmo non riesce a fare ed è un po’ quello che salva anche noi giornalisti, se riesco a spiegare delle cose facendo una consulenza sull’informazione, vinco sull’algoritmo.

Due parole sui presunti benefici della globalizzazione: nuove merci e tecnologie, prezzi più bassi, accesso universale a internet, cosmopolitismo, tutela delle minoranze, caduta dei tabù sessuali, ecc qual è il tuo pensiero?

La globalizzazione a mio avviso non è la causa di questa rivoluzione, c’è stata una turbo globalizzazione che ha avuto come olio nel motore una turbo finanza, però le rivoluzioni, per definirsi tali, devono avere qualcosa che non è mai accaduto prima. Obiettivamente la globalizzazione noi l’abbiamo già conosciuta, Venezia ha costruito i suoi palazzi globalizzando il commercio delle spezie, dall’Oriente verso il nord Europa, senza mai produrre un grammo di sale e nessun tipo di spezia. Aveva rotte commerciali a Corfù, a Istanbul, Costantinopoli… L’impero britannico e l’impero olandese si sono creati globalizzando le spezie, si è globalizzata addirittura la forza lavoro, gli schiavi dall’Africa venivano portati in America per produrre merci che venivano poi commercializzate ovunque. I Futures nascevano nel momento in cui le navi entravano nel porto del Tamigi e si iniziava a scommettere sul prezzo del carico, prima ancora che venisse scaricato, perché c’era la certezza dell’arrivo della nave. Non posso affermare che questa globalizzazione sia diversa da quella dell’impero britannico nel ’700,  non ha creato una rivoluzione, ma ha creato secondo me i populismi, ha avuto un impatto politico molto forte. Zygmunt Bauman offre la lettura migliore, distinguendo i viaggiatori dai sedentari; i viaggiatori sono quelli che ne hanno beneficiato maggiormente, si è creata una comunità mondiale che ha più o meno gli stessi gusti, lo stesso atteggiamento anche se indifferentemente i facenti parte potevano abitare a Hong Kong, a Londra, a Milano, a Parigi, o a New York, queste persone sono coloro che hanno beneficiato dei maggiori vantaggi perché la globalizzazione gli ha permesso di aprire nuove frontiere, di lavorare in Cina o di spostarsi in Gran Bretagna. Ci sono poi i sedentari, cioè quelli che sono rimasti fissi nel loro luogo di origine e che hanno visto la globalizzazione distruggere il reddito di posizione, pensiamo alle fabbriche che si spostavano in Cina, il call center che rispondeva dall’Albania, questo portava a loro solo svantaggi, la globalizzazione era a vantaggio di chi poteva cavalcarla, cosa che non succedeva a chi restava nei luoghi fisici della produzione. Mi riaggancio al populismo con un esempio, nel vecchio meccanismo feudatario io accettavo che ci fosse il signorotto, il conte, il vassallo con il suo castello, a patto però che lui stesso all’arrivo dei  barbari difendesse anche i contadini. Le elite europee e occidentali dei primi anni 2000, complice la Third Way di Blair, Clinton, e da noi D’Alema e il Pd, hanno abbracciato in maniera entusiasta la globalizzazione, convinti che avrebbe portato solo benefici. Io penso invece che coloro che sono rimasti inchiodati ai luoghi fisici, dove sono nati e cresciuti, dove si produceva, non hanno avuto benefici, hanno visto le elite occidentali, non difendere il feudatario di allora, che pur essendo un signore aveva anche degli obblighi. Non sono stati messi i necessari paletti, la Cina non può avere solo benefici da questa globalizzazione e chiudere il suo mercato alle importazioni, anzi è stata abbracciata come la terza via che avrebbe superato la contrapposizione tra capitalismo e comunismo della Guerra Fredda. Da qui il quesito: a cosa mi serve il feudatario se non mi difende dai barbari? Quindi viene rimessa in gioco la ragion d’essere stessa dell’élite.

Sempre più spesso si parla di finanza sostenibile, cosa consigli alle PMI che si avvicinano ora a questi temi?

Il tema a volte è mal posto. Se la finanza è sostenibile non deve essere semplicemente in un’ottica ESG perché va di moda, così è solo green washing, quello che in Veneto definiscono “una mano di bianco”, ovvero aggiungere una fogliolina verde da qualche parte. In realtà dovrebbe essere una cosa un po’ diversa  i piccoli e medi imprenditori dovrebbero leggerla in questo modo: il mondo bancario e del credito, di cui loro stessi hanno bisogno, sta iniziando ad operare anche una diversa valutazione del merito creditizio a seconda dei piani di sostenibilità, ma non perché improvvisamente le banche siano diventate tutte Greta Thunberg, ma perché ritengono che la sostenibilità non può essere un’azione spot, fare un parco, comperare mille alberi o sposare l’iniziativa di una Onlus pensando di essersi lavati la coscienza. La sostenibilità è un processo che interessa alla finanza, perché nel medio periodo sarà il mercato a chiedere di acquistare preferibilmente prodotti sostenibili, perché lo vuole l’opinione pubblica e questo sta già accadendo. Tutti noi proviamo una gratificazione personale nel leggere che il pacco del prodotto alimentare è fatto con carta riciclata o sapere che si contribuisce a ridurre la deforestazione. Il consumatore sarà sempre più attento a scegliere prodotti maggiormente sostenibili, poi ci si mette anche il legislatore, le imprese rischiano di essere esposte a qualsiasi modifica legislativa, pensiamo a cosa sta succedendo al mondo dell’auto, che non si era posto il problema, ora trovo sbagliata la soluzione europea così a breve, però va detto che il mondo dell’auto pensava si potesse andare avanti all’infinito con il motore a scoppio. È necessario prepararsi, ecco perché è più importante il percorso della singola iniziativa, la finanza non si fiderà a prestare soldi a qualcuno che non sarà appetibile per il mercato. Faccio sempre questo esempio: se la finanza avesse prestato o messo soldi nelle pellicce Annabella negli anni ’80, si sarebbe ritrovata negli anni ’90 con un gruppo che veniva espulso dal mercato, perché la pelliccia per il consumatore era diventata qualcosa di non più sostenibile, ma questo non lo decide la banca, lo decide il mercato, le donne hanno deciso di non voler più indossare la pelliccia. Se l’impresa non procede in un percorso ha un alto rischio di venire esclusa dal consumatore e anche dal legislatore. Il processo di attenzione per la sostenibilità deve interessare perché il processo sta entrando, a pieno titolo, nei processi con cui la banca o un fondo valuta il metodo creditizio di un’azienda, oltre che per un discorso etico visto che non esiste un Pianeta B.

Foto di Niccolò Caranti su Wikicommons

 

 

 

 

 

 

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