Economia

L’estate 2015 consacra Airbnb sul mercato italiano

5 Settembre 2015

Un milione e mezzo di alloggi in tutto il mondo, più del doppio di catene internazionali del calibro di Marriott, Hilton e Intercontinental. Non solo. Su Airbnb “gira” più del 17% di tutta l’offerta ricettiva di New York, l’11,9% di quella di Parigi e il 10,4% di quella Londra. L’Italia è il terzo mercato mondiale dopo Usa e Francia: e da luglio 2014 a oggi gli annunci sono raddoppiati. Sono 180mila in totale, di cui 18.000 a Roma e 14.000 a Milano.

L’estate 2015 ha segnato una piccola ripresa del turismo nel Bel paese: secondo Federalberghi l’Italia ha registrato 30 milioni di visitatori, tre in più rispetto al 2014. E questa ripresa è passata anche attraverso la consacrazione di Airbnb. Dal 2008 a oggi questa applicazione basata sull’ospitalità temporanea, occasionale e dietro compenso, ha permesso complessivamente a più di 2,7 milioni di persone di visitare l’Italia. «Agli host offriamo una piattaforma facile da usare per inserire un annuncio e condividere dello spazio inutilizzato, traendone un vantaggio economico e sociale – spiega Matteo Stifanelli, country manager per l’Italia di Airbnb –. Per gli ospiti, Airbnb fa vivere un’esperienza di viaggio unica e autentica, che nessun altro servizio offre».

«È soprattutto una questione di comodità – spiega Sara S., che affitta un appartamento nel centro di Roma e a 23 anni è già host da 5 stelle (l’età media degli ospitanti è 42 anni e l’80% ha più di 30 anni) – Per un prezzo più o meno simile hai una casa anziché una camera, e puoi usare servizi utili come la lavatrice». Prerogativa essenziale per chi non viaggia più , come una volta, su una singola destinazione, ma magari usa i nuovi strumenti a disposizione per concepire una vacanza più lunga, come può essere quella estiva, facendo tappa in varie località. «Benché le prime due località per numero di annunci siano tuttora Roma e Milano – conferma Stifanelli – la tendenza dell’ultimo anno è di una forte crescita delle località di mare e di montagna, in particolare la Sardegna e il Trentino».

C’è poi un’altra novità nella cavalcata di Airbnb: gli italiani, notoriamente proprietari di immobili e dunque perfettamente rispondenti all’identikit dell’host, non sono più solo ospitanti ma sempre più utilizzatori della piattaforma. «Prima Airbnb in Italia veniva usato soprattutto da stranieri, e gli italiani lo usavano al limite per andare all’estero: la nuova tendenza è invece che noi stessi viaggiamo sempre di più in Italia, sfruttando l’ospitalità dei nostri concittadini», spiega ancora il country manager.

Non è dunque (solo) una questione di prezzi. Quelli possono variare a seconda dell’offerta e, se l’host lo ritiene opportuno, del periodo dell’anno. Così un appartamento in centro a Roma può valere 150 euro a notte in alta stagione ma anche dai 50 ai 90 in bassa stagione, mentre per una camera nei quartieri “in” di Milano e Torino può costare 30 euro a notte, che diventano anche 40 a seconda degli eventi fieristici e culturali che le due città offrono. C’è anche chi decide di fare lo stesso prezzo tutto l’anno, come Maria Luisa M., 31 anni, che accoglie i propri ospiti a due passi dalla Stazione Termini di Roma: «Il prezzo è 100 euro a notte di base per 2 persone, poi 15 euro ogni persona in più: posso ospitare al massimo 4 persone, perciò il massimo è 130 euro a notte, tutto compreso».

Il servizio, poi, ha pochi costi aggiuntivi: ai viaggiatori viene addebitato un costo tra il 6% e il 12% ad ogni prenotazione (più alto è il totale, minore sarà la percentuale affinché si possa risparmiare nel caso di soggiorni lunghi). Agli host viene invece addebitata una commissione del 3% per ogni prenotazione: per fare un paragone con una piattaforma analoga, la fee chiesta da Booking (che offre una vetrina online per le strutture alberghiere tradizionali) supera nella maggior parte dei casi il 20%. «Inoltre – sottolinea Stifanelli – l’importo esatto è sempre visualizzato nel dettaglio del prezzo nella pagina della prenotazione, prima di confermare e pagare, e successivamente sulla ricevuta».

Airbnb è dunque soprattutto una questione di affibadilità, come nello spirito originario voluto dal cofondatore Brian Chesky, che descrive la sua creatura come una “piattaforma centrata sulla fiducia”. A differenza di altre controverse realtà della sharing economy, Airbnb ha innanzitutto dribblato la questione relativa alle recensioni. «Le recensioni – spiega Matteo Stifanelli – possono essere fatte solo dopo che è avvenuta una prenotazione online sul nostro sito con carta di credito e il viaggio è terminato, sia per l’host che per il guest. Per migliorare ulteriormente l’autenticità, l’anno scorso abbiamo adattato il sistema in modo che le recensioni siano rese pubbliche solo una volta che entrambe le parti (host e guest) abbiano lasciato la propria. Inoltre, diamo la possibilità a entrambi di scambiarsi tra loro un feedback privato».

Constatatone il successo, per molti questo nuovo strumento – considerato da alcuni l’evoluzione redditizia del couchsurfing – è diventato un vero e proprio business. Lo spirito originario, legato all’estemporaneità di un’esperienza dal forte valore sociale, si è tramutato nell’opportunità di far rendere i propri spazi per lunghi periodi dell’anno, facendo di conseguenza nascere alcune problematiche. Sicuramente secondaria è quella concorrenziale: Airbnb infatti non è Uber, non fa concorrenza agli alberghi come Uber ai tassisti e infatti, mentre l’app di ride sharing viene bloccata in mezza Europa, l’atteggiamento collaborativo di Airbnb ha fatto sì che ormai il Vecchio continente sia il cuore pulsante del suo mercato, con Francia e Italia in pole position.

Le problematiche sono invece di natura legale e fiscale, a incominciare dalla tassa di soggiorno. Notizia recente è lo storico accordo con la città di Parigi (prima meta Airbnb in Europa), dove l’azienda si è impegnata a raccogliere direttamente la tassa e a versarla nelle casse pubbliche. «Il servizio offerto dai nostri host – spiega Stifanelli – è spesso non è di natura professionale e continuativa, ma riteniamo che sia comunque giusto far pagare questa tassa, se è prevista dalle leggi dei vari Paesi. In questo siamo assolutamente collaborativi e stiamo dialogando anche con gli enti locali italiani». Anche contro la propria convenienza, visto che basta andare sulle community degli host per rendersi conto che la tassa di soggiorno è percepita come un odioso balzello dai turisti, che spesso si rifiutano di pagarla o “si vendicano” lasciando cattive recensioni. «Purtroppo è vero, ma non ci possiamo fare niente: su questo sta semmai all’Ue cambiare indirizzo».

Difficile tuttavia che l’Ue ci pensi: il giro d’affari di Airbnb, che la banca d’investimento Barclays ha stimato triplicarsi da qui al 2016, fino a raggiungere le 129 milioni di stanze-notte per anno nel mondo, fa gola ma anche paura. E dopo Parigi, ha alzato la voce anche Barcellona, dove il nuovo sindaco Ada Colau, attivista anti-sfratti, ha dettato la linea dura: niente subaffitti, pernotto nell’alloggio col visitatore, massimo quattro mesi di attività e tassa da 0,65 centesimi di euro al giorno a persona per il capoluogo e 0,45 per gli altri centri del territorio. Un’autentica battaglia contro l’esercito di nuovi affittuari, accusati dai residenti di molte zone – su tutte Barceloneta, il quartiere popolare sulla spiaggia della città – di pompare i prezzi degli affitti per lucrare sulla sempre pressante richiesta dei turisti. I cittadini temono, sul lungo periodo, di essere in qualche modo costretti a pagare locazioni più alte, magari ad abbandonare la zona.

Il problema non è nuovo e se ne è occupato di recente l’autorevole New York Times in un articolo intitolato The dark side of the sharing economy, che pone l’attenzione sulla questione urbanistica: l’analisi sostiene che, dato il continuo aumento degli affitti e la stagnazione dei salari, «la città non può permettersi di avere ancora più appartamenti trasformati in hotel illegali», e sottolinea che «ci sono buone ragioni perché il governo regoli gli alloggi: servono leggi per separare sviluppo alberghiero e residenziale, in modo che i turisti non invadano le città riducendo lo spazio per i residenti, e per assicurare che gli inquilini più poveri abbiano posti dove vivere», e non siano espulsi dall’aumento degli affitti.

Nel 2013, la cifra media per l’acquisto di un immobile nella Grande Mela ha raggiunto i 900.000 dollari e gli affitti mensili sono arrivati fino a 3.250 dollari, cifre che il New York Times ha definito «insostenibili per l’86% dei residenti». Anche gli sfratti vanno intensificandosi, con un incremento complessivo pari al 38% tra il 2010 e il 2013. E sarebbe proprio il boom di Airbnb uno dei principali motivi degli sfratti, che in base all’Ellis Act del 1985 possono essere eseguiti lasciando poi sfitto l’immobile: nel 2014 la stampa Usa ha riportato il caso di un inquilino che pagava 1.900 dollari al mese per un appartamento nella City, che ha querelato i proprietari per “sfratto iniquo” perché, anziché andarci a vivere loro stessi lo affittavano su Airbnb con tariffe fino a 145 dollari a notte.

In Italia questo tema non è ancora così sentito, ma nel frattempo Airbnb gioca d’anticipo e collabora con le istituzioni. «Vogliamo essere partner delle città – rivendica Stifanelli -, aiutandole a gestire l’accoglienza per i grandi eventi e non solo, attraverso la proposta di un’ospitalità più sostenibile, che non preveda la costruzione di nuove infrastrutture. In particolare con Milano il dialogo è già avanzato e costruttivo: l’amministrazione ha fatto una scelta ben precisa nel favorire le realtà della sharing economy, creando anche – a gennaio – un Albo degli operatori che consenta trasparenza e collaborazione».

Milano, città dell’Expo ma anche della moda e del Salone del Mobile, è al momento il caso più virtuoso, quello che verosimilmente per primo arriverà a un modello stile Parigi. «Le istituzioni sono già al lavoro, con la nostra collaborazione, per modificare la legge regionale che regola la tassa di soggiorno, in modo da farla pagare anche a chi, a differenza di quanto previsto al momento, non esercita un’attività alberghiera e quindi anche volendo non potrebbe farla pagare ai propri ospiti», aggiunge Stifanelli. Dunque la pagherebbe anche chi offre la propria ospitalità in maniera occasionale, tipico di una città come Milano che vive di grandi eventi ma non di flussi turistici continuativi.

Diverso il discorso a Roma, dove i viaggiatori arrivano tutto l’anno e molti host sono già organizzati per pagare la tassa, che per la legge regionale del Lazio è sensibilmente inferiore a quella destinata agli alberghi: 3,50 euro a notte per le case vacanze. In molti casi il problema è però come pagarla: «La tassa di soggiorno – racconta Marco T., 34 anni – si paga ogni 3 mesi entro il 15 del mese successivo al trimestre, ma nessuno ti spiega bene come: solo dopo un anno ho capito che potevo pagarla anche in tabaccheria o online sul sito del Comune». Anche su questo, spiega Airbnb Italia, «stiamo lavorando per rendere più semplice la vita agli host e collaborare con le istituzioni affinché siano scritte nuove regole e rispettate da tutti. A Roma possiamo dare una grossa mano per il Giubileo, e i primi contatti con le istituzioni sono stati incoraggianti in questo senso”.

Altro tema scottante è infine quello dell’imposta sul reddito che molti, in virtù di un’attività di natura occasionale e di introiti relativamente bassi, evitano di pagare. Per qualcuno è stato persino uno dei motivi che ha portato ad abbandonare la piattaforma: è il caso di Claudia D., 39 anni, che affittava una camera nel proprio appartamento in centro a Torino, per 30-40 euro a notte più 5 per le pulizie. «I guadagni erano comunque bassi e le tasse alla fine non le pagavo. Questo è secondo me il vero limite: chi ha un lavoro dipendente e non compila il 730 può anche omettere di dichiarare, anche se oltre una certa soglia potrebbe essere rintracciabile dall’Agenzia delle Entrate».

Attualmente, per chi non esercita un’attività imprenditoriale e dunque con partita Iva, la soluzione più ricorrente è dichiarare gli incassi e pagare il 21% di imposta tramite cedolare secca. Airbnb da parte sua avvisa gli host sul sito (“Ci aspettiamo che tutti gli host rispettino le normative fiscali della propria zona”) e invia ogni anno il resoconto di tutte le transazioni. Documento che in teoria l’host dovrebbe poi mettere in mano al commercialista. «Ricordiamo sempre agli host – sottolinea Stifanelli – di rispettare le imposte, aiutandoli anche a tirare le somme della propria attività: in ogni caso, su Airbnb i pagamenti avvengono con carta di credito e tutti i movimenti sono tracciabili».

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