Economia civile
Pedroni, Pd di Milano: “Gli italiani ci indicano una enorme questione sociale”
L’idea di intervistare Valerio Pedroni, consigliere PD Comune di Milano, Presidente delle commissioni carceri e Vice Presidente della commissione welfare e salute, mi balena in testa fin dalla Civil Week di Milano che lui, in qualità anche di dirigente del Forum del Terzo Settore, ha contribuito a creare. L’occasione si è presentata però settimana scorsa, subito dopo i risultati delle elezioni. Ho conosciuto una persona molto preparata, decisa e con una visione sul futuro del Terzo Settore per nulla scontata. La sua esperienza vanta più di 20 anni nel mondo del volontariato e dell’impresa sociale, ex responsabile della Fondazione Somaschi, oggi, oltre alla carica politica al Comune di Milano, ricopre il ruolo di responsabile del programma Italia di WeWorld.
Non possiamo non iniziare parlando delle lezioni di settimana scorsa. I (non) elettori del PD recriminano al Partito una mancanza di adesione alla realtà, il non riuscire a comunicare al “popolo”, non comprendere i reali problemi che i giovani e la famiglia media italiana sta affrontando in questi anni. Secondo lei da cosa deve ripartire il PD?
La mia risposta è che bisogna ripartire dai diritti sociali e dalla gigantesca questione sociale. Non che non ci siano stati diversi candidati che abbiano spinto in questa direzione, ma sicuramente non lo abbiamo fatto in maniera collettiva e mettendolo al centro della campagna elettorale. Abbiamo creato, in modo ampio come sistema Paese e con al centro le città più avanzate, la retorica dell’ecologia e dell’attenzione all’ambiente e se penso a Milano stiamo facendo dei passi spediti in questa direzione. Lo scatto sull’area B che entra in vigore in questi giorni e che comprende quasi tutta la città di Milano, il Forum sull’ambiente, una serie di eventi sul tema in programma settimana scorsa, insomma una serie di iniziative per le quali nessuno può negare che oggi, su alcuni processi di rigenerazione e sulla mobilità, stiamo investendo e stiamo andando verso il concetto di città più green. Il rischio però di questo assetto, più sostenibile e più ecologico, è che sia accessibile solo a chi se lo può permettere, a chi ha un reddito per poterlo fare. Milano in questo senso è la cartina tornasole, perchè sempre di più sta espellendo i giovani e le giovani famiglie, nonostante gli sforzi che si stanno facendo affinché ciò non accada, penso per esempio al progetto Reinventing Cities che è un progetto di riqualificazione che stiamo portando avanti insieme a C40, ma che se però guardo ai grandi numeri rimane un progetto irrisorio rispetto alle grandi transizioni immobiliari che stanno muovendo la città, anche in vista delle Olimpiadi. Credo che quello che a Milano emerge in maniera potente e che in nuce si respira un po’ ovunque è il rischio di far emergere una questione sociale ed è inevitabile che questo viri al populismo, che è il contrario della democrazia. Il modello di sviluppo sul quale abbiamo investito in questi anni, noi come Occidente e come Italia, è quello di un sistema capitalistico che ha il desiderio e riesce in qualche modo (al netto degli anni di pandemia) a ridurre la povertà, però ha endemicamente prodotto l’espansione delle disuguaglianze. Quindi si riducono i poverissimi, ma il ceto medio si abbassa e il rancore e l’odio, non verso i ricchissimi, ma verso chi sta meglio, crea la frattura che porta al populismo. Se sto creando un ambiente più digitale, più ecologico, ma lo faccio solo per chi se lo può permettere, sto creando una situazione potenzialmente esplosiva. Noi come PD avremmo dovuto rendere più forte il concetto di conciliazione tra ecologia e sociale, e avremmo dovuto essere più bravi nel raccontare questo nuovo modello di economia. Inoltre credo che abbiamo pagato un tema di alleanze e la retorica di chi da 10/15 anni sta all’opposizione e di fatto è riuscito a concentrare tutto questo populismo e tutto il malessere che si ritrova nell’incapacità di reinterpretare questo modello di sviluppo, che invece credo sia il cuore della questione.
Quali sono in questo momento le urgenze che più preoccupano il Terzo Settore?
Sono tante. Innanzitutto il Terzo Settore è un mondo molto ampio ed è una parola che non amo molto, perchè pone la Società Civile al terzo posto, tra Mercato e Stato e raggruppa tutto ciò che la società civile strutturata produce. Credo invece che andrebbe creata una distinzione tra il mondo dell’associazionismo, del volontariato, della promozione sociale e quello dell’imprenditoria sociale. Il mondo dell’imprenditoria sociale, ovvero della cooperazione di tipo b e di tipo a (B cooperative di lavoro e A cooperative di servizi), in modo particolare le cooperative di tipo B che stanno oggi esprimendo in modo più potente l’economia civile, sono la grande risorsa italiana, che come istituzioni abbiamo il dovere di implementare al massimo, perchè è lì che si trova il modo di tenere insieme la questione sociale con il mondo dell’innovazione, digitale e ambientale. Esistono delle esperienze pazzesche di innovazione, cooperative che gestiscono piattaforme di turismo sociale, ristorazione, ma penso anche a quello che si sta facendo nel mondo del restauro, del commercio digitale. Oggi c’è una fioritura di cooperazione sociale che sta facendo imprenditoria straordinaria, misurandosi con il mercato ed lì che dovremmo investire, rafforzando quello che il Codice del Terzo Settore ha fatto. Dovremmo fare in modo che le commesse e gli appalti, per esempio nel mondo delle municipalizzate, funzionino come l’imprenditoria sociale, che ha nel suo DNA il dare lavoro ai fragili e dove il profitto viene ridistribuito per generare capitale sociale verso l’ambiente e verso la propria comunità. Questa forma di imprenditoria dovrebbe avere una destinazione naturale in tutte le forme di lavoro che il pubblico trasferisce al privato. Sembra un’ovvietà, ma non è così. Dall’altra parte abbiamo tutta la sfera delle associazioni e promozione sociale legata al Welfare, dove la sfida è reinterpretare la disponibilità che hanno i giovani, perchè oggi è difficile intercettarli e l’associazionismo ha delle basi sociali costituite da persone anziane che fanno fatica a interpretare le esigenze dei giovani, che da parte loro preferiscono il mondo dell’imprenditoria sociale. Inoltre non è da trascurare che le professioni della cura, spesso legate al mondo della promozione sociale, non interpretano più il bisogno di lavoro dei giovani, abbiamo sempre meno educatori, soprattutto a scuola, dove invece il bisogno è esploso negli ultimi anni e nonostante le risorse siano aumentate, non è sufficiente a colmare il vuoto. Lì la questione è legata agli stipendi, che sono bassi e l’aver professionalizzato troppo la figura richiesta l’ha reso un lavoro pagato troppo poco.
Lei parla spesso dei giovani e molte delle sue proposte, l’ultima per esempio è lo stop ai seggi nelle scuole o anche la formazione sociale per la polizia locale, vanno nella direzione di una maggiore tutela e di un dialogo aperto con i minori. Quali sono gli interventi da mettere in atto?
Oggi la questione educativa trova l’ostacolo più grande nel modello scolastico che è ancora fermo al modello tayloristico, basato sull’educazione di massa, che non interpreta le grandi esigenze di questo tempo, anche solo dal punto di vista del metodo. Pensiamo anche solo al calendario scolastico, che oggi non è compatibile con le esigenze delle famiglie, va ripensato un modello educativo che funzioni 11 mesi l’anno, rivedendo il calendario e rivedendo un modello che non preveda un insegnamento frontale, limitato allo spazio classe. Bisognerebbe lavorare su un modello basato più su lezioni all’aperto, sull’esperienza; abbiamo una tradizione montessoriana che abbiamo relegato a una formazione privatistica e spesso molto costosa, quando invece dovrebbe essere alla base di tutto il sistema educativo. Penso per esempio al modello “scuola senza zaino”, che prova a ibridare al modello attuale quello montessoriano e suono scuole pubbliche che lo stanno facendo, senza risorse particolari, ma ingaggiando i genitori e facendo un discorso sulla comunità educante, cercando di stravolgere l’attuale modello educativo, ispirandosi a quello montessoriano. È ovvio che questo è strettamente collegato alle pari opportunità e alla costruzione di una società più giusta, anche in ottica di genere, ma tutto il lavoro in quella direzione stride con un modello di scuola che blocca il sistema familiare a quello che si sta cercando di superare. Credo che il Terzo Settore possa essere il motore per questo cambio di modello che è necessario. Per esempio dovremmo pensare agli educatori, non come educatori di un solo bambino con disturbi, più o meno gravi, che deve essere allontanato dalla classe per permettere agli altri di andare avanti con il programma, ma come pedagogisti dell’intera classe, che lavorano per costruire una classe davvero inclusiva e non per allontanare il singolo bambino dalla classe durante alcune attività. Se il Terzo Settore lavorasse per non adattarsi al modello educativo attuale, ma per trovarne e proporne altri, farebbe sicuramente il suo dovere.
Quanto è importante e allo stesso tempo difficile coinvolgere la cittadinanza?
Se guardiamo i dati, quello che emerge è che il numero di volontariato in Lombardia è molto alto. Per anni ho fatto parte del Forum del Terzo Settore della Lombardia, con una delega sulla provincia di Milano e il problema del mondo del volontariato lombardo era proprio quello di tenerlo insieme, di farlo parlare, di creare delle reti. Oggi il problema che evidenziamo è che molte realtà non riescono ad adempiere alle regole richieste dalla riforma del terzo settore per ottenere poi lo Statuto di ETS e quindi rischiamo di perderle. È un paradosso, perchè abbiamo delle grandi centrali operative, delle grandi centrali di associazionismo, come per esempio i CSV (ndr Centro Servizi per il Volontariato), grandissime centrali di competenze che potrebbero diventare un valore per tutte le realtà più piccole, che altrimenti rischiano di morire travolte, un po’ da questi anni di pandemia, ma anche dallo scoglio della burocrazia, che sarebbe facilmente arginabile. Dall’altra parte abbiamo le grandi centrali operative che lamentano il tema del volontariato, non riescono a trovare i volontari, perchè il tutto si sta spostando più sui lavoratori. L’equilibrio della cooperazione sociale è sempre stato fra soci volontari e soci lavoratori. Perchè quindi non si riescono a trovare delle alleanze grazie alle quali le piccole associazioni si alleano alle grandi centrali, che magari hanno la stessa mission, portando l’ossigeno del volontari e trovando invece supporto per tutta la parte più amministrativa e burocratica? Questo secondo me è il lavoro che come rappresentanti del Terzo Settore dovremmo fare, favorire queste reti per evitare di perdere tutta una serie di associazioni più piccole, che però sono molto preziose. Le ONG in questo sono più avanti, perchè ci sono le Grandi e poi tutta una serie di associazioni a loro legate, quindi c’è una struttura direzionale e poi una serie di associazioni a loro affiliate, che fanno il loro percorso, portano avanti la loro mission, beneficiando però di tutte le competenze della grande ONG, pur avendo i loro organi amministrativi. Sono inoltre molto capaci di coinvolgere i giovani, che hanno comunque bisogno di radicalità. Questi sono i modelli ai quali guardare con attenzione.
Qual è invece il ruolo del Privato e come è cambiato negli anni il rapporto con il terzo settore e il volontariato?
Il rapporto è cambiato moltissimo negli ultimi anni, per esempio è cresciuta da parte delle aziende la sensibilità nei confronti del sociale e non in termini di green o social washing, ma per molte realtà è proprio un discorso fondativo e diventa poi fondamentale nel creare appartenenza sul luogo di lavoro. Oggi tra l’altro esistono degli evoluti sistemi per fare fundraising, come per esempio il volontariato d’impresa e credo che sia un sistema che sta sempre più crescendo nelle aziende. Dall’altra parte sta sempre più crescendo nel Terzo Settore la capacità di dialogare con le imprese e le B-Corp sono la dimostrazione di qualcosa che prova a stare nel mezzo fra Impresa e Impresa Sociale. Purtroppo anche in questo caso sono necessarie competenze e il rischio è che solo le grandi imprese possano permettersi determinati percorsi. Anche in questo caso sono convinto che un dialogo aperto fra realtà aumenterebbe le occasioni di fundraising e credo che l’ente pubblico dovrebbe avere un ruolo di governance nel creare queste relazioni. Se penso al Comune di Milano che ha rapporti costanti con le aziende e che conosce quali sono i problemi del welfare, le questioni sociali urgenti del territorio, potrebbe fare da collettore per definire le partite comuni e per creare una rete fra aziende e terzo settore.
Progetti Futuri?
Il più grande è quello di iniziare una commissione speciale di economia civile a Milano. Ho scritto una delibera consigliare che è stata sottoscritta da tutti i capogruppo di maggioranza e da alcuni dell’opposizione, per costituire una commissione speciale e permanente sull’economia civile e lo sviluppo del Terzo Settore. L’obiettivo è quello di creare una casa politica e istituzionale per tutti quelli che credono che Milano non debba essere la migliore a fare profitto e la migliore a curare gli scarti prodotti dal sistema di profitto stesso, ma deve essere la prima città a creare un’economia, in cui il modello di sviluppo non crea scarti, in cui si prova a tenere insieme industria, Assolombarda con Confcooperative e Confcommercio. Un’economia di sviluppo più improntata alla cooperazione che alla competizione, alla qualificazione del territorio e alla costruzione di capitale sociale e umano. Questa è una grandissima sfida che se approvata dal Consiglio, sarò ben contento di portare avanti nei prossimi anni. Per esempio ottimi esempi di economia civile li troviamo nelle economia carceraria, grazie alle imprese sociali che lavorano presso le carceri, con l’obiettivo di dare al detenuto le competenze professionali per tornare nella società gradualmente e naturalmente. Tra tutti ho in mente due nomi: Bee4 presso il carcere di Bollate e Cidiesse al Carcere Beccaria. Cidiesse costruisce quadri elettrici utilizzati in tutto il mondo. I ragazzi del carcere iniziano un percorso formativo di disciplina lavorativa ferrea, sono assunti per un anno e dopo un anno mettono il CV in rete e in meno di 24 ore hanno un posto di lavoro. Nel Consorzio di Via dei Mille abbiamo la visibilità di queste attività, perchè abbiamo dato uno spazio a un gruppo di cooperative di tipo B dove esporre i lavori che realizzano all’interno delle carceri. Credo che l’economia delle carceri sia un ramo dell’economia civile al quale si dovrebbe dare molto risalto.
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