Economia civile

La nuova scienza del rischio, un “manuale sul futuro” di Federica Spampinato

19 Novembre 2020

Per gentile concessione di Guerini Editore pubblichiamo un estratto del primo capitolo del libro “La nuova scienza del rischio” di Federica Spampinato. 

Sempre di linguaggio parliamo quando diciamo che il futuro è il tema protagonista di un regime discorsivo che, a seconda dei contesti in cui si sviluppa, ha la capacità di creare diverse narrazioni di futuro.

Nel dibattito accademico

Il problema del futuro nel dibattito accademico insiste su questi elementi di incertezza: in quale punto dell’onda dell’accelerazione tecnologica ci troviamo? Si arriverà alla singolarità tecnologica, ovvero al momento in cui l’uomo con le sue capacità non sarà più in grado di prevedere nessuno scenario perché l’evoluzione tecnologica sarà ormai al di là della sua comprensione e del suo raggio d’azione? È vero che le macchine imparano o è un’illusione? Il robot sarà in grado di scegliere, e se sì, come sceglierà? Che ne sarà della nostra coscienza? C’è la possibilità di arrivare a una forma di ibridazione tra l’uomo e la macchina? È utopistico credere di poter raggiungere una forma di immortalità con la tecnologia?

Questo dibattito, interessante e acceso, spesso non è di facile accessibilità, se non in un ambiente specialistico. Ciò non aiuta lo sviluppo del critical thinking, che coadiuva le scelte applicate alle nostre azioni anche nei confronti della tecnologia. Così, è facile sentir dire «È colpa di un algoritmo» oppure «Le macchine creeranno disoccupazione»: un’affermazione peraltro potenzialmente vera, ma solo se contestualizzata e riferita a un arco temporale specifico o a un determinato settore. Queste convinzioni, a prescindere dalle posizioni più o meno progressiste del singolo, sono sintatticamente fallaci perché denotano la mancanza di una cultura digitale condivisa e impressa nell’ambiente sociale.

Il discorso sul futuro, che duella su questioni ontologiche, epistemologiche, giuridiche ed etiche, è complesso, affascinante e inquietante e la maggior parte delle innovazioni tecnologiche già in atto è ancora sconosciuta alla maggioranza del mondo digitalmente alfabetizzato: un mondo, quest’ultimo, che si contrappone a quella parte di popolazione mondiale che per cultura, per scelta o per obbligo non ha accesso alla tecnologia.

Nel dibattito aziendale

Aziende e industrie di ogni dimensione e settore oggi affrontano l’ingresso o la specializzazione nell’ambito della digitalizzazioneper ciò che concerne il loro specifico indirizzo, di cui il lavoro agile è solo un aspetto. Chi aveva eluso questo incontro è stato obbligato a riconsiderarlo a seguito della pandemia globale.

Alcuni scenari futuri, rimandati e procrastinati, sono diventati un presente urgente – con tutte le caratteristiche dell’urgenza – a discapito degli organici tempi di pianificazione. Pensiamo alla necessità di dotare i dipendenti di device per l’home working, o a quella di alfabetizzare una popolazione interna per renderla consapevole di cosa significhi lavorare in ambienti virtuali; pensiamo alla necessità che hanno le figure executive delle società di saper gestire un team in remoto scegliendo gli strumenti adeguati (il contesto giusto per una particolare comunicazione) mantenendo la leadership, governando il processo sia dal punto di vista dell’infrastruttura informatica sia dal punto di vista delle relazioni umane, evitando così situazioni di rischio.

Prevedere il futuro permette ai vertici di attuare strategie di risparmio energetico e/o economico e pianificarle nel tempo; di attivare risorse umane e infrastrutturali; di mettere in campo mosse per attrarre una nuova generazione di onboarding che non ha nulla in comune con la precedente. Per non disperdere energie, risorse e capitali, le aziende devono sapere cosa fare. Una certa logica quantitativa oggi suggerisce che solo nei dati e nella loro elaborazione si trovino le risposte al governo dell’incertezza: è davvero così? I dati, in riferimento a ciò che è noto, sono precisi e diventano contenuto utile per perfezionare il modello decisionale. Tuttavia ci sono tipi di rischio su cui non è possibile avere dati. Sull’ignoto, la precisione dei dati non è una proprietà essenziale e la loro veloce elaborazione da parte dei calcolatori non può essere impiegata.

In realtà si può supporre che sia la quantità stessa di dati di cui oggi disponiamo – e la qualità delle informazioni che i dati, aggregati, possono generare – a essere ostativa al processo decisionale. I pericoli sono tre: (i) lavorare alacremente per ottenerli a qualunque costo anche là dove non possono esserci, (ii) paralizzare l’intento strategico di fronte all’impossibilità di ottenere dati rispetto a un determinato scenario futuro e (iii) negare o non considerare uno scenario futuro perché ritenuto poco probabile o povero di dati in ingresso.

Prendere decisioni anche in assenza di dati specifici attingendo ad altri metodi e fattori – che, possiamo dire, riguardano più l’uomo e meno la macchina, o più l’aspetto semantico che quello sintattico, se vogliamo – è uno degli elementi messi in evidenza dalla nuova Scienza del Rischio.

Nel dibattito sulle nuove generazioni

Il dibattito sul futuro concernente le nuove generazioni è fonte di grandi contraddizioni intrinseche. Chi ha potuto vedere gli ultimi brandelli di trasposizione tecnologica dall’analogico al digitale sta per entrare con non poca fatica nell’età di mezzo, e nel frattempo la costruzione e la divulgazione della mappa del rischio del mondo digitale, necessaria per viverlo, sono delegate a una generazione che, nella maggior parte dei casi, non ha gli strumenti per poter creare un dialogo intergenerazionale attraverso un linguaggio condiviso.

Sull’uso della tecnologia digitale e sulla gestione consapevole della propria identità e cittadinanza digitale siamo ancora ben lontani dal poterci definire completamente alfabetizzati. Manca un programma di formazione dedicata e l’istruzione pubblica non accelera questo processo perché attenta a gestire questioni ben più fondamentali e l’attività è lasciata alla discrezione del singolo insegnante, formatore o educatore, sebbene vi siano linee guida per l’agenda digitale nazionale e per la Media Education in quasi ogni regione, Stato e nelle direttive europee.

Questo quadro non riguarda solo l’ambiente scolastico preso in esame, ma tutti i luoghi di dialogo intergenerazionale: le famiglie, le scuole, le accademie, i luoghi sociali, le aziende, le organizzazioni e non meno gli ambienti digitali, invisibili ma parimenti frequentati.

Il futuro sembra essere, innanzitutto, un problema di comprensione del contesto e di comunicazione tra le parti. Le domande che ci siamo sentiti porre, in questi anni, sono: come gestisco la tecnologia in famiglia? Quale posizione si deve tenere nei confronti della tecnologia digitale nel tessuto sociale? Si possono far utilizzare i dispositivi elettronici ai figli preservandoli dal rischio? Come attrarre la loro attenzione più di quanto lo faccia un dispositivo con accesso a Internet? Come ripensare la scuola per renderla più aderente alla realtà esterna in modo che non sia un luogo ad alto tasso di astrazione? Come insegnare in un contesto in cui il digitale è pervasivo senza utilizzare il digitale? O ancora: come attrarre in azienda nuove generazioni con attitudini e desideri differenti rispetto al passato e, soprattutto, come convincerle a restare?

Nel dibattito mediatico

Il problema del futuro nel regime discorsivo mediatico, ovvero quello che si crea, si trasforma e si diffonde attraverso i media – dove per media s’intendono tutti i mezzi di comunicazione di massa, da quelli tradizionali ai media digitali – oltre a modellare e creare porzioni di realtà, pervade la quotidianità e influenza la conoscenza del mondo in quella parte di popolazione globale che può accedere alla rete Internet.

Una connotazione dei media teorizzata svariati decenni fa e ancora più attuale nei media digitali è chiamata agenda setting e afferma che i temi di discussione vengano suggeriti dai media stessi, che scelgono di trattare con enfasi alcuni argomenti e di non trattarne altri. Ovviamente affermare che i media «scelgono» di trattare un argomento è una personificazione; la decisione è in capo a chi gestisce quel media, sia esso il proprietario, la tech company o l’editore.

Le conseguenze dell’agenda setting possono essere considerevoli: pensiamo all’informazione televisiva durante la pandemia Covid-19, indirizzata a saturare il telespettatore polarizzandolo ora verso l’allarmismo, ora verso la reiterazione compulsiva di notizie e informazioni monotematiche, con la possibilità di ottenere, in entrambi i casi, reazioni non funzionali alla gestione dell’ordine sociale; gestione che invece dovrebbe essere uno dei principali elementi a cui prestare attenzione durante una pandemia su scala globale e che è una responsabilità dalla quale i media non possono esimersi.

Se volessimo tracciare una topografia della nostra posizione nella rete Internet nel momento in cui scorriamo il nostro feed su Facebook, nella più becera delle semplificazioni potremmo disegnare diversi cerchi concentrici: il più grande, Internet, al cui interno troviamo il protocollo Http con cui accediamo al World Wide Web (la porzione di Internet a cui abbiamo accesso nella navigazione «classica» per la maggior parte degli utenti), al cui interno troviamo il social network summenzionato, al cui interno troviamo la nostra personalissima echo chamber, o filter bubbleche dir si voglia, al cui interno troviamo la nostra identità digitale manifestata attraverso un avatar. L’utente, nella maggioranza dei casi, non ha la cognizione della topografia dell’infrastruttura digitale, inoltre è «dopato» dalla serotonina generata dai confirmation bias della echo chamber, che gli restituiscono una porzione di realtà digitale falsata che conferma e rafforza le sue convinzioni, anticipa i suoi desideri e lo tiene al riparo da «minacce» all’ordine supposto36 in una condizione di «eterno presente».

Nella rete ipertestuale (da hyper-text: testo non lineare, che segue un percorso di hyper-link) il problema del futuro non esiste se non nella dimensione squisitamente narrativa. È delegato:

• al gioco e alla simulazione visiva del futuro tramite la manipolazione di immagini e grafiche, come avviene con alcune app e giochi online;

• al racconto di chi parla del futuro: in un contesto dialogico in cui è decaduto il principio di autorità, sono stati defenestrati i gatekeepers ed è stato suggellato il trionfo dell’esperienza diretta dell’uomo comune sulla competenza dell’uomo che sa;

• alla memoria, cioè a tutti gli elementi depositati nell’archivio invisibile e alle tracce lasciate dagli utenti che connettono alla dimensione temporale della navigazione online. La memoria è al contempo costruzione, «apertura di futuri possibili» e dimenticanza, oblio, che per il linguista e semiotico russo Jurij M. Lotman è una «modalità costitutiva della cultura».

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