Economia civile

La casa post-covid esiste già. Ed è vuota

15 Maggio 2020

Come da molti rilevato, l’attuale crisi interroga in modo fondamentale la dimensione dell’abitare. Questa è una crisi globale, con un forte andamento domestico e in misura significativa dalla qualità del nostro spazio abitativo è dipeso il livello di benessere dell’esperienza di questa lunga quarantena.

Come inevitabile, e con una certa mancanza di prudenza, si sono subito levati gli appelli da parte di architetti e promotori immobiliari riguardo la necessità di pensare la casa post-covid. Imprudenti perché ovviamente siamo ben lontani dal poter valutare quanto la presente crisi muterà nel medio periodo gli stili di vita, e soprattutto gli stili di vita urbani. Ma anche perché allo stato delle cose la casa post-covid assomiglia giù molto alle abitazioni dei ceti superiori, che hanno rapidamente scoperto che il disporre di abitazioni di grandi dimensioni, con spazi aperti e dotate di elevati livelli di confort rappresenti un vantaggio che, nel contesto di un regime di confinamento cui siamo stati costretti, diviene un vantaggio propriamente strategico.

Quindi, l’intensa mobilitazione discorsiva fatta di prese di posizione e interviste che annunciano cambiamenti epocali dell’industria immobiliare sul futuro post-covid sembra da questo punto di vista molto retorica. Da una parte perché i ceti superiori ce l’hanno già la casa post-covid, dall’altra perché questa casa post-covid non pare essere in alcuna misura un orizzonte realistico in un contesto che sarà segnato per anni da una profondissima crisi economica e sociale, una crisi entro la quale il riconoscimento del diritto umano a una casa degna per tutte e per tutti sarà una delle priorità più urgenti. Probabilmente, questa attiva mobilitazione discorsiva segna il forte disorientamento di questi attori rispetto alle prospettive future del settore, che paiono decisamente incerte se non allarmanti.

Per la verità, guardando a quello che già sappiamo osservando il dispiegarsi degli effetti della crisi, già conosciamo qual è la “casa post-covid”.  La prima casa “post-covid” è sopratutto vuota, ed è ben rappresentata dal consistente patrimonio urbano e non solo urbano che rimarrà vuoto o sotto-utilizzato a causa della forte contrazione del turismo e forse anche della riduzione della mobilità fra diverse aree del paese – segnatamente fra quelle “deboli” e quelle “forti” – per motivi di studio e di lavoro. Si tratta di patrimonio reale e non immaginario, talvolta concentrato nei centri delle grandi aree metropolitane altre volte in altri contesti, e che realisticamente solo in parte potrà fare leva sulla rinazionalizzazione del turismo che si produrrà realisticamente nei prossimi mesi protraendosi forse nel medio periodo: gli italiani che faranno le vacanze in Italia saranno comunque meno degli stranieri che sarebbero arrivati in assenza di questa crisi. Cosa fare con questo patrimonio è una domanda che affligge molti, senza dubbio i proprietari che avevano di frequente scommesso sugli elevati margini degli affitti brevi, ma anche le amministrazioni comunali che avevano puntato sul turismo per sostenere non solo l’occupazione ma anche le proprie entrate fiscali. Un ritorno all’abitare, ed alla diversità di funzioni che un uso residenziale comporta, è invocato da molti ma di certo il “mercato” non si ristrutturerà in modo ottimale da solo. E una gran parte della proprietà di questo patrimonio – dai grandi ai piccoli – con difficoltà accetteranno l’orizzonte di un uso diverso, come egualmente non sarà facile attrarre popolazione in aree che oggi sono desolatamente mono-funzionali e non pensate per una buona vita quotidiana.

L’altra casa “post-covid” è in realtà un ufficio. L’altra cosa che sappiamo già oggi è che una parte consistente degli investimenti realizzati negli ultimi decenni, investimenti decantati quale segno della rinascita di aree urbane prima in declino, ha condotto alla formazione di estesi patrimoni edilizi di straordinaria fragilità. La realizzazione di grandi torri terziarie completamente sigillate e condizionate è stata salutata come simbolo potente di modernità e innovazione quando, a ben vedere, rappresentavano forse l’ultima potente eredità di una concezione fordista della città. Mentre gli studiosi parlavano del ruolo delle funzioni urbane ibride e della mixité – apparentemente più in linea con le domande del nuovo capitalismo, o evidentemente solo di una sua parte – il capitale più organizzato investiva viceversa e massicciamente in grandi realizzazioni mono-funzionali e straordinariamente poco versatili.  Realizzazioni che peraltro ignoravano platealmente una tendenza che prima già esisteva e che con questa crisi ha subito un’imponente accelerazione: quella della diffusione del lavoro a distanza e più in generale della smaterializzazione di molti processi produttivi. Ora queste torri, a Milano come in molte città d’Europa, sono in gran parte vuote – si vedano i dati diffusi alcuni giorni fa dal Sole 24 Ore – e probabilmente non torneranno mai ai livelli di utilizzo precedenti. Anche il loro destino, come il destino degli altri miliardi di investimenti in questo segmento, appare ora decisamente poco chiaro. Il loro sotto-utilizzo creerebbe seri problemi finanziari ai proprietari, che spesso di queste nuove realizzazioni sono stati gli stessi finanziatori, rendendo non impossibile un destino di parziale dismissione, come capitato in passato per altre grandi realizzazioni mono-funzionali (le fabbriche).

Le nostre città sono come noto organizzazioni complesse, nelle quali il principio di specializzazione – vogliamo sempre più turisti e uffici e allora i turisti li mettiamo qui, gli uffici lì  – storicamente è in tensione con il suo opposto: una sorta di principio evolutivo che solo in parte riusciamo pienamente a carpire e che muove dalla combinazione anche informale fra usi, popolazioni, patrimoni. Quella che sta entrando in crisi in questi mesi è soprattutto la città dei patrimoni organizzati sulla base del primo principio, che è il principio che più facilmente maneggiano il capitale finanziario, quello immobiliare e politiche pubbliche che troppo spesso si affidano alla concezione che del futuro hanno questi attori. Una concezione molto disinformata, direi addirittura sciatta, se ad esempio il “lavoro a distanza” non era considerato quale tendenza fondamentale degli anni a venire. E se la trasformazione di parti consistenti delle nostre aree urbane in mono-funzioni destinate a popolazioni temporanee non era considerata un rischio, in un’era di crisi globali successive quali il terrorismo e gli shock climatici fino all’epidemia di oggi. La mono-funzione e l’orientamento intensivo verso la congiuntura di mercato del momento da questo punto di vista riduce i rischi a breve termine per il capitale, ma li aumenta enormemente per la collettività.

Da questa crisi dovremo uscirne con una concezione molto più complessa delle nostre città, una concezione nella quale la rappresentazione del “mercato” che ne danno i detentori dei grandi e medi capitali non siano confuse con il mercato di per sé, che può essere una cosa molto diversa (e in gran parte ancora da scoprire), e nella quale più in generale nessuno pensi che tale mercato sia depositario della più informata, e quindi più completa e prudente, visione del futuro. Nell’età dell’incertezza, nella quale una pandemia può trasformare magnifiche e progressive sorti in una distopia, dovremo costruire visioni della città autenticamente collettive e plurali, e per questo più fondate cognitivamente e più legittime socialmente. Visioni entro le quali confluiscano preferenze, sensibilità e informazioni di una qualità e di dimensioni infinitamente superiori rispetto a quelle di oggi.

Le città, nell’era dell’incertezza, non si costruiscono solo con i rendimenti a breve, perché chi ha il capitale non necessariamente possiede anche l’intelligenza della città. Quella appartiene a tutti quelli che la città la abitano e attraversano. Anche agli esperti, certo: ma ad esperti di molti saperi e condizioni diverse, senza i quali non potremo costruire una visione credibile dell’avvenire.

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