Economia civile
Il terzo settore e le politiche: tra tavoli e realtà
L’intervento del professor Fabbrini sul Sole 24 Ore di qualche giorno fa ha contribuito a rilanciare un tema classico delle democrazie liberali ovvero il ruolo delle “organizzazioni sociali” come attori delle politiche. Nel caso dell’Italia contemporanea, e in piena campagna elettorale, non si tratta di una mera riproposizione perché l’“offerta” intermediata da partiti e coalizioni è ormai strutturalmente incapace di generare soluzioni condivise rispetto a sfide economiche e sociali di natura sistemica. Insomma: policy e politics sempre più distanti.
In questo quadro può essere interessante approfondire il ruolo del terzo settore – un comparto composto da associazioni, fondazioni, imprese sociali ora dotato di una identità giuridica unitaria – che svolge un ruolo cruciale sia come infrastruttura della società civile come osservato da Tocqueville in avanti, sia per il contributo a politiche pubbliche di innovazione che Mariana Mazzucato definisce mission oriented perché situate all’incrocio tra dinamiche top down e bottom up. Rispetto a questa impostazione che assegna un ruolo importante a organizzazioni anche private ma con finalità pubbliche che operano al “mezzanino” dei processi di policy making trasformativo, i dati del nuovo censimento permanente Istat dedicato alle istituzioni nonprofit restituiscono un quadro sfaccettato. A fronte una crescita complessiva, ormai di medio periodo, dell’intero comparto (+2,5% annuo nel quadrienno 2011-2015 per un totale di 336mila unità), si nota un trade-off rispetto all’attività di “rappresentanza”. Da una parte cresce la presenza del nonprofit ai “tavoli” della programmazione delle politiche (il settore «relazioni sindacali e rappresentanza di interessi» cresce del 21,5%), ma dall’altra si nota un indebolimento della capacità di advocacy rispetto a nuove istanze e bisogni sociali (il settore «tutela dei diritti e attività politica» diminuisce del 22,9%). Un processo di istituzionalizzazione che restituisce un comparto finalmente accreditato nel dialogo istituzionale (come plasticamente rappresentato dal nuovo “Comitato nazionale del terzo settore“), ma forse poco “responsive” rispetto a una società mutata nella stratificazione socioeconomica e politico culturale.
Questo divario può forse essere riequilibrato, in primo luogo, attraverso una strategia di digital transformation che, come dimostrano le esperienze di governo aperto mappate dall’inserto Nova nello stesso numero del Sole, si configura non come mero efficientamento, ma come innesco di più profondi processi di cambiamento organizzativo e ridisegno dei servizi facendo leva su comunità che ibridano ruoli tradizionalmente separati: produttori, consumatori, finanziatori. In secondo luogo la recente riforma normativa può consentire al terzo settore di riconfigurare le sue stesse forme di rappresentanza non solo per esigenze di autotutela, ma anche di promozione di istanze di interesse pubblico coerenti con la propria missione. Il nuovo codice del terzo settore consente infatti di costituire “reti associative” aggregando enti appartenenti a questo ambito che, raggiunte determinate soglie (100 enti di terzo settore di varia natura o 20 di sole fondazioni e, se a livello nazionale, 500 enti di terzo settore o 100 fondazioni) possono operare come policy maker, rilanciando così il ruolo di questi attori sia come motori di democrazia sostanziale che contribuiscono a ridefinire l’agenda delle priorità (societal challenges), sia come strutture di implementazione di nuove politiche di sviluppo.
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