Economia civile
Gli spazi collaborativi delineano una catena del valore Post Porter?
Da anni si anima un interessante dibattito circa la fine o il superamento del capitalismo così come lo abbiamo conosciuto nel ‘900 e ciò viene spiegato, argomentato e discusso prendendo come focus il cambiamento della società, il risposizionamento strategico delle più importanti corporations, l’innovazione tecnologica e sociale, i nuovi bisogni delle comunità e così via.
Scarsa attenzione, a mio avviso, è stata posta sull’evoluzione dell’elemento alla base del paradigma economico novecentesco, ovvero la Value Chain.
In altre parole: se è vero che c’è un cambiamento epocale, se tutto ciò non è solo il frutto di speculazioni intellettuali ma trova fondamento nelle dinamiche economiche e sociali, allora il modo in cui le organizzazioni creano valore dovrebbe essere cambiato.
La domanda di ricerca che mi sono posto, quindi, è abbastanza immediata. Verifichiamo se effettivamente, nel passaggio da un’economia transazionale verso un’economia collaborativa, la catena del valore che rappresentava le organizzazioni dell’economia transazionale sta cambiando e in che modo.
Per rispondere a questa domanda ho preso in esame 25 spazi collaborativi di Roma (con l’intenzione di estendere il campione a molti più spazi e molte più città), intendendo gli spazi collaborativi per definizione le organizzazioni dove avrei potuto riscontrare più immediatamente eventuali cambiamenti della catena del valore.
Il modo in cui le organizzazioni creano valore è stato definito, appunto, Value Chain da Micheal Porter, che ha raffigurato con una semplice freccia il concetto di fondo del capitalismo.
Il simbolo della freccia trasmette immediatamente un messaggio: per creare valore occorre andare in una direzione, punto.
E subito dopo, per creare valore occorre trasformare input in output organizzando una serie di attività primarie e di supporto in modo che il differenziale fra il valore generato in output e il valore impiegato in input e nella loro trasformazione sia il massimo possibile.
Tutto ciò è misurabile in base alla grandezza dell’area finale della freccia, quella in cui si rappresenta il margine, ed è la raffigurazione aziendale delle funzioni matematiche di massimizzazione del profitto.
Ebbene, se il paradigma economico sta davvero cambiando, questa raffigurazione sta cambiando con esso.
Prima di venire ai findings, qualche considerazione. Innanzitutto, come detto, la freccia indica un senso unico, direi più appropriatamente univoco, all’ottenimento dei risultati che un’organizzazione si propone di raggiungere. Ma l’aspetto che ritengo di maggior interesse è la delimitazione dei confini della freccia stessa: l’organizzazione che trasforma input in output è delimitata rispetto all’ambiente esterno da una linea netta, che separa l’ambiente interno (quello in cui avviene la trasformazione) dall’ambiente esterno (quello con cui l’interno interagisce, in ultima analisi, per ottenere il valore della trasformazione).
La società è fuori dall’organizzazione e con essa interagisce in specifici casi (acquisto di input, selezione di risorse umane, logistica e marketing).
Venendo ai findings, dunque, ecco cosa ho notato di differente negli spazi collaborativi.
Innanzitutto la forma della catena del valore non appare come una freccia, bensì come un cerchio. Ciò sta ad indicare una molteplicità di direzioni possibili per la creazione di valore e la capacità di combinare ambiente interno ed esterno in un processo di co-creazione del valore.
Uno spazio collaborativo, infatti, riesce ad evolvere nella sua value chain se incorpora la società nel suo processo evolutivo, e, per farlo, non potrà avere una linea netta a separarlo dall’esterno. Avrà, piuttosto, dei confini sfumati, ibridi che ridisegneranno il perimetro organizzativo in un continuo di interazioni che gli consentono di configurarsi come piattaforma abilitante attraverso l’incontro fra la comunità di coworker e l’intelligenza condivisa che non necessariamente risiede all’interno dello spazio stesso.
Divenire una piattaforma abilitante vuol dire offrire uno spazio alle idee innovative di quell’intelligenza diffusa che, attraverso uno spazio collaborativo, avrà gli strumenti, il supporto e le relazioni per trasformarle in progetti di cambiamento. È, in altre parole, la piattaforma per il fare società, per abilitare (appunto) quegli attori che si muovono nel paradigma del Societing (cfr. Alex Giordano e Adam Arvidsson).
Da tale piattaforma nascono nuove opportunità, nuovi lavori, nuove imprese (il fondatore di Millepiani, Enrico Parisio, un pioniere di questa concezione del co-working, spiegherebbe come siano potute nascere 15 imprese in 1 anno nel suo spazio di co-working).
E uno spazio con queste caratteristiche intercetta molti degli obiettivi che si pongono le Istituzioni locali e non, divenendo un interlocutore con funzioni simil pubbliche in alcuni casi e una gestione snella, informale e orientata ai risultati.
Come rendere tali spazi un’opportunità per il nostro Paese per mettere intelligenze e competenze a disposizione di una nuova Agenda per l’Italia?
Questa, a mio avviso, è la vera sfida, che incrocia politica e politiche pubbliche, il nuovo ruolo della finanza e dell’imprenditoria, un nuovo concetto di lavoro e di reddito e uno sforzo enorme nel riconsiderare le certezze novecentesche rimettendo in discussione i paradigmi tradizionali.
Di questo, e di molto altro, si parlerà ad Espresso Coworking (http://2015.espressocoworking.it/) a Milano nei prossimi giorni, e fra tante domande e dubbi che verranno affrontati c’è un elemento ormai acquisito: esiste una comunità di innovatori sociali in Italia che inizia a costruire una coscienza condivisa e ad esprimere una domanda di innovazione autentica.
Verrà da qui la nuova classe dirigente del Paese? Io inizio a crederci!
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