Economia civile
A cinquant’anni dal terremoto della Valle del Belice
Certamente avrà pesato la difficile stagione politica che stiamo vivendo, ma, anche, la sempre più evidente disattenzione dell’opinione pubblica rispetto al passato, anche quello recente, troppo spesso sacrificato ad un presente di deboli radici, ma è un dato evidente che questo cinquantesimo anniversario del tragico evento che ha sconvolto la Valle del Belice, con i drammatici risvolti umani e sociali che ne sono seguiti, sembra essere passato sotto silenzio.
La stampa non ha, infatti, dato il risalto che avrebbe dovuto dare e le popolazioni interessate, che ne vivono ancora sulla loro pelle i relativi disagi, forse per stanchezza o per disillusione hanno preferito non ricordare.
Il terremoto del 1968 è stato una sorta choc per la nostra democrazia, in quanto ha messo drammaticamente a nudo lo stato di arretratezza e ha anche a offerto all’opinione pubblica, spesso disattenta, l’immagine chiara delle drammatiche condizioni economiche di quelle aree dove l’unico sbocco reale ha continuato ad essere l’emigrazione.
Non era un caso, infatti, che le popolazioni residenti in quei paesi fossero composte in gran parte da vecchi, donne e bambini, visto che i giovani e gli uomini, i lavoratori e i contadini, le forze cioè che muovono l’economia, avevano già da tempo abbandonato il Belice in cerca di lavoro o migliori condizioni di vita.
A questo punto c’è da chiedersi se ci sia stata una risposta adeguata dello Stato.
Purtroppo, gli interventi successivi al sisma registrarono l’iniziale inerzia dei pubblici poteri ma anche l’evidente impreparazione logistica, con la conseguenza dei ritardi nella ricostruzione, che provocarono una quota aggiuntiva di popolazioni costrette all’emigrazione e lo squallore delle baracche per coloro che restavano.
Un mese dopo il sisma, nella sola provincia di Trapani 9.000 senza tetto erano ricoverati in edifici pubblici, 6.000 in tendopoli, 3.200 in tende sparse e 5.000 in carri ferroviari, mentre 10.000 persone erano emigrate in altre provincie.
L’improvvisazione e l’impreparazione hanno fatto sì che gli abitanti siano dunque vissuti per mesi nelle tendopoli e poi per anni nelle baraccopoli.
Così avveniva che nel 1973, a cinque anni dal terremoto i baraccati erano 48.182 e che nel 1976, a otto anni dal tragico evento, erano ancora 47 mila.
Le ultime 250 baracche, con i tetti in eternit, alla faccia del pericolo amianto, furono addirittura smontate nel 2006, ed erano trascorsi già 38 anni.
Dunque gli stanziamenti economici per la ricostruzione sono stati infatti tardivi, spesso non adeguati e perfino incoerenti con le vocazioni reali del territorio.
Le ricostruzioni, a parte le lunghe discussioni, talora di carattere meramente ideologico, diedero luogo anche a opere faraoniche spesso inutili per ridare vita e rilanciare il territorio.
In qualche caso si è dato perfino spazio al sogno dimenticando che il sogno di deve confrontare con la dura realtà quotidiana della lotta per la sopravvivenza.
Un esempio per tutti quello della costruzione della nuova Gibellina, fortemente voluta e promossa da un creativo-sognatore qual è stato il senatore Ludovico Corrao, allora sindaco del paese.
Nel luogo dove venne trasferita Gibellina, con grande profusione di risorse è stata infatti realizzata una città-museo “en plein air” – forse unico esempio di land-art italiano. Cosicché Gibellina venne elevata a simbolo della ricostruzione in quanto progettata da famosi architetti e artisti che generosamente hanno offerto gratuitamente la propria opera.
Ma quella città – ripeto opera insigne – ha dimostrato i limiti dell’impegno di ricostruzione, e si è rivelata sostanzialmente una cattedrale nel deserto, al punto da poterla definire una sorta di conato di edonismo. La nuova città sia stato mal pensata avendo riferimento ai fattori più importante che sta alla base della ripresa economica, ovvero l’occupazione lavorativa per gli abitanti e i luoghi di socializzazione degli abitanti.
Ho citato Gibellina come luogo emblematico, ma gli errori e le mancanze sono state tanti e, spesso, gravi.
Si pensi alla ferrovia Salaparuta-Castelvetrano, che collegava la maggior parte dei centri dell’area terremotata con la zona costiera, ci si può chiedere per quale motivo non sia stata ricostruita, nonostante, dati alla mano avesse una utenza di tutto rispetto che la rendeva, caso raro in tema di trasporti pubblici, perfino competitiva.
Fu ad esempio finanziata e costruita l’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, opera abbastanza utile ma non tanto di come lo sarebbe stata la riattivazione della viabilità ordinaria di collegamento tra i centri abitati, opera più essenziale ed urgente, che invece ha languito per lungo tempo.
Gli anni che seguirono il terremoto furono costellati da appalti, buone intenzioni, proclami, stanziamenti reali e qualcuno solamente figurativo che hanno prodotto inutili polemiche.
Fatto sta che ancora oggi non tutto è stato ricostruito; e tornano così attualissime le lotte che Danilo Dolci intraprese a favore della popolazione e contro il malaffare politico-mafioso.
Così il Belice è divenuto, nell’immaginario collettivo, la metafora dell’inefficienza e delle difficoltà dell’apparato pubblico italiano, il simbolo dello spreco, del disordine e della corruzione. In realtà lo spreco sbandierato ai quattro venti alla fine non c’è stato almeno nei termini in cui lo si è voluto denunciare.
Ma è anche, ingiustamente, divenuto – ed è questa forse la cosa più grave in un Paese che per cultura dovrebbe essere solidale – alimento per polemiche che non fanno onore a cominciare dai commenti segnatamente razzisti con cui si bollarono le popolazioni locali che in realtà non ebbero colpe.
Per dare contezza di quanto scritto basta soffermarsi sui dati a consuntivo relativi alle risorse effettivamente stanziate dallo Stato all’anno 2014. Ebbene, per il Belice sono stati impegnati, in valori correnti, in totale 9179 milioni di euro, per il terremoto del Friuli del 1976, 18.540 milioni di euro, per l’Irpinia, del 1980, 52.026 milioni di euro, per l’Emilia del 2012, 13.300.
Ogni commento mi pare inutile.
L’articolo nasce dalla presentazione del libro di Vito Bellafiore “Storia del Belice, dal terromoto alla ricostruzione negata”
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