Economia e Lavoro

Curriculum inutile: perché raccontare i propri titoli a persone morte?

16 Dicembre 2014

Una sola volta ho presentato un curriculum. La casa editrice era straniera – svedese con sede a Londra – e opportunamente non si fidavano di me. Alla fine mi hanno preso, credo per ciò che ho detto e non per ciò che avevo fatto. Nelle altre occasioni l’ho sfangata, ho sempre fatto in modo di non presentarlo, mi sembrava una perdita di tempo e, onestamente, irrispettosa della mia professionalità. Nel rapporto di lavoro Italia-Italia, considero l’esame del curriculum una forma assolutamente sterile, sostanzialmente inutile, del tutto priva di quegli elementi di conoscenza psicologica che compongono una seria valutazione, mentre lo trovo indispensabile nel rapporto estero-Italia, certo per l’ovvia distanza ma soprattutto perché all’estero sanno perfettamente cosa vogliono e perché.

Dunque non mi ha molto sorpreso la notizia secondo cui l’offerta di un contratto di apprendistato da 22mila euro l’anno, uso di telefonino e altri benefit per un posto da “sales account” rivolto a giovani neolaureati, è andata sostanzialmente inevasa. Le spiegazioni che danno gli esperti di selezione e formazione personale andrebbero dal mito mai passato di moda del posto fisso statale (concorsi vari) alla mancata corrispondenza tra le aspettative di chi cerca lavoro e chi invece lo offre. Un fenomeno che ha anche un nome preciso: mismatching. Lo spiega così Federico Vione, a.d. di Adecco: «I giovani sono flessibili, ma è sempre più frequente il caso in cui le competenze di chi cerca lavoro non corrispondono a quelle ricercate dalle aziende. Ci si laurea e ci si diploma in discipline non idonee alla richiesta da parte del mondo del lavoro. Ad esempio, ci sono troppi giovani che scelgono carriere umanistiche, mentre sono pochi quelli che intraprendono un percorso tecnico, che al contrario viene richiesto dalle aziende». Quindi, secondo la stravagante teoria dell’ad di Adecco, oggi il giovane Marchionne, padrone incontrastato di Fiat, sarebbe al palo visto che è laureato in filosofia.

La mia personalissima teoria è che in Italia sia andata persa la grande scuola della conoscenza umana e psicologica, che un tempo formava sia la classe dirigente, sia la classe media che quella operaia e che ha fatto grande questo Paese nel dopoguerra. Una scuola in cui il curriculum era certamente importante, ma arrivava alla fine di un’indagine introspettiva in cui certi particolari, certe sfumature, le passioni personali, le deviazioni sul tema, piccoli quadretti intimi o familiari, componevano un quadro dialettico all’interno del quale ci si poteva formare un’idea compiuta della persona che  avevi di fronte in un colloquio di lavoro. Al termine del quale, si poteva allora aprire il curriculum per corroborare certe sensazioni.

Morta la scuola di chi valuta, di chi deve giudicare su molti basi oltre a quelle puramente tecniche di un nudo e inanimato curriculum, è del tutto evidente la conseguenza di cui parlano questi nuovi “formatori”: la mancata corrispondenza tra chi offre e chi cerca. Se non c’è la voglia, la curiosità, persino il piacere di incunearsi nell’animo umano per capirne le pieghe, per farsi sorprendere, magari anche negativamente, è del tutto pretestuoso parlare solamente per titoli professionali. Non ci sarà mai corrispondenza, non si troverà mai su carta il dirigente, l’impiegato, l’operaio ideale.

Per cui, consiglierei una strategia “eversiva” ai giovani che vanno a un colloquio di lavoro. Lasciate a casa il curriculum, mandatelo a memoria e dichiaratevi disponibili a recitarlo impeccabilmente a voce. La vostra (finta) spavalderia produrrà certamente una sorpresa e non è detto che sia necessariamente negativa.

 

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