Cooperazione
Piattaforma cooperativa o cooperativa piattaforma?
Piattaforma cooperativa o cooperativa piattaforma? Questa è la domanda che sottende molte delle riflessioni affacciatesi negli ultimi anni al crocevia che sovrappone Terzo Settore, nuova impresa sociale e innovazione. Da un lato la crescita esponenziale del modello piattaforma supportato dalla sovrabbondanza delle infrastrutture digitali, dall’altro la resilienza per molti versi inaspettata del mondo dell’economia sociale capace, anche in anni di grave crisi e contrazione delle risorse pubbliche, di rimanere in linea di galleggiamento, come ci testimoniano dati Istat dell’ultimo decennio (anche e soprattutto sul fronte occupazionale). In mezzo gli sforzi di studiosi e practitioner di tenere insieme in modo perspicuo i due termini della questione che, a un surplus di riflessione, non appaiono affatto omogenei. In effetti se la questione della piattaforma cooperativa, che si interroga sulla necessità di democratizzare il web, di assicurare un’equa ridistribuzione del valore generato e una tutela della privacy degli utenti, ha attirato le attenzioni globali come testimoniano la convention tenutasi a New York del 2015 e quella prossima a Londra Open 2017, meno interesse, almeno a livello mainstream, ha raccolto il tema di come le organizzazioni del “Settore Plurale” per citare lo studioso canadese Henry Mitzberg, stiano raccogliendo le sfide dell’innovazione connesse all’emersione di nuovi modelli di business e di nuove modelli d’impresa. Eppure su questo punto, almeno a giudizio di chi scrive, si gioca la sfida di un Terzo Settore davvero in grado di immaginare nuovi scenari, nuove pratiche e nuove visioni di società.
Un interessante punto di partenza è il combinato disposto delle riflessioni di Flaviano Zandonai esposte in un suo recente post, che potete leggere qui, e quanto elaborato da Simone Cicero nel suo “White Paper Platform Design Toolkit“. Se il secondo ci propone infatti una framework per capire le ragioni dell’affermarsi del modello piattaforma, i suoi blocchi costitutivi e le condizioni per una sua scalabilità, il secondo si concentra su una sua applicazione al perimetro, necessariamente variegato e polifonico, dell’impresa sociale. Nello specifico la domanda di Zandonai è la seguente: come si fa a diventare piattaforma? La risposta è articolata ed ha il pregio di partire da un caso concreto, la cooperativa bergamasca Sottosopra, evidenziando come alcune delle azioni intraprese da quest’ultima nel corso degli anni siano in sincrono con alcuni degli attributi tradizionalmente associati alle piattaforme. L’analisi è preziosa, uno dei pochi contributi sul tema, ma lascia sottotraccia un punto fondamentale, ovvero perché una cooperativa o un’impresa sociale vorrebbe/dovrebbe “farsi” piattaforma? La motivazione “estrinseca”, recuperare attraverso una riconfigurazione della propria value chain risorse economiche, sociali, relazionali in un contesto storico di comprovata scarsità, è lampante e auto-evidente, ma ce n’è un’ulteriore che ha a che fare con la mission storica dell’impresa sociale che è quella, ricordiamolo, di creare beni di relazione. Una missione che si traduce nella necessità di intercettare bisogni sempre più frammentati e sfaccettati che ormai nessun consorzio di servizi sociali, nessun assessorato alle politiche sociali è in grado di leggere, interpretare e, ovviamente, soddisfare (in modo efficace ed efficiente).
Scrive infatti Simone Cicero che il punto di forza dell’azienda piattaforma rispetto ai tradizionali modelli di business lineari è la capacità di offrire una miglior risposta ai bisogni e alle esigenze dei mercati long tail , un segmento ad alta concentrazione caratterizzato da un altissimo livello di eterogeneità, attraverso hub abilitanti che permettono agli individui di “autorganizzarsi e creare la maggior parte del valore tramite interazione, creazione di relazioni e transazioni di valore, riducendo quindi radicalmente il costo marginale” (senza incorrere nel rischio della eccessiva burocratizzazione). Questa altissima personalizzazione del mercato di massa, non è forse la stessa situazione che, mutatis mutandis, fronteggiano quotidianamente gli operatori del sociale e tutte le organizzazioni che operano a vario titolo nel campo del Terzo e Quarto Settore? Insomma, se la realtà è sempre più plurale, se i bisogni sono sempre più sfaccettati, quanto rilevanza e quale reale impatto potranno (continuare) ad avere servizi top-down in una congiuntura storica contrassegnata, ripetiamolo, da una progressiva riduzione di risorse pubbliche (e da un’inesorabile tendenza alla disintermediazione)?
Quanto scritto porta alla mente le riflessioni di Burton Weisbrod che in un paper del 1978 “Nonprofit voluntary Sector: An economic Analisys” rinveniva la nascita del No-profit nell’esigenza di offrire quei beni e servizi a una fascia (all’epoca) minoritaria della popolazione, che nè lo Stato nè il mercato erano intenzionati ad offrire perchè o non indispensabili alla costruzione della maggioranza elettorale, nel primo caso, o perchè non coerenti con l’obiettivo di realizzare il massimo profitto (nel secondo caso). Una teoria, e una pratica, che ha funzionato finchè le “code”, per riprendere l’espressione sopra utilizzata, sono state quantitativamente limitate e qualitativamente omogenee, ma che rischia di essere inefficace nel momento in cui una percentuale sempre più alta dei cittadini è di fatto esclusa dai meccanismi di riproduzione sociale (leggi lavoro) e che richiede appunto l’applicazione di nuove logiche e nuove pratiche di inclusione e di attivazione dei cittadini.
Sebbene infatti la tenuta del settore plurale sia stata encomiabile in questi anni di crisi, essa è stata ottenuta principalmente lavorando lungo due assi: una profonda spending review interna ed esterna (leggi: riduzione dei servizi) in primis e una diversificazione delle fonti di revenue dell’impresa sociale in seconda battuta. Due passaggi doverosi e inevitabili in ogni caso ,ma che rischiano di far passare in secondo piano la necessità, e l’opportunità, di promuovere all’interno dell’impresa sociale forme di “innovazione trasformativa”, per far riferimento al concetto sviluppato da Peter Diamantis della Singularity University, capaci di portare “nuove strade verso la resilienza”, esplorare nuovi segmenti di clientela e attivare cambiamenti sistemici all’interno dell’organizzazione.
Il passaggio successivo, la concreta progettazione e realizzazioni di questi hub (centri) abilitanti, siano questi ultimi virtuali o reali (o entrambi, pensiamo ai community hub) è ovviamente la vera sfida che tutti noi abbiamo davanti, considerato la grande varietà di enti e strutture che afferiscono al concetto umbrella di impresa sociale. Così come andrà verificata la capacità di un’impresa sociale di mutuare una delle caratteristiche peculiari delle piattaforme, la capacità di essere un luogo di apprendimento e il miglioramento continuo per singoli e organizzazioni coinvolte. Un tema quello della formazione continua e dell’autoapprendimento che interroga in maniera importante il settore plurale sia perchè si tratta di un segmento produttivo ad alta intensità di lavoro (rispetto ai settori primario e secondario) sia perchè non si dà innovazione se non stimolata, corroborata e sostenuta da un processo formativo costante ed incessante. Ma questa è, a pensarci bene, un’altra questione meritevole di un altro approfondimento.
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